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Il viaggio più lungo



E' uno scherzo? E' pura fantasia? O esiste davvero un mondo regolato da leggi assurde e spietate? Ognuno decida. E decida se interrompere la lettura, qualora si sentisse ferito o offeso nella propria sensibilità.












Giocata

Sbatteva i pugni contro il doppio vetro, ma nessuno poteva sentirla. Lei invece poteva sentire tutto, attraverso gli altoparlanti installati agli angoli della stanza in cui era rinchiusa. Tornò a battere sulla pesante porta blindata, poi di nuovo sui vetri della finestrella. Diamine, non poteva fare nulla.
Quello scellerato di suo marito stava giocando un'altra volta d'azzardo E ovviamente stava perdendo. Prima l'auto, poi la villa, ora stava rilanciando impegnando l'appartamento in centro.
"Hei! Eeeeeii!!"
Non sentiva. Quel cretino! Senza rimedio. Di sicuro baravano, forse vedevano le carte da un'altra sala uguale a quella in cui si trovava lei. In ogni modo si stava facendo spennare come un pollo da quei furfanti... Ah, ma l'avrebbero pagata cara! Non avrebbero visto una lira, a costo di muovere tutti gli avvocati del foro, li avrebbe mandati a marcire in galera. E suo marito avrebbe avuto subito subito l'interdizione.
Maledì la sua curiosità. Era ovvio che l'avevano lasciata andare in giro a spiare per allontanarla mentre spennavano il marito. Troppo gentili, troppo amichevoli, troppo diversi dai soliti amici del marito, volgari giocatori dei professione. Invece era stata una serata diversa, una residenza signorile, uomini cortesi ed eleganti, discussioni di viaggi, bizzarri giochi di società, magari un po' stupidi, ma originali. E puliti. Eppure qualcosa le diceva di non fidarsi troppo. Si era insospettita, li aveva lasciati fare, ma a un certo punto si era allontanata per di andare alla toilette, mentre gli uomini parlavano di calcio, e si era messa a curiosare. Voleva vederci chiaro. Fino a quando non aveva trovato quella stanza spoglia, con la finestra tipo candid camera, certamente nascosta dal finto specchio che stava nel salone. E mentre guardava dall'altro lato la pesante porta si era chiusa dietro di lei. Ora assisteva impotente al marito che si giocava tutto il patrimonio di famiglia.
"L'appartamento è andato" disse l'uomo, posando le sue carte sul tavolo. Aveva perso di nuovo. Insieme all'appartamento era andata anche l'ultima possibilità di riscattare tutto.
"Come sai ti resta un'ultima possibilità. Sta a te decidere".
Silenzio
"Ci devi un bel po' di soldi, non so come farai ad appianare il tuo debito. Sai che con certe banche non si scherza"
"Va bene -rispose - carta"
"Tua moglie contro tutto quello che hai perso?"
"Carta!" ripetè accennando col capo.
Terrorizzata riprese a battere i pugni sul vetro con tutta la forza che aveva. Suo marito se la stava giocando a carte! Come fosse un'appartamento, l'automobile. Se la stava giocando! E lei era chiusa la dentro e non poteva far nulla.
Inutile domandarsi come sarebbe andata a finire. Quel cretino! Quel fottuto bastardo!
"Mi dispiace" diceva l'uomo mentre raccoglieva le carte. Dall'altra parte del vetro lei si sentì mancare.
"Sappiamo che non ti è andata troppo bene, stavolta. Ma sapremo essere comprensivi. Del resto quando sarai titolare dei beni di tua moglie, non avrai più troppi problemi" aggiunse, mentre accompagnava il marito verso la porta. "Titolare dei beni di tua moglie". Quel bastardo, l'avrebbe pagata cara pure lui. O forse no: un sorriso sinistro apparve sul suo viso, prima di uscire dalla stanza. Poi la luce si spense, e lei rimase completamente da sola, al buio. Continuò a sbattere i pugni contro la porta, fino a quando, esausta, non si accasciò al suolo, e si addormentò.
La guardava attraverso il vetro della finestrella. Oramai era sua.
Era una bella donna di 28 anni, slanciata, gambe lunghe, capelli biondi, fisico atletico, scolpito in regolari sedute di fitness. E ricca. Da sette anni era amministratore delegato unico della ditta di famiglia. Era abituata a gestire il denaro e le persone, in modo sicuro, determinato, spregiudicato. Il marito era uno dei pochi lussi fatui che si era permessa. Era stata una sciocchezza. Debole sul lavoro, e ossessionato da una morbosa passione per il gioco d'azzardo. Non perdeva l'occasione per mostrargli in pubblico il suo disprezzo. Del resto lo faceva anche coi suoi dipendenti, pensò lui. Per anni era stato suo segretario, per anni era stato trattato con sprezzante indifferenza. Si era perfino innamorato, e lei doveva averlo capito, perché aveva iniziato a prendersi gioco di lui, a lasciagli credere di avere delle possibilità, per poi umiliarlo davanti a tutti. MA ora aveva vinto lui. Ora avrebbe avuto i suoi soldi, ora avrebbe avuto lei. E non avrebbe provato alcuna pietà.
La svegliò di soprassalto la porta blindata che si apriva alle sue spalle. Era notte. La luce improvvisamente accesa la accecava, ma l'ombra che si avvicinava le parve subito familiare: il suo segretario.
"Grazie al cielo, sei tu. Via, andiamo subito via di qui..."
Squashhh! Un potente schiaffo la rigettò per terra, dopo averla fatta rimbalzare sul muro.
"Stai zitta, stronza! Non sei più in condizioni di dare ordini". Altri due uomini erano apparsi dietro di lui. Le afferrarono i polsi torcendoli fino a farla gridare, ma smise presto: appena accennava un fiato, torcevano ancora più forte. Dovette alzarsi e lasciarsi condurre in silenzio per il lungo corridoio fino ad una stanza. Le chiusero entrambi i posi a delle catene che pendevano dal soffitto lungo la parete, le infilarono in bocca una grossa palla di gomma tenuta a stringhe di cuoio che si chiudevano dietro la nuca, lasciandola imbavagliata. E lui, il suo dipendente, le si avvicino con un sorriso che non prometteva niente di buono. Le poggiò la mano sul viso. Poi scese per il collo, si poggiò sul seno. Colta dal terrore cominciò ad agitarsi e a scalciare.
"Le caviglie!" disse agli altri due uomini, che le afferrarono rudemente le gambe e le tirarono con forza al lato, facendole così aumentare il peso sui posi, quindi le legarono con brevi catene a due anelli di metallo fissati nel muro.
Ora non poteva davvero muoversi. Si avvicinò di nuovo e rimise la mano sul seno. Non poteva far nulla. Era rossa in viso, e non ci vedeva più per la rabbia, ma non poteva più fare niente.
"Ti dona il bavaglio" fece lui. La mano affondava sul suo seno.
"E' finito il tempo in cui eri la Signora. E' ora che cominci ad ascoltare. E ad ubbidire agli ordini" iniziò a strizzarle il seno, poi le afferrò il capezzolo, mentre lei lo guardava con odio.
"Perché la tua vecchia vita è finita. Definitivamente. Tra poco sarai morta per il mondo. E se vuoi vivere ancora devi imparare una vita nuova" E le strinse il capezzolo, tirandolo a se e torcendolo con furia. Ma il suo viso era calmo, freddo, spietato.
"E' venuto il momento in cui i ruoli si invertono" disse sorridendo mentre le sbottonava la camicia, senza fretta, un bottone dopo l'altro.
"Il tuo maritino ti ha giocata alle carte. E ti ha perso. Nessuno ti riscatterà più. Preparati alla tua nuova esistenza". Aveva estratto un coltellino dalla tasca, e ora le stava tagliando via la camicia, poi il reggiseno, con metodica calma. Aveva un seno non grande, ma sodo e proteso, che si ergeva con impudenza sul ventre liscio e muscoloso.
"Ti sei domandata il perché di quel simpatico gioco di società stasera? Il viaggio dei tuoi sogni, scrivi una cartolina per ogni tappa? Domani partirai. Hai un posto prenotato per le Maldive. Poi comincerai a girare un po', vediamo... quali cartoline hai scritto? ...Mi sembra Messico, poi di nuovo a sud, Guatemala, Costa Rica. Solo che non ci sarai tu su quell'aereo. Ma qualcuno che avrà un gran piacere a fare un viaggio col tuo passaporto. Qualcuno che trova utile viaggiare in incognito, a nome di altri. Qualcuno che spedirà le tue cartoline. Poi temo che qualcosa accadrà in uno di quei paesi, perché non tornerai più. Com'era quella cartolina a tuo marito? 'Ciao bello, non torno più, ho trovato il mio uomo...' Ti sembrava molto spiritoso, vero? Del resto si sa, quando un bella donna arrogante e piena di soldi viaggia da sola, è facile che succeda qualcosa..." Le stava tagliando via la gonna e gli slip. Ora era completamente nuda di fronte a lui e agli altri due uomini. Contorcersi non faceva che aumentare il suo senso di impotenza, non faceva che esporre ancor più il suo bel corpo. Continuò ad agitarsi finché non si sentì spossata, mentre le mani dell'uomo si impossessavano di lei, un pezzo dopo l'altro.
"Ma vedrai che la tua nuova vita ti piacerà. Ti abbiamo preparato un esordio da stella del cinema. Certo, è un cinema un po' particolare, ma sono certo che sarai molto apprezzata.
Scostò una tenda: dietro c'era un vero e proprio studio cinematografico. Un riflettore si accese abbagliandola e scaldandole improvvisamente la pelle, mentre lui le toglieva, uno dopo l'altro, orologio, braccialetti, collana, orecchini.
"La prima scena potremmo chiamarla L'INTERROGATORIO. Infatti quando ti toglieremo il bavaglio ci darai tutti i codici bancari più le password di accesso ai dati riservati della ditta. Nel frattempo raccoglieremo un bel po' di materiale per un capolavoro da Oscar". La mano di lui era scesa poco a poco verso il basso, e si era posata sul pube. Non poteva impedirglielo, con le gambe tenute larghe dalle catene. Le afferrò i peli e la tirò in avanti, mentre abbassava il capo a succhiargli un capezzolo. Poi si scostò e fece qualche passo indietro. Si chinò ad aprire una grossa valigia nera, da cui estrasse un rigido e sottile frustino che agitò davanti ai suoi occhi facendo fischiare l'aria, prima di consegnarlo ad uno dei suoi uomini.
"Chack, si gira!" disse allegramente prima di scomparire nell'ombra.
I colpi cadevano sul suo corpo uno dopo l'altro con spietata sequenza. Non faceva in tempo a riaversi da uno che arrivava il secondo da un'altra parte, inaspettato, ancora più feroce. Ogni colpo una riga rossa. Sul ventre. Sulle cosce. In mezzo ai seni. Sul fianco. Poi ancora sul ventre. Ancora un altro, e un altro ancora. Cercava di evitare la frusta, e il suo corpo scattava automaticamente in senso opposto, straziandole i polsi. Era un o sforzo inutile, i colpi arrivavano sempre da un lato inatteso. I nervi le esplodevano. Le sembrava di impazzire. Come un martello compressore le schiacciasse il cervello. Fino a quando vide tutto nero.
Poi un altro colpo, uno shock: una secchiata di acqua gelata l'aveva riportata alla luce. Una mano le afferrava i capelli e le tirava su la testa. Non riusciva a sentire cosa gridava. La mano la lasciò, e arrivarono altri colpi. Di nuovo sul ventre, sul fianco, poi sui seni. Una dopo l'altra le strisce rosse le si incrociavano attorno ai capezzoli. Svenne di nuovo. Si svegliò con la mano di lui che le carezzava di nuovo il corpo, seguendo con precisione i segni della frusta. La luce del riflettore sempre calda sulla pelle. E una sensazione strana quasi di piacere emerse appena in mezzo al dolore. Poi la luce si spense e tornò il buio. Ma lei era ancora tenuta su dalla catena. Provava un dolore atroce ai polsi, perfino peggiore di quello lasciato dalla frusta. I muscoli, costretti nella stessa posizione le davano i crampi. Il tempo sembrava non passare mai. Non c'era giorno né notte, nella stanza buia. Fu quasi felice quando li vide tornare. Pregava solo che la togliessero dalle catene. Non era in grado di reagire più. Voleva solo dormire, riposare mangiare, urinare. Bisogni elementari, animali, potenti.
 

Casting
 

"Riprende il film" disse la voce sconosciuta. Di nuovo il riflettore accecante sugli occhi. Di nuovo il sibilare della frusta.
"Aspetta - disse la voce di lui dall'ombra - tirala più su, prima.
Rumore di catene, di un meccanismo elettrico, e si sentì improvvisamente strappare in due, coi polsi tirati verso l'alto con un dolore, mentre le catene alle caviglie la tenevano salda verso il basso. Non riusciva a pensare a nulla, solo il dolore e quella luce accecante negli occhi. Sentì una mano afferrarle i capelli, tirarle la testa verso il basso, e cercò di assecondarla per evitare che le tirasse ancor più i polsi. Abbassò la testa inarcando il busto. La mano le frugò dietro la nuca e le tolse il bavaglio. Per un momento non riuscì a parlare, la bocca era ancora paralizzata dalla pressione del bavaglio. Poi fece uno sforzo.
"Per piacere, per piacere, tiratemi giù! Farò tutto quello che volete, vi lascio tutto ma tiratemi giù, lasciatemi andare vi prego. Vi prego. Vi prego..."
Un colpo sordo le fece vedere nero. La risposta, un potente schiaffo.
"Stai zitta stronza. Qualcuno ti ha autorizzato a parlare? Regola numero uno: silenzio. Parla soltanto quando ti si chiede qualcosa. Regola numero due: non alzare mai più lo sguardo sui tuoi padroni. Guarda verso il basso. Non te lo ripeterò più: per il mondo tu sei morta. E in effetti la tua vita è appesa a un filo. Vedi di non spezzarlo. - Le aveva infilato la mano tra le gambe e stava spingendo verso l'alto - Per oggi l'unica cosa che voglio sentire da te sono i codici e i dati dei tuoi conti, compresi quelli coperti".
"Brutto bastardo traditore, uccidimi pure subito. Non vedrai niente".
"E' qui che ti sbagli piccola mia. Non ho alcuna intenzione di ucciderti. Però ti assicuro che sono in grado di farti rimpiangere di non essere davvero morta in viaggio". Mentre parlava le aveva afferrato i capelli e tirava verso il basso.
Poi la lasciò, con un sorriso bonario. Ora singhiozzava soltanto.
"Beh, lavoratela con la frusta. Voglio sentirla urlare" disse uscendo dalla porta.
Quando rientrò lei aveva perso i sensi. Nuove strisce rosse si erano sovrapposte e incrociate sulle vecchie. Aveva urlato. Quanto aveva urlato! Fino a quando i nuovi colpi non le avevano strozzato in gola la voce. La svegliò con un'altra secchiata d'acqua e la vide riaprire gli occhi a fatica, in grado a malapena di mugolare. Le sputò in faccia il fumo della sigaretta, una lunga boccata di fumo che la fece tossire. "Allora, siamo pronti per questi codici?" chiese mentre le affondava la sigaretta sul capezzolo sinistro. Era pronta, e disse tutto quello che lui voleva sentire. Dopo aver preso nota, ripose il taccuino e accese un'altra sigaretta, e rimase a fumarla davanti a lei, lentamente, guardandola singhiozzare sommessamente.
"Giù... tirami giù... per piacere... detto tutto... hai avuto quello che volevi... giù..."
"Ti avevo detto che non devi parlare, mi sembra" rispose avvicinando la sigaretta al seno destro, questa volta con estrema lentezza, per darle il tempo di sentire il calore avvicinarsi, di contorcersi nel disperato tentativo di evitare la sigaretta, di sentire il rumore della brace sulla pelle.
Lei stava ancora urlando, quando lui si rivolse ai due uomini "Ci ha messo un po' troppo a parlare. Dalle altri venti colpi. Col bavaglio questa volta.
L'avevano lasciata là un'altra volta per un tempo indefinito. Poi la porta si era aperta di nuovo, si accese il riflettore e se lo vide di nuovo davanti. La mano di lui prendeva nuovamente possesso del suo corpo. Il calore della lampada e la pressione della mano sul ventre le ricordarono che doveva urinare, e questo la fece sentire ancor più nuda, più esposta.
La afferrò per i capelli e le chiese:
"Allora, come ci si sente, gentile signorina? Contenta del film? Pensa che magari, fra un paio di anni, quando tutto sarà ormai lontano, potrei mandarne una videocassetta in regalo a tutti i tuoi dipendenti. Per Natale. Sapranno apprezzare? Ma non preoccuparti, allora questo non ti preoccuperà minimamente, ti assicuro. Intanto però puoi immaginarteli seduti qui davanti, a guardarti attraverso l'occhio della telecamera, mentre commentano e mangiano pop-corn. Pensa un po' a quanti di loro stai regalando la realizzazione di un sogno covato per tanti anni, il tuo bel corpo arrogante ridotto ad articolo di scarto, la loro amministratrice delegata che si prostituisce per un tozzo di pane lercio. Vedrai, ti piacerà...
E allora, vogliamo dare qualche soddisfazione ai tuoi dipendenti? Andiamo a esibirci in qualche scena di sesso. Cerca di essere partecipativa, va bene?"
Non poteva parlare, ma scosse la testa con forza. Allora lui le afferrò un seno e glie lo strizzò fino a quando il capezzolo non s'inturgidì. Quindi afferrò un paio di cesoie e le strinse lentamente sul capezzolo. Molto lentamente, fino a farlo diventare bluastro, mentre il sangue iniziava a scorrere da un lato.
"Potrei tagliartelo via, zac! con un colpo solo, e tu non puoi fermarmi. Ma credo che non lo farò, perché vedi, oramai questo pezzetto di carne ha un valore commerciale molto ma molto più alto di tutto quello che hai nella tua testolina. Questo pezzetto di carne si può vendere, ed è l'unica cosa che oramai ti tiene in vita".
I due uomini le sciolsero le catene. Uno le afferrò i polsi torcendoglieli con forza. Inutile precauzione: non era in grado di reagire. L'altro uomo le stava mettendo un collare di cuoio. La fecero inginocchiare a gambe larghe fra due corti pali. Alla base di essi erano fissati due spesse fasce di cuoio, che le furono legate strette attorno alle cosce. Alla cima erano incatenati due bracciali di metallo, che le furono applicati ai polsi. Si trovava ora in bilico sulle ginocchia, con la braccia tirate indietro fino ai due pali. unirono una catena al collare e lo tirarono verso il basso, agganciandolo ad un altro anello infisso nel pavimento. Non poteva alzarsi. Era inginocchiata, con il viso pressato sulla polvere del pavimento, le parti intime esposte dal basso verso l'alto alla calda indiscrezione del riflettore.
Un uomo si chinò dietro di lei, si sbottonò i pantaloni e la prese. Coma un animale, come una cagna. La bocca ancora chiusa nel bavaglio, il collo tirato verso il basso, respirava a fatica, mentre il membro dell'uomo sconosciuto le penetrava nel profondo.
Durò un'infinità. Poi l'uomo si alzò, prese la frusta, e iniziò a colpirle le natiche con violenza. Un colpo, un altro, un altro ancora. Quando si fu calmato si avvicinò di nuovo e le infilò il manico della frusta nell'ano, spingendolo quanto più a fondo poteva. Quindi la prese anche l'altro uomo, sempre allo stesso modo. Una mano di lui le premeva il ventre gonfio, l'altra si stringeva sui seni martoriati dalla frusta, le pizzicava e torceva i capezzoli. I due uomini si davano il cambio, uno dopo l'altro, o le penetravano con strumenti che non riusciva a vedere, ma di cui percepiva la ruvida e dura consistenza. Per un tempo infinito. la luce si spense di nuovo. La lasciarono li, inginocchiata nel buio, col viso a terra e le mani dietro la schiena. Col silenzio e la calma si riaffacciò la fame. E la sete. Poi il sonno ebbe la meglio.
Si svegliò nel buio mentre il rigagnolo caldo le scendeva lungo le gambe. Da quanto tempo era li? Un giorno? Due? Aveva un disperato bisogno di urinare. Aveva resistito mentre la frusta le si abbatteva sul ventre, quando le mani dei due uomini che la prendevano le premevano la vescica già compressa. La dignità in lei aveva resistito. Ma ora non ce l'aveva fatta. Il sonno, per quanto in quella penosa posizione, l'aveva rilassata, e ora si trovava in un lago della sua stessa urina. Il pavimento era in lieve pendenza, e il lago avanzava verso i ginocchi, sotto il ventre e si avvicinava al viso, schiacciato contro il suolo. Tentò pateticamente di alzare la faccia, e riuscì a tenerla a qualche centimetro dal suolo, a prezzo di grandi sofferenze sulla schiena e sulle ginocchia. La sentì nei seni, dove i colpi della frusta reagivano con dolore a contatto con l'acido dell'urina. Vide con terrore il rigagnolo passarle sotto al viso, inzuppare i capelli di cui un tempo era andata tanto fiera, i suoi lunghi capelli biondi. Resistette ancora qualche lungo minuto, poi un crampo alla schiena le fece perdere l'equilibrio, e con un sonoro "spalsh!" ricadde nella piccola pozza di urina. Si riazò, ma ormai era tutto inutile: il viso era completamente bagnato, e la schiena le doleva ancor più. Si lasciò ricadere nella pozza, sapendo che stava perdendo uno degli ultimi residui della sua dignità. Gli uomini l'avrebbero trovata nella sua stessa urina, l'avrebbero derisa mentre la torturavano.
Si svegliò con la sensazione di affogare. Il flusso caldo le scendeva per i capelli, per il viso, le grogogliava nel naso. Le stavano urinando sulla faccia.
"Buon giorno signora! -la voce era sopra di lei - E così ce la facciamo addosso, eh? Molto fine. Davvero, molto aristocratico. Visto che ti sei ridotta a un cesso prendi pure questa" mentre dirigeva il getto di urina verso le orecchie, verso il naso, verso gli occhi. Quindi si abbassò su di lei e le sfilò il bavaglio. Quanto tempo lo aveva portato? La bocca faticava a chiudersi. Se ne accorse quando l'altro uomo, che aveva anch'egli cominciato ad urinare, diresse il getto proprio tra le sue labbra. Sputò con orrore, ma un'altra mano le afferrò i capelli tirandole la testa indietro con violenza.
"Apri la bocca e ingoia, puttana!" Non c'era bisogno che lo dicesse, perché il gesto violento le aveva automaticamente aperto la bocca, che si era riempita del caldo e acre sapore di urina.
"Ingoia, stronza!" continuava la voce, mentre la frusta la colpiva nuovamente dietro con rabbiosa ferocia. Ingoiò. Vomitò e ingoiò di nuovo.
"La nostra attrice migliora di giorno in giorno!" commentò lui con soddisfazione.
"Brava, ti sei meritata il pranzo" All'improvviso lo stomaco le si aprì, malgrado ancora l'attraversasse la sensazione di nausea, si ricordò di quanta fame avesse. Le gettarono un pezzo di pane raffermo nella pozza di urina davanti al suo viso e se ne andarono spegnendo la luce.
Nel buio poteva vedere chiaramente il pezzo di pane. Mezzo intriso dall'urina che lo circondava, ma era pane, e lei aveva fame. Era li, a cinque o sei centimetri dal suo viso, ma non riusciva a raggiungerlo. Allungava invano la lingua, ma il collare fissato al suolo le impediva di muoversi. Combatté per un'ora circa, alla fine rinunciò, ma il pezzo di pane era sempre li a torturarla.
Poi la porta si aprì e la luce si accese di nuovo. Vide una scarpa avvicinarle il pane di un centimetro, con cura. Era più vicino ora, ma riusciva appena a raggiungerlo. Allungava disperatamente la lingua fino a raggiungerne la superficie intrisa di urina, ma otteneva solo di allontanarlo. Eppure insisteva, come colta da ossessione. Sapeva che stavano filmando, che avrebbero venduto il film a centinaia di perversi, ma oramai quello non era più il suo mondo, non la riguardava. Ora aveva soltanto fame, fame, fame.
Su una cosa non le avevano mentito: l'interrogatorio era solo la prima scena.
Che lei avesse detto o meno quello che si aspettavano, questo non cambiava per nulla la sua posizione, l'interrogatorio proseguiva anche senza domande. Dapprima iniziarono a chiederle di assumere atteggiamenti provocanti e volgari di fronte alla cinepresa, e dovettero insistere un po' per ottenerli. Ma la villa in cui si trovavano disponeva di una fornitissima palestra, rapidamente adattata a camera di tortura. La stesero a braccia e gambe divaricate colpendola con frustini da cavallo. La torturavano dopo averla legata ad una pertica, vestita in abiti provocanti. Spalliere, cavalletti, anelli, tutto fu utilizzato, e quando non avevano nulla da pretendere, si limitavano ad abusare di lei, colpirla e filmare. La legavano in posizioni bizzarre, attorno a bastoni che poi venivano issati fin sul soffitto. Le fissavano corde o pesi ai capezzoli, la appendevano per le gambe e le braccia e la prendevano mentre fluttuava, oppure la legavano a sgabelli e tavolini, sempre coi seni e il sesso rivolti verso l'alto. La misero una gogna per poi penetrarla da dietro e da davanti contemporaneamente.
Ottennero la sua collaborazione incondizionata dopo averla calata nel "buco". Ne aveva sentito molto parlare, in frasi venate di minaccia, ma non aveva mai capito cos'era. Lo imparò il giorno che la condussero in un sotterraneo, la legarono per i polsi a una catena, aprirono una botola e ve la calarono. Il buio era totale. Sentiva dell'acqua scorrere sotto di sé, che ogni tanto le bagnava i piedi. Quando i suoi occhi si abituarono al buio, iniziò ad urlare terrorizzata.
L'avevano calata nella fogna. Al suo fianco, lungo tubi coperti di marciume, correvano senza posa file di grossi ratti. Qualcosa le urtò il piede. I ratti nuotavano nella fogna. Dovette tenere le ginocchia alzate per evitarli, ma così il peso si concentrava sui polsi. Poco a poco le gambe le scendevano in basso fino all'acqua. Allora le risollevava di scatto con un dolore improvviso. Attorno a sé i ratti avevano percepito la presenza estranea e si protendevano dai tubi, cercando di raggiungerla. Dopo un tempo infinito di lotta col suo stesso corpo, svenì. La tirarono su, e la svegliarono scuotendole la testa per i capelli, quindi la calarono di nuovo, per una, due infinite volte.
Da quel giorno fu sufficiente nominare il "buco" per ottenere dai lei tutto.
Si diedero il cambio diversi registi, diverse produzioni. Doveva essere stata noleggiata a diverse società. Passò di mano in mano, ma non poté dire che ci fossero grandi differenze: non le chiesero mai di recitare. Sperava che i tanti film di cui era protagonista, fossero destinati a circolare in paesi lontani, anche se questo le toglieva le speranze di essere rintracciata.
 

Venduta
 

Dovevano aver esaurito tutto il repertorio, quando la misero in una stretta gabbia, legata, bendata e imbavagliata e la caricarono in un furgoncino coperto. Dovevano averla drogata, perché aveva le vertigini, non riusciva più a capire chi fosse, dove si trovava. Il viaggio durò un'ora circa, poi la gabbia fu scaricata e presa in consegna da altri uomini che la trasportarono al centro di una sala lussuosa. C'era un ricevimento, nella sala. Quando le tolsero la benda si accorse con orrore di essere al centro di una festa della buona società, anche se non le sembrava di riconoscere nessuno. Era nuda, con i posi legati alla cima della piccola gabbia, le gambe ai due lati, tenute distanziate. Era come una sorta di animale esotico, tra tappeti e lussureggianti piante tropicali. Gli invitati passavano, con la coppa di champagne tra le mani, le gettavano un'occhiata distratta, le passavano il pollice sui capezzoli, e si allontanavano di nuovo, commentando. Era furiosa. Qualcosa dentro di lei si stava rivoltando. Era rossa in viso: il fatto di essere stata riportata nel "suo" mondo, nella "sua" società le aveva risvegliato al tempo stesso la vergogna e l'orgoglio.
Poi un uomo in tight le si avvicinò e iniziò a battere le mani in alto per richiamare l'attenzione del pubblico, che si raccolse a semicerchio attorno a loro. L'uomo mise la mano nella gabbia e strinse la mascella di lei dopo essersi schiarito la gola.
"Ecco un pezzo davvero interessante. Dirigeva una piccola ma affermata società, e adesso, dopo appena venti giorni di trattamento, rappresenta un articolo di raffinata fattura, ed al tempo stesso disponibile ad ogni richiesta". Spense la luce con un piccolo telecomando, e sulla parete di fronte iniziò la proiezione di un film. Era una selezione delle sue torture. E delle scene volgari che avevano preteso da lei. Si sentì di nuovo il mondo crollare addosso.
"L'asta è da considerarsi aperta" disse l'uomo col tight, mentre si riaccendeva la luce. Due mani le afferrarono i capelli da dietro e le spinsero dei tappi nelle orecchie. Non poteva sentire, ma vedeva le mani che si alzavano, gli occhi che le fissavano i seni e il grembo. Un uomo lontano, seduto su una poltrona sollevava la mano più spesso. Infine si alzò, mentre il banditore in tight batteva il martello sul tavolino al suo fianco. L'affare era concluso.
Le mani la afferrarono di nuovo da dietro e le tolsero i tappi. L'uomo che era lontano le si avvicinò e quando lo vide in faccia il sangue le mancò e si sentì svenire. Riaprì gli occhi che era ancora appesa per le braccia dentro la gabbia. La faccia di lui era vicina, quasi a contatto con la sua"E allora ci si rivede, carina. Ne hai fatta di strada, eh?" Era proprio lui, l'avversario storico della società che lei aveva gestito. L'uomo a cui aveva fatto più volte mangiare la polvere. L'unica volta che l'aveva visto, era una trattativa nel corso della quale lo aveva quasi ridotto sul lastrico. Allora lui l'aveva implorata, invano, di accordarsi su una soluzione accomodante, ma lei non aveva ceduto. Anzi aveva mostrato un certo piacere nello schiacciare quell'uomo, che le dava ribrezzo.
"Maledetto bastardo. No, tu non mi avrai. Piuttosto mi faccio ammazzare come un cane, ma non avrai questa soddisfazione" sussurrò con la poca voce che le restava.
"Credo che di soddisfazione ne avrò esattamente quanta me ne serve. E' davvero una magnifica sorpresa, credimi. Era tempo che volevo decidermi a compiere questo passo. Una schiava clandestina tutta per me. Ma certo, non pensavo di trovare proprio te. Si, credo proprio che sarai di mio gradimento. Certo, mi sembra di capire che la preparazione sia stata un po' frettolosa. Per esempio ancora non hai imparato che l'uso della parola non è concesso a un prodotto del tuo genere. Ma credo di conoscere la persona giusta... per un training professionale. Caricatela!" disse rivolgendosi agli uomini di fatiche che aspettavano presso la porta.
L'uomo che la prese in consegna dopo un nuovo viaggio in furgone, sembrava il boia di una mascherata. Giacca e pantaloni in pelle, cappuccio nero sul volto. Una lunga frusta era allacciata alla cintura. Qualcosa le diceva che ci sarebbe stato poco da ridere. Aprì la gabbia, le sganciò i polsi e li legò sopra la testa ad una catena che pendeva dal soffitto. Le girò intorno osservandola bene quindi si soffermò per un po' dietro di lei. Senza farsi sentire sfilò la frusta e la colpì sulla schiena. Un unico colpo, secco e preciso, terribile. Lei non fece neppure in tempo a intuire cosa fosse quel sibilo, che il dolore già le apriva in due la schiena. Quindi le si fece davanti. Le labbra di lei tremavano, gli occhi erano bagnati di lacrime. Le afferrò il volto con la mano.
"Non temere, questa era solo una presentazione. Lo capirai quando sarai punita davvero. Mi hanno detto che hai risposto male al tuo padrone, che lo hai addirittura affrontato" la voce era pensierosa, preoccupata, quasi triste.
"Un imperdonabile errore da parte tua, davvero. Non so cosa hai passato prima di venire fin qui, ma è chiaro che non hai mai avuto un padrone. Neppure immagini cosa significhi. Ti hanno usata, scambiata, ceduta, questo si vede, ma nessuno ti ha posseduta, e c'è una grande differenza. Imparerai che il tuo padrone è tutto per te, può stabilire la tua fine con un cenno di mano: stop, e tu non ci sei più. Se vuole più anche decidere quanto deve durare la tua morte, che tipo di agonia meriti. Pensaci bene, la prossima volta, semplicemente perché non ci sarà una prossima volta. La tua mancanza è stata davvero grave... quella frase...
Non pensare che ti abbia risparmiato la vita per un qualche riguardo. Sei stata molto fortunata. Conosco la psicologia di chi possiede articoli del tuo tipo: pur di non dover ammettere di aver fatto un cattivo affare, è disposto a passar sopra anche a una grave mancanza. Ma se dovesse capire che non vali i soldi spesi, si libererà di te. E si vendicherà, puoi contarci. Ne ho viste tante come te implorare inutilmente di essere uccise: dimenticate appese per i piedi in un sotterraneo, chiuse a morire di fame in mezzo ai propri escrementi, abbandonate in pasto ai ratti. Quando un padrone ha deciso, non c'è più modo di cambiare. Senza di lui non c'è vita. Ora non puoi capire. Ora probabilmente già mi stai odiando, e certo mi odierai quando cominceremo davvero. Poi un poco alla volta inizierai a comprendere. Vedrai cosa vuol dire. Ti renderai conto che l'uomo che tu hai affrontato, non è 'un altro', è l'aria che respiri, la tua vita, il stesso essere. Ma c'è tempo per questo. E in questo tempo capirai cos'è una punizione. E rimpiangerai di essere nata.
 

Prigione
 

Il luogo in cui la condusse era una sorta di prigione sotterranea. Diverse gabbie, che contenevano altrettante donne. Le donne avevano tutte il collare e le mani legate dietro la schiena, ma non erano imbavagliate. "Ormai non è più necessario" le spiegò quello che doveva essere il suo istruttore. "Hanno capito che non si parla, e basta. A parte questa qui" disse afferrando i capelli scuri di una giovane ragazza incatenata al muro, e costringendola ad alzarsi.
"Questa è stata recidiva. Non voleva imparare il silenzio. Fino a quando il suo padrone non si è stancato, e le ha fatto tagliare la lingua. Un vero peccato. Una femmina senza lingua perde molto del suo valore. Penso che finirà venduta a qualche bordello clandestino, non credo che possa rendere di meglio, ormai. Oppure sarà rottamata". La ragazza mantenne lo sguardo a terra, come se il discorso non la riguardasse.
Mentre la portavano via si sentì raggelare. Non aveva idea di cosa volesse dire "rottamare", ma certo significava la fine del percorso. Cercò di dimenticare quella parola.
Imparò a vivere in quella gabbia che era appena della grandezza del suo corpo. Gli esercizi si svolgevano a ciclo continuo nella grande sala circondata dalle gabbie, in modo che tutte le donne vi assistessero di continuo. Le punizioni, per ogni minimo errore, venivano somministrate su una inferriata ai lati della sala.
Quando vide in cosa consistevano gli esercizi, credette che fossero tutti pazzi: le facevano fare il riporto, come ai cani. E forse erano davvero pazzi, ma la frusta non scherzava. Nude, in ginocchio e sempre con le mani legate dietro la schiena, dovevano afferrare con la bocca i bastoni che venivano tirati a qualche metro, e riportarli tra le mani dell'istruttore.
Quando questi erq soddisfatto, le faceva camminare avanti e indietro con lo sguardo a terra e il busto eretto, saltare, compiere movimenti stupidi e inutili. Poi venero altre sessioni di postura: come inginocchiarsi, come presentarsi di fronte a un Signore, come offrire il proprio sesso.
Imparò ad offrire quello che le era stato strappato con la forza nelle settimane precedenti. Imparò a rispondere ad ogni minimo comando, ed anzi, a precederlo. Imparò ad abituarsi ai maltrattamenti, ad anelare le attenzioni dei propri padroni, e perfino la propria sofferenza, considerandola niente più che uno strumento di piacere, del loro piacere. Capì che perfino le sofferenze che le venivano inflitte per divertimento o scherno erano ora il suo unico appiglio alla sopravvivenza, e forse anche qualcosa di più: il solo modo che le restava di sentirsi viva, con uno scopo.
Ma tutto questo non le toglieva il terrore della punizione che le spettava per aver mancato di rispetto al suo Signore. Le veniva ricordata tutti i giorni come qualcosa di terribile, qualcosa che non avrebbe mai più dimenticato. Qualcosa che sapeva sarebbe venuta, anche se non sapeva quando.
Lo seppe la notte che vennero a prenderla. La fecero uscire dalla gabbia e le somministrarono cinque colpi di frustino sulla schiena. Quindi la portaroino via bendata, nei sotterranei.
 

Punizione
 

La corda era tesa sopra le sue braccia, alla sbarra d'acciaio ai cui estremi erano assicurate le caviglie, tenendo distanziate le gambe, era fissato un peso che tirava verso il basso tendendole il corpo. Una benda le impediva la vista. Buio e silenzio, null'altro. Udiva solo un gocciolare d'acqua, in distanza, e percepiva il calore di un fuoco, in basso, alle sue spalle. Aveva atteso la terribile punizione per un tempo interminabile: una notte eterna durata interi giorni. La notte dei sotterranei. Poi l'avevano appesa alla catena, e abbandonata là per un'altra eternità. La mancanza di circolazione intorno ai polsi martoriati dai bracciali di ferro le aveva intorpidito le braccia. Forse era quella la terribile punizione. Avrebbe fatto di tutto affinché non si ripetesse mai più. O forse l'avevano davvero dimenticata. Sarebbe rimasta appesa fino alla morte, fino a quando la carne non si sarebbe staccata. Stava domandandosi se quella non era la sua ultima scena, quando udì il rumore di passi che si avvicinavano, scricchiolando sul suolo terroso. Il cuore iniziò s batterle sempre più tumultuosamente, e le sembrò che le facesse sobbalzare, ad ogni battito, i seni esposti. I passi le si approssimavano. Le sembrava di sentire il fiato dello sconosciuto, di percepire il suo sguardo indagatore sul suo corpo nudo. Scordò i polsi doloranti, travolta da un insieme di vergogna, rabbia e paura, e s'impose di non lasciar trapelare alcuna emozione. Non le riuscì: quando sentì una mano sconosciuta poggiarsi con fermezza sul suo ventre, trasalì.
Scese le scale e vide la ragazza in lontananza, illuminata dalla instabile luce del fuoco. Si avvicinò lentamente, molto lentamente. Non aveva fretta. Sapeva che aveva aspettato già molto in quella posizione: una tortura già sufficiente. Ma non poteva permettersi dubbi. La punizione doveva essere esemplare, doveva farle accettare la sua condizione, una volta per tutte, o la sua vita sarebbe stata un inferno. Non poteva permettere che si abituasse poco a poco alle punizioni, che mantenesse una linea di resistenza, per quanto sottile.
Guardò la ragazza da vicino. Era davvero un incanto. Soprattutto ora che il suo volto, avendo percepito la sua presenza, non era più trasfigurato da smorfie di dolore, ma lasciava trasparire la paura. La bocca semiaperta, tra il sospiri e i gemiti repressi causati dal dolore, faceva acquistare ai tratti delicati e innocenti del viso un'apparenza quasi provocatoria. Il ventre oscillava dolcemente, nel respirare forte, esponendo ogni volta i seni, piccoli e sodi. Sentiva i suoi fiati, e si avvicinò ancor più affinché la ragazza potesse sentire i suoi sulla pelle. Vide subito la reazione che causava nella espressione di lei. Provava desiderio e pena per quel corpo esposto e sofferente, e ancor più per ciò che lo aspettava. Ma il suo compito era un altro. Pose la mano su quel ventre invitante.
La mano iniziò a scendere lentamente, quasi carezzandola, verso e cosce forzatamente allargate. Poi, come avesse avuto un ripensamento, iniziò a salire, stavolta con maggiore fermezza, fino fermarsi alla base del seno sinistro. Il respiro le si faceva affannato. Sentì quelle dita estranee aggirarle il seno, carezzarne di nuovo la base, e di repente chiudersi a coppa su esso, afferrandolo con durezza. Si morse l'angolo del labbro, e forse era il segno che l'estraneo attendeva, perché si fermò e le rivolse la parola: "Allora, piccola, ci siamo. Abbiamo un po' di tempo da passare insieme, io e te soli. E non c'è fretta, vero?" E così dicendo raccolse le dita intorno al capezzolo e iniziò a stringerlo e torcerlo lentamente, inesorabilmente. Si forzò di per non gemere. Le dita stringevano il suo capezzolo. Sentì anche l'altro subire lo stesso trattamento. Sentì la bocca di lui cercare di baciarlo. S'irrigidì. Stringeva i denti, mentre la lingua cercava di penetrarla. "Va bene- disse lui allontanando la bocca e spingerle indietro la faccia con la mano. Un moto di orgoglio stava per far breccia a un sorriso, ma non fece in tempo. Le dite le strinsero con maggior violenza i capezzoli "Allora si comincia", disse lui, con soddisfazione.
Senti la presa liberarle i capezzoli, che subito s'inturgidirono, quando un'altra stretta ben più violenta li strinse di nuovo, uno dopo l'altro. Stavolta era un qualche strumento, forse una molla: sentiva il freddo metallico ferirle i seni. Le molle dovevano essere fissate a una corda, perché si sentì improvvisamente tirare un avanti, e stavolta un gemito le sfuggì dalla bocca, mentre arcuava la schiena tentando di limitare il dolore. In realtà in questo modo aiutò il suo persecutore, consentendogli di tirare ulteriormente le corde unite alle molle, prima di fissarle. Tutti i muscoli erano tesi in avanti, e questo non sembrava diminuire il dolore, anzi, aumentava il dolore attorno ai polsi. Stavolta, quando le dita di lui le penetrarono la bocca, spingendola indietro, non oppose alcuna resistenza: aprì immediatamente la bocca, reclinando indietro la testa. Avrebbe ingoiato tutta la mano, per attenuare il dolore atroce. Ma quanto più le dita affondavano a fatica reprimeva i conati di vomito. Era una lotta impari. Era una lotta impari, e qual bastardo lo sapeva. Sapeva che non poteva fare nulla per impedirgli di straziarle i seni. "Ora si ragiona" disse lui. La pressione della mano si allentò Lo sentì allontanarsi, rimuovere qualcosa dal muro. Si avvicinò di nuovo, iniziò a girarle intorno, si fermò alle sue spalle e lo senti piantare bene i piedi nel terreno, il terriccio scricchiolare sotto i suoi piedi. Poi silenzio di nuovo. Sentiva sempre più forte il dolore ai seni e ai polsi, e i crampi iniziavano a morderle i muscoli tesi delle gambe, del ventre, delle braccia, tesi nello sforzo di mantenere il busto proteso in avanti.
Osservò di nuovo la ragazza con sguardo indagatore. Era bella, eccitante, tanto più con quei seni tirati verso l'esterno, innaturalmente aguzzi. Aveva tempra, mostrava resistenza. Un ottimo esemplare, ma pericoloso. Il lavoro sarebbe stato duro. Soprattutto per lei. Si avvicinò al suo fianco, le afferrò dolcemente il mento, e le penetrò la bocca con due dita. Dopo un accenno di resistenza, si aprì lasciando libero l'accesso, ma solo dopo che la pressione di lui si era ripercossa sui seni imprigionati dalle molle. Così non va, penso, e affondò tutta la mano quanto a fondo poteva. Ora la vedremo. Ora viene la parte dura. Si diresse verso il muro, scelse la frusta più adatta, si dispose dietro al ragazza e aspettò ancora un poco, affinché il primo colpo arrivasse inaspettato.
All'improvviso sentì un sibilo nell'aria, ma non ebbe il tempo di intuire di cosa si trattava, perché qualsiasi pensiero si dissolse nel dolore che le mordeva la carne della schiena, e immediatamente dopo dal dolore dei capezzoli straziati dalle molle tese, in seguito alla sua propria contorsione.
"Ti conviene restare ben ferma, piccola, se non vuoi soffrire il doppio". Sentì la voce di lui appena emergere da un nero vortice. Non capiva nulla. La mano di li le afferrò i capelli dietro la nuca, torcendogli la testa, e le ripeté la medesima frase nell'orecchio. Stavolta capì. Capì che aveva bisogno di tutta la concentrazione per non muoversi. Fingere che la schiena colpita non fosse la sua? Difficile. Un secondo sibilo. S'irrigidì. Il dolore era pazzesco. Si morse il labbro. Riuscì a limitare il contraccolpo sui seni, ma i muscoli irrigiditi furono morsi ancor più ferocemente dalla frusta. Un altro sibilo, un altro morso. Ma l'urlo trattenuto le uscì dal naso, forse dalle orecchie, dai capelli, dai pori della pelle...
Un altro colpo, sullo stesso solco del precedente. Non si trattenne. Un grido gutturale fece vibrare l'aria. Ma ancora non era terminato, quando un altro colpo le mordeva la schiena. Il grido le morì in gola con un gorgoglio, si trasformò in singhiozzo, poi di nuovo in grido spasmodico, mentre i colpi si susseguivano ora sulla schiena, ora sui glutei. Ma il peggio doveva ancora venire. Un colpo di frusta le morse il fianco, strisciando con la velocità di un fulmine lungo il ventre, fino all'altro fianco, e si ritirò con altrettanta violenza, lasciando una profonda traccia rossa. Istintivamente il ventre si tirò sotto il colpo, ferendo bruscamente i seni straziati dalle molle. Un altro colpo raggiunse il ventre dal lato opposto. E poi ancora e ancora, salendo poco a poco, fino a colpire i seni stessi. Fino a tranciare la pelle subito sotto la molla.
Ormai singhiozzava soltanto, senza più capire nulla. Si sentì svenire. Poi una secchiata di acqua fredda, e altri colpi. Quante volte? Chissà... non capiva più nulla. La frusta cessò di sibilare, ma il suo corpo ancora sussultava scosso dai singhiozzi, i suoi seni ancora erano torturati dai colpi del suo stesso corpo. Sentì la mano di lui carezzarle i capelli, quasi con tenerezza, sussurrarle parole tranquillizzanti di cui non percepiva il significato. Poco a poco riemerse dal tunnel, calmò i nervi sconvolti, percepì di nuovo il dolore ai seni, alla schiena, cercò di tendersi di nuovo per attenuare la presa delle molle.
La mano di lui le si strinse intorno ai capelli, tirando la testa all'indietro. Sentì qualcosa premerle alla bocca. Il manico di cuoio della frusta, salato dal sudore della mano di lui. Non oppose resistenza. Poi uscì, la mano le lasciò i capelli, e sentì la stessa cosa penetrarle l'ano, tra le gambe forzatamente allargate. Non era in grado di opporre resistenza, né intendeva più, e rilasciò i muscoli. La frusta penetrò sempre più a fondo e iniziò a roteare, urtandola dall'interno e muovendole di nuovo il corpo, in modo da ferirle di nuovo i seni e i polsi. Un grido gutturale le uscì dalla bocca, mentre le lacrime le solcavano di nuovo il viso.
La parte più dura del lavoro era compiuta. Ora restava quella più sottile., più difficile. Se falliva ora sarebbe stato tutto inutile. Gli era successo, un'atra volta. Non aveva saputo riconoscere le reazioni. Lo sguardo sembrava acquiescente, il corpo eseguiva gli ordini ciecamente, ma nel fondo dell'animo la resistenza era solo piegata, non infranta. Non se ne era accorto, e fu fatale, perché una volta superata quella prova, era come un vaccino, la resistenza della donna non si era più piegata. I castighi si fecero sempre più atroci, ma oramai senza effetto alcuno. Alla fine si era tolta la vita per sottrarsi a quel tunnel di dolore. Una bella ragazza, intelligente, sensibile. Una gran perdita. Stavolta non sarebbe stato così. Stavolta sarebbe stato attento, scrupoloso.
Poi tutto cessò. La frusta le scivolò via dall'ano, e rimase a dondolare inerte nel buio. Sentì la mano si lui che la spingeva lievemente in avanti e le molle che le stringevano i seni allentarsi. Fu come un nuovo colpo di frusta, il sangue che imboccava all'improvviso nei capillari compressi dalla pressione della molla. Li sentì diventare enormi, li sentì dolere più che sotto la pressione della molla stessa. Poi un altro sussulto, la corda che la teneva si allentava, la depositava sul suolo. Sentì le mani di lui liberarle le caviglie e i polsi. Si lascio andare, qualche secondo, forse qualche minuto. Era stanca, tanto stanca, voleva solo riposo. Ma la voce di lui la scosse di nuovo, e la voce di lui ora sapeva di frusta. "In ginocchio! Gambe allargate, e mani dietro la schiena!" Obbedì automaticamente, come dietro impulso meccanico, come sotto ipnosi. La voce di lui sapeva di frusta, sapeva di potere. Era stanca, tanto stanca, ma no, non voleva contraddire quella voce, che era diventata la sua stessa volontà.
Sentì i passi di lui avvicinarsi, e la sua mano afferrarle fermamente i capelli dietro la nuca e spingerle la testa verso il suo sesso. Senza sapere perché, senza desiderare altro, aprì la bocca.
La osservò con attenzione. Nessuna inibizione, nessun cenno di resistenza. Aveva seguito istantaneamente il suo comando. Inginocchiata di fronte a lui, le gambe ben larghe esponevano il sesso, le braccia incrociate dietro la schiena, come legate da corde invisibili, la testa, ancora bendata, dolcemente reclinata, sopra un busto eretto, teso. Era un bene, nessuno desiderava una donna ridotta a una larva. Se poi questo era un ultimo sussulto di resistenza, lo si sarebbe visto subito. Spinse la testa verso il suo ventre, e sentì che apriva istintivamente la bocca, che aderì come una guaina intorno al suo membro, oscillando dolcemente. La lasciò fare per un minuto, poi le tirò via la testa con fermezza, per i capelli. "Faccia a terra" disse. La vide abbassare docilmente il busto, poggiare la guancia sul suolo terroso, e aspettare le ginocchia ancora allargate, le braccia ancora incrociate dietro la schiena. Si sentiva padrone illimitato. Un vero peccato. Presto sarebbe tornata al suo proprietario. La prese da dietro, e mentre la prendeva le tirò un po' troppo i capelli.
 

Padrone
 

Il training durò ancora una settimana, durante la quale non si usò più la frusta, per non rovinarle ulteriormente la pelle. L'istruttore aveva una verga elettrica, di quelle comunemente usate per il bestiame, che si rivelò anche più efficace. La stanza in cui veniva istruita era sovrastata da una gigantesca foto del suo padrone, l'uomo che l'aveva acquistata all'asta.
L'istruttore le impresse nella carne le tre regole fondamentali della sua condizione. Innanzitutto il silenzio. Le era permesso di gemere, ma la parola era tabù. Doveva dimenticare di avere mai parlato.
Poi l'obbedienza. Assoluta, totale obbedienza verso il suo padrone. La totale identificazione nella sua volontà. Fu la cosa più dura, e dovette impararla attraverso il dolore, la fame e la sete, ma alla fine il suo corpo ebbe la meglio sulla sua testa, e riuscì perfino a dimenticare di avere avuto una vita, prima di avere un padrone.
Terza regola, la postura. Doveva mostrarsi disponibile, non stringere mai le gambe in presenza di un uomo, non serrare mai le labbra. Quando qualcuno le si rivolgeva, chinare la testa e abbassare lo sguardo, mai tentare di penetrare lo sguardo di un padrone. In assenza di ordini diversi da parte del suo possessore, qualsiasi altro uomo l'avesse incontrata sarebbe stato comunque suo padrone.
La stanza in cui veniva istruita era nel sottosuolo. Non c'era giorno né notte. Per un tempo che non avrebbe potuto quantificare visse dormendo con ritmi che le sembravano sempre diversi. Giornate eterne, con esercizi che si susseguivano senza posa, e giornate brevissime. Sonni di appena un'ora o due e notti infinite nel buio assoluto. Puntualmente, nel mezzo del sonno, un uomo che non era il suo istruttore la svegliava, l'appendeva per le braccia ad una catena che pendeva dal soffitto, e le somministrava la verga elettrica, enumerando con precisione matematica errori e mancanze commessi il giorno precedente. Imparò a conoscere diverse regole attraverso questa punizione postuma, che dava alla sua vita un'ulteriore senso di incertezza e dipendenza. Appena alzata doveva inginocchiarsi e baciare con deferenza e passione una frusta, che alla fine del training avrebbe consegnato al suo padrone.
Imparò a servire, imparò a darsi, imparò a subire. Imparò a mostrare riconoscenza per le punizioni subite.
Quando dopo averla lavata con cura, l'istruttore la condusse al cospetto del suo padrone, lei cadde in ginocchio, abbassò il capo e fece scivolare le ginocchia sul pavimento lucido, allargando le cosce. Si sentì avvolgere da una forte emozione, quando lui accettò dalle sue braccia tese la frusta gli porgeva, e che tante volte aveva baciato.
"Sarà felice, se vorrete provarla su di lei" disse l'istruttore al padrone, indicando la frusta. Automaticamente, quasi in risposta a un comando meccanico, lei si abbassò al suolo, poggiando la guancia sulla superficie fredda del pavimento, e allungando le braccia in avanti e incrociando i polsi come fossero legati. Il padrone fece fischiare due volta la frusta nell'aria, e la terza la fusta le attraversò la schiena, con un colpo secco e preciso che la fece sussultare. Quindi si abbassò su di lei passando la mano sul segno della frusta. Le sfuggì un sospiro.
"Chi ti ha insegnato questa posizione? Non è buona per la frusta, è troppo scomoda. In piedi, braccia in alto, faccia al muro, gambe allargate!"
Obbedì prontamente. Sentiva la frusta fendere l'aria dietro di lei e scagliarsi con forza contro la schiena, strappandole gemiti sempre più alti. Quando finì non riusciva a trattenere i singhiozzi, ma era felice per l'attenzione che il suo Signore le stava dedicando.
Lui le si avvicinò da dietro e le mise la mano davanti alla bocca, mentre con le dita dell'altra mano continuava a ripercorrere i segni della frusta lungo la sua schiena, facendola fremere.
Tenendo gli occhi socchiusi, lei baciò quella mano, e sentì di amarla. La stessa mano che un attimo prima teneva con tanta fermezza la frusta. Scoprì che benché non l'avesse visto per tutta la durata del training, provava ora una sorta di amore meccanico, di avido bisogno di approvazione. Il suo volto le si era associato ad una serie di emozioni istintive: paura, arbitrio, dipendenza totale. Ogni suo respiro dipendeva ormai da lui. Il suo corpo era una emanazione del suo Signore. La mano di sui le scese sui suoi seni, e un gemito le sfuggì. Chiuse gli occhi, e credette di non potersi più contenere. Quando li riaprì lui si era già allontanato.
"Bella, bellissima! Forte e flessuosa. Si, penso che mi darà molte soddisfazioni. Davvero una bella frusta!" diceva mentre si allontanava, facendo roteare nell'aria lo strumento.
Lei invece, fu presa in consegna dal servitore, un uomo dall'aspetto sordido. Le infilò un dito sotto il collare e la tirò con sé. La stanza in cui la condusse doveva diventare la sua dimora. Era una specie di salotto, ma non aveva poltrone. Alla parete era disposto un grande letto. In un angolo vi era una specie di bagno alla turca con un rubinetto. Alla parete era appesa una vera e propria collezione di fruste. Al centro della stanza si trovava una piccola colonna di ferro costellata di anelli e ganci, e dal soffitto pendevano diverse catene, sul cui scopo non si faceva troppe illusioni. Alla stanza si accedeva direttamente dallo studio del Signore tramite una porta che, dal lato dello studio, era mascherata da una libreria.
Il servitore le mise ai polsi e alle caviglie dei bracciali di cuoio e li richiuse con delle piccole chiavi dorate, che collocò in un supporto di velluto rosso appeso al muro, attorno ad una chiave più grande, che doveva essere quella del collare.
Suo lato opposto al letto c'era un'armadio a vetri. Prese una elegante confezione che vi era poggiata sopra e vi estrasse una sorta di perizoma composto da strisce di nappa, piegate sopra una strisciolina di cuoio, che collocò attorno ai fianchi di lei. Le strisce erano solo appoggiate, e si potevano scostare o sfilare via in qualsiasi momento, e ad ogni minimo movimento delle gambe lasciavano intravedere il pube. Arrossì. Si sentiva più nuda ed esposta che senza nulla indosso. La mano di lui si tuffò tra le strisce e le afferrò rudemente i peli del pube
Per terra, al lato del letto, c'era una piccola stuoia, dove il servitore la fece coricare, dopo averle legato le mani dietro alla schiena. Quindi le fissò al collare una catena che pendeva dal muro.
Poi aprì l'armadio a vetri, vi estrasse due ciotole, ne riempì una con cibo per cani e l'altra di acqua, quindi richiuse la credenza a chiave e poggiò le due scodelle vicino al muro, ad una distanza sufficiente perché la catena le impedisse di raggiungerle.
Dopo che il servitore fu uscito, tentò invano di raggiungere le due ciotole. Senza il comando suo padrone non poteva mangiare, nè bere, né andare al bagno.
La mattina dopo il servitore le sciolse la catena dal collo, la condusse a mangiare, inginocchiata sulla ciotola, sempre con le mani legate dietro la schiena, quindi la portò sulla latrina e la fece urinare e la lavò con una piccola pompa. Poi la legò nuovamente sulla stuoia, questa volta inginocchiata, con lo sguardo rivolto alla porta da cui sarebbe venuto il suo padrone. Quella da allora era la sua vita. Doveva aspettarlo sempre, aspettare che decidesse di concedersi un momento di svago, che attraversasse la porta, le slegasse la catena e la buttasse sul letto per prenderla. Aspettare e sperare che non lui si stancasse di lei, non la trovasse noiosa, perché da questo dipendeva la sua vita.
Aspettò, ma lui non venne. Dopo diverso tempo un campanello sopra la sua testa suonò all'improvviso. Il servitore apparì all'istante, la sciolse le braccia, liberò la catena dal muro, e tenendola come un cane al guinzaglio la condusse verso la porta. In casa sua doveva muoversi nuda, le spiegò il servitore fatta eccezione per il collare e per i ceppi ai polsi e alle caviglie. Non parlò invece del perizoma che indossava, che evidentemente era destinato a particolari occasioni.
Era molto occupato, il padrone. Quando il servitore la fece entrare nell'enorme studio lucido, era impegnato in una conversazione telefonica. Di lavoro. Vide la frusta appesa ad un gancio dorato, sul finto camino dietro alle sue spalle. Le fece distrattamente cenno di entrare e di avvicinarsi. Sedeva in poltrona e continuava a parlare. Con un gesto brusco le fece capire di allargare le gambe, e di mettere le mani sopra la testa. Le poggiò la mano sulla coscia, sempre parlando di operazioni finanziarie, e risalì fino al pube. Strappò via striscia per striscia il gonnellino alla schiava che le avevano messo. Un pezzo dopo l'altro, con disinteresse, parlando alla cornetta di titoli azionari. Solo quando fu interamente nuda, la mano iniziò a masturbarla. Appena il calore iniziò a salirle su per il ventre, lui smise e le fece cenno di abbassarsi indicandole la patta dei pantaloni. Lei si inginocchiò di fronte a lui, gli aprì i pantaloni con deferenza e timore, e si abbassò a baciarlo. Solo un attimo prima di raggiungere l'apice, riabbassò la cornetta. "Comprare!" fu la sua ultima parola. E le inondò la bocca di caldo liquido denso. La congedò con un cenno di mano, mentre componeva un nuovo numero.
Fu l'ultima volta che la fece chiamare. Per un mese fece lui irruzione nella stanza attigua allo studio. La trascinava sul letto per la catena e le si gettava addosso col suo immenso corpo, facendole mancare il respiro. Mentre la prendeva frettolosamente, le pizzicava i seni, le graffiava le natiche, le mordeva la spalla. Per lei si trattò di una felicità passeggera: dopo un po' le visite iniziarono a farsi più rade. Il nuovo passatempo stava già annoiando il suo padrone.
 

Esibita
 

Per questo il cuorè iniziò a batterle tumultuosamente, quando sentì di nuovo il campanello. L'aveva fatta chiamare un'altra volta, forse aveva ancora un'upportunità. Quando la vide davanti a sè, la prese per una mano, nell'altra teneva la frusta. Lei si lasciò condurre docilmente.
"C'è una festa stasera, e voglio che tu mi faccia fare bella figura. In qualche modo sei l'ospite d'onore: sarai presentata" disse mentre fissava ad una colonna la catena le teneva il collare. Quindi le mostrò con orgoglio un biglietto d'invito in cui spiccava una fotografia di lei in ceppi, in ginocchio.
"...Nel corso della serata avrò il piacere di condividere con gli amici il mio nuovo acquisto, che rappresenta la fine di una spiacevole ed insensata guerra commerciale", finì di leggere studiando le sue reazioni. Ma per lei oramai si trattava di un mondo perduto, oramai occultato da strati e strati di dolore. L'unica reazione di lei fu protendere la bocca, per tentare di baciare la mano che le mostrava il biglietto. Lui le carezzò la frettolosamente guancia e si allontanò.
La festa fu un vero successo. Coperta da un panno, venne "svelata" di fronte al pubblico. Era bella, completamente nuda, schiena eretta, busto proteso, capo chino con le labbra divaricate. Costituiva un'attrazione originale: non la solita prostituta chiamata ad animare la serata, ma una autentica schiava, docile e remissiva. E soprattutto, posseduta. Posseduta come un animale, come un'automobile.
Era come una calamita, il centro della festa. Gli invitati la osservavano senza mai stancarsi, le toccavano il seno, le natiche, il ventre. Si lasciavano baciare la mano o succhiare le dita. Poi la sganciarono dalla colonna, la fecero piegare, inginocchiare, le analizzarono attentamente tutte le parti più intime del corpo, commentando ad alta voce, scherzando.
Anche se solo pochi coraggiosi osarono prenderla davanti a tutti, quello fu il desiderio di tutti, e tutti invidiavano il padrone di un oggetto così bello e raro. Un vero articolo di lusso. E lei si sentì orgogliosa di portare prestigio al suo padrone, il che compensava la scarsa attenzione che questi le dedicava.
Vide diversi ospiti avvicinarsi al suo padrone e sussurrargli qualcosa guardandola con ammirazione. La risposta di lui era invariabilmente la stessa: "Ma certo mio caro! Sarà un piacere e un onore condividerla con te. Vedrai che ti piacerà, è davvero speciale". Poi rivoltosi a lei, aggiungeva "Bacia la mano al signore, che ti farà l'onore di provarti". Lei si faceva avanti, capo chino e sguardo a terra, e poggiava delicatamente le labbra sulla mano che le veniva porta.
Per diversi giorni alle visite del padrone si alternavano quelle dei suoi ospiti. Di giorno serviva da svago al padrone, la sera era il giocattolo delle sue feste o di singoli ospiti. "Questa è la chiave. Ricordati che puoi farne tutto quello che vuoi. E quando dico tutto, intendo proprio tutto", ammoniva premuroso il padrone prima di lasciarli soli con lei. L'armadio a vetri conteneva un armamentario molto vario, e ognuno si dimostrò capace di una interpretazione originale di quel "tutto".
La villa divenne meta di un continuo pellegrinaggio, che fruttò al suo padrone una utile rete di complicità. Quello che gli incauti ospiti non sapevano era che la stanza era controllata da una telecamera. Quando la complicità non fosse stata più sufficiente, sarebbe tornato utile il ricatto.
Spesso provava vergogna. Si sentiva una prostituta. E in effetti da prostituta la trattavano. Ma dopo quei servizi, il suo Signore, sempre inavvicinabile, la degnava di una carezza o di uno sguardo compiaciuto, e questo era tutto per lei.
Per ottenere un sorriso dal suo padrone, cercò di fare del suo meglio nel far emergere le fantasie più nascoste degli ospiti, ma questi inevitabilmente finivano per ricadere nella noia dopo qualche mese, e si allontanavano in cerca di novità.
Rimase nella villa per un anno. Amava il suo Signore con tutta sé stessa. Lui di tanto in tanto le mostrava apprezzamento. Le carezzava con fierezza la testa, come si fa con un cavallo, con una automobile di lusso. Lei non desiderava altro. Col tempo però, lui si fece sempre più distante. Anche le visite dei suoi ospiti iniziarono a farsi più rade.
Per settimane il padrone non si faceva vedere né sentire. Un giorno nel tardo pomeriggio apparve il servitore. Le sciolse la catena, la fece disporre in piedi di fronte a lui e iniziò a palparla. Lo faceva spesso quando la lavava. Lei si irrigidì, ma non disse nulla. Quando però sui la fece poggiare sul letto e le si gettò sopra, cercò di sfuggirgli. Non voleva per nulla al mondo dare al padrone motivo di sfiducia. Il servitore non vedeva le cose dallo stesso punto di vista. Insistette e, di fornte al suo tentativo di sfuggirgli, si infuriò: la incatenò alla colonna e iniziò a frustarla con rabbia. Quindi la prese e la lasciò incatenata, ancora tremante.
Dopo pochi minuti riapparve col padrone. Era ancora incatenata alla colonna, con le braccia tirate in alto, e singhiozzava sommessamente. Il padrone le afferrò i capelli con forza e le tirò indietro la testa.
"E così fai resistenza, eh? I miei servi si curano della casa e dell'arredo. Si è mai visto un pezzo di arredo che rifiuta di essere usato? Ti sei montata la testa solo perché ti ho pagata una fortuna? Sappi che proprio ieri ho dismesso un'auto appena comprata: non mi soddisfava pienamente. Comunque sarai punita domani. E tu, puoi prenderla ancora, se ne hai voglia" aggiunse rivolto al servitore.
Quella sera, dopo averne fatto uso, il servitore, le lasciò la ciotola col cibo: granaglie e pesce salato, ma finse di dimenticare la ciotola dell'acqua, che rimase al di fuori della sua portata. La notte tentò inutilmente di raggiungerla: il pesce salato le aveva messo una sete terribile, che aumentava col passare del tempo. La mattina dopo nessuno venne a scioglierla. Rimase tutto il giorno senza bere, e anche tutta la notte successiva. Al mattino fu sollevata quando sentì il servitore entrare, e si protese verso la ciotola dell'acqua, ma questi la allontanò col piede. Quindi andò verso il rubinetto e lo aprì e la lasciò sola, a guardare con desiderio quell'acqua che scorreva.
Lo scoscio dell'acqua la torturava. Le sembrava di averla a portata di mano. Era sempre inginocchiata sulla stuoia, incatenata al muro. Il servitore entrò con un bicchiere di acqua tonica gelata e fece il gesto di porgergliela. Vedeva le bollicine formarsi sui bordi e salire sciogliendosi sul pelo dell'acqua. Vedeva la condensa appannare il bicchiere di cristallo. Cercava di sporgersi verso il bicchiere, ma la catena le impediva di raggiungerlo.
"Non hai sete? Pazienza, questo era per te" commentò il servitore rovesciando la bevanda a terra, lentamente. Quindi posò il bicchiere, le si avvicinò, la fece voltare e la prese con rabbia.
Alla fine della giornata tornò. Lei era stremata, e già quasi delirava. Si bagnò la mano nel rigagnolo d'acqua che non aveva mai cessato di scorrere dal rubinetto, e glie la mise in bocca. Le succhiò avidamente guardandolo con gratitudine. Lui le abbassò la testa e si fece succhiare il fallo. Dopo aver goduto, mentre lei cercava di portar via la minima goccia di liquido, le urinò in bocca, tenendole sempre la testa contro di sé, per i capelli. Avida di liquidi, lei ingoiò tutto.
Il servitore quindi la slegò e la incatenò di nuovo al lavandino. "Per oggi basta. Puoi bere. Ma bada che ogni sorso potrebbe essere l'ultimo".
Bevve come non aveva mai bevuto. Bevve fino a sentirsi scoppiare, e poi bevve ancora, nel terrore di rimanere altri giorni sen'acqua. Dopo qualche ora il servitore tornò, le tastò il ventre e la riportò alla stuoia. Ma prima le face indossare una specie di slip di cuoio fortemente attillati, che si chiudevano in vita con una catena. Ne capì la funzione solo dopo qualche ora, quando le venne un prepotente bisogno di urinare. Semplicemente non poteva: quella diavoleria di cuoio le premeva il ventre schiacciandole dolorosamente la vescica, ma le chiudeva materialmente ogni via d'uscita. La mattina dopo si stava contorcendo dal dolore, quando il servitore entrò e le si buttò addosso, come se cercasse di violentarla. Le sembrava di scoppiare. La lasciò alla catena fino al pomeriggio. Poi la sciolse e la prese per la catena portandola al guinzaglio per la casa. Ogni passo la faceva sobbalzare dal dolore.
Non contento la spinse a calci giù dalle scale. Giunti in fondo la fece rialzare tenendola per il collare e iniziò a correre per i viali del parco. Era inverno, e l'erba era coperta di acqua gelida. Piovigginava e tirava un vento gelato. Lei era sempre nuda, se si eccettua lo slip di cuoio. Il servitore la strattonava in continuazione, frustandola ogni qual volta rallentava la marcia. La corsa durò un tempo indefinito, lunghissimo, fino a quando si aprì una finestra dalla villa e i affacciò il padrone, che con sguardo compiaciuto, fece cenno di riprendere la corsa.
Le tolsero gli slip di cuoio molte ore dopo, di fronte agli ospiti della villa. L'avevano fatta sedere di fianco a un putto di marmo, in cima ad una fontana, e appena iniziò a urinare le ordinarono di aprire le gambe, in modo di zampillare nell'ampia conchiglia di granito.
Da quel giorno a fattorini e commessi era permesso prenderla. Entravano e si servivano, senza commentare. Le sussurravano volgarità all'orecchio, le inalavano il loro alito pesante, carico di alcool. Il padrone oramai non la chiamava più.
Quando il servitore la condusse nuovamente per svolgere il servizio in camera a suo Signore era felice. Sentiva che aveva l'occasione di riconquistare la sua fiducia.
Le aveva dato un vassoio di the stracolmo di tazze, brocchette per il latte e il succo di limone, zuccheriere con diversi tipi di dolcificanti. Entrò nella stanza col capo chino, tenendo il vassoio alto, badando a come camminava. Giunta di fronte a lui si inginocchiò, tenendo sempre lo sguardo abbassato, e protese il vassoio al suo Signore con deferenza. Lui la ignorò per tutto il corso della telefonata. Poi mise giù e le fece cenno di alzarsi. "Se ne versi una sola goccia, sarai frustata a sangue" le disse.
Lei riuscì a sollevarsi sulle ginocchia, e lui le si posizionò dietro, cominciando a massaggiarle i seni. Quindi si sedette di nuovo in poltrona, e le fece cenno di avvicinarsi, mentre componeva un nuovo numero di telefono. Le mani le percorsero di nuovo l'interno delle cosce, risalendo e scostando le strisce di nappa del perizoma. Il calore le saliva tra le gambe a ondate, ma doveva rimanere immobile, per non rovesciare il vassoio. La mano di lui masturbava con forza crescente, era un invito continuo a lasciarsi andare. Lo stesso training le aveva insegnato a rispondere incondizionatamente al tocco del suo Signore. Glie lo aveva marchiato nella pelle. E ora doveva resistere, per un suo stesso ordine.
Aveva i muscoli di tutto il corpo irrigiditi e vedeva il the tremare in cerchi concentrici sempre più grossi, dentro le tazze. Voleva strillare, ma non poteva. Si sentì felice, quando la mano di lui smise, lasciandole la pelle ancora fremente di desiderio. Si sentiva orgogliosa: aveva resistito. L'aveva fatto per il suo Signore, ci era riuscita. Lui si alzò, mettendo giù la cornetta del telefono, le prese il vassoio dalle mani e lo gettò in terra.
"Raccogli" le disse uscendo dalla stanza. "Sarai frustata lo stesso, stasera. Dò una festa e potrebbe essere uno spettacolo stuzzicante".
Lo spettacolo fu forte e riuscì bene. Diversi ospiti vollero prendere parte alla punizione, e vi fu chi tenne una vera e propria lezione pratica di gatto a nove code. Era ormai chiaro che l'interesse verso quella schiava iniziava a scemare, e poteva essere ravvivato solo utilizzandola per scenografie forti, ogni volta diverse. Oppure le rimaneva il ruolo di suppellettile. La facevano restare ferma con vassoi di bicchieri, le usavano le mani come posacenere, la facevano accucciare per poggiarle il rinfresco sulla schiena e farla muovere, così imbandita, di tavolo in tavolo.
Per tutta una serata rimase appesa per la vita al soffitto, reggendo due candelabri. Il padrone ogni tanto passava sotto e prendeva nota delle gocce di cera lasciate cadere sul pavimento. Sapevano entrambi che ogni goccia si sarebbe tradotta in un colpo di frusta il mattino successivo.
Quindi passarono a inventare soluzioni più originali. Una festa la vide nuotare nuda tutta la sera in un enorme acquario a parete. L'acquario era completamente pieno d'acqua. Ogni mezzo minuto, da parti sempre diverse del fondo eruttava una colonna di bolle d'aria, facendo volteggiare il ghiaino colorato e scuotendo le foglie delle piante acquatiche. L'aria si soffermava per un po' sul telo che copriva la vasca, prima di essere assorbita dalla superficie porosa. Per poter respirare lei doveva nuotare da una parte all'altra seguendo le bolle, e succhiare l'aria schiacciando il viso sul pesante telo, e spostarsi di nuovo verso la nuova colonna in arrivo. La scena si animò ulteriormente quando, verso la fine della serata immisero nella vasca una ventina di anguille. Colta dal terrore, iniziò a nuotare terrorizzata in tutte le direzioni e a scalciare. Perse diverse occasioni di respirare e cominciò a bere acqua, fino a quando non ritrovò la calma, e riprese a seguire le bolle, pur con le membra rigide e tremanti dal terrore. Il pubblico della sala, raccoltosi attorno all'acquario, applaudì. Poi poco a poco, tornò a dividersi in capannelli e a seguire i percorsi della conversazione mondata. All'acquario e al pesce terrorizzato che vi nuotava, dedicarono solo qualche sguardo distratto, se si esclude due ospiti che passarono tutto il resto della serata piazzati li davanti a discutere di piante acquatiche tropicali.
Quello che non poteva vedere da dentro la vasca era un'altra ragazza, completamente nuda, legata per le braccia ad una colonna. Una ragazza bruna, molto più giovane di lei, che concentrava su di sé tutta l'attenzione dei presenti.
La conobbe il giorno dopo, quando il padrone entrò improvvisamente nella stanza e la fece smuovere a colpi di frustino dalla stuoia su cui stava dormendo. Ma non la fece alzare: la lasciò distesa sul marmo freddo, e fece un cenno verso la porta, da cui la giovane ragazza entrò, condotta per il guinzaglio dal servitore. La fecero inginocchiare sopra le ciotole, che vuotò in poco tempo, quindi la fecero sdraiare sulla stuoia, le fissarono il collare alla catena del muro e uscirono.
Guardava la ragazza bruna con odio. Le aveva preso la stuoia e il cibo. Ora aveva fame, sete e freddo. La odiò ancor più quando vide che il padrone la preferiva: ogni volta che entrava faceva salire sempre la ragazza bruna sul letto, e lei era ignorata, ma era costretta ad assistere con lo sguardo a terra. Di conseguenza sempre più spesso rimaneva a ciotola vuota.
La ragazza era sicuramente più giovane e meno robusta di lei, ma aveva le mani legate davanti, il che le dava un grande vantaggio. Poteva afferrarla per i capelli, graffiarla o pizzicarla a piacimento. E spesso lo faceva senza motivo, solo per insegnarle chi comandava.
Perciò fu felice quando il suo Signore la fece chiamare nello studio. Ma li l'aspettava una brutta sorpresa: la sua odiata compagna l'aspettava con una frusta in mano. Indossava un corpetto di cuoio nero che le copriva a malapena la vita, e la guardava con disprezzo, mentre la mano del padrone le carezzava il pube scoperto.
"Ho notato che non tratti col dovuto rispetto la mia preferita" disse lui.
"Qualcosa forse ti autorizza a non rispettare le mie scelte? Non credere che valga meno di te perché è più giovane. Anzi, tutt'altro. In ogni caso qui sono io a decidere chi vale cosa. Da oggi le porterai rispetto e deferenza. Aspetterai che abbia finito di mangiare prima di avvicinarti alla ciotola. Le bacerai i piedi prima di alzarti e coricarti. Ti inchinerai davanti a lei quando te lo ordinerà con un gesto. E tanto per cominciare, assaggerai la sua frusta".
La ricondussero nella stanza e le legarono i polsi in alto alla colonna. Quindi la lasciarono sola con la ragazza, che la frustò con fredda determinazione, fino a quando ebbe energia nelle braccia.
Da quel giorno ogni mattina doveva baciarle i piedi. Era un lungo rito: appena si chinava, lei le afferrava i capelli e non glie li mollava fino a quando non le aveva succhiato ogni dito e passato la lingua tra dito e dito. Quindi l'allontanava e iniziava a mangiare dalla ciotola, mentre lei doveva restare ferma a guardare, in ginocchio, col capo chino.
Dopo le prime volte la ragazza iniziò a pretendere di più. Le tirava la testa a sé, esigendo che espletasse nello stesso modo un servizio di igiene intima. Non godeva: si limitava ad usarla, quasi con fastidio. La cosa fu osservata dal padrone che la apprezzò, dato che la incluse nella rappresentazione prevista per una delle sue feste, la sera. Sotto gli occhi di tutti, dovette pulire con la lingua le parti intime della ragazza che, a testa alta, la guardava con malcelato disprezzo.
La ragazza bruna un giorno scomparve. Un uomo con cui il padrone era in affari si interessò a lei. La venne ad usare sempre più frequentemente, fino a quando gli fu ceduta. Venne a prenderla con la frusta, e la fece strisciare ai suoi piedi fino ai cancelli della villa. Aveva una gran paura: la notte precedente, per distrarsi, si era dedicata a maltrattare la sua compagna. Le aveva torto i polsi, già legati dietro la schiena, e morso i capezzoli, le si era seduta sulla faccia fino a soffocarla. Ma ora, mentre la portavano via, piangeva sommessamente.
Fu sostituita da un'altra ragazza dai capelli chiari, forse sua coetanea. La nuova compagna era meno aggressiva, anche se aveva gli stessi privilegi della precedente.
La guardò arrivare. Il servitore la incatenò alla stuoia, lasciando lei sul marmo. Lo stesso fece con il cibo: portò la nuova ragazza alla ciotola, lasciando a lei solo i resti. La nuova moonopolizzava tutte le attenzioni degli ospiti e dei visitatori, mentre lei era sempre data a servitori e fattorini. Ma almeno non la maltrattava. Anzi, le mostrava una certa tenerezza. Sin dalla prima notte, la attirò a sé sulla stuoia. Era un inverno freddo, e i due corpi si scaldavano a vicenda. Era facile che si sviluppasse una tenerezza fra le due schiave alla mercé di gente spietata. Sentiva quel corpo caldo e tenero, l'unico che non esprimesse disprezzo e violenza, e vi si faceva incontro con fiducia e abbandono. Quelle mani le davano una dolcezza inaspettata. Le esploravano il corpo, che da tempo immemorabile non conosceva carezze. Poco a poco si lasciò andare, e una notte si sentì completamente aperta. Le due donne si stringevano, una contro l'altra, le loro bocche si avvicinarono, si baciarono i seni, si leccarono il grembo. Fino a quando la porta non si aprì improvvisamente: avevano dimenticato della telecamera.
Il servitore si fece avanti verso di loro agitando la frusta con rabbia.
"Pensavate di poter disporre del vostro corpo con libertà? Il vostro corpo appartiene al padrone, stronze! Cagne lascive!"
Così dicendo le colpiva con la frusta senza pietà.
"Non siete che due corpi, siete proprietà privata. Avete sottratto la proprietà al vostro Signore. Pagherete, e neppure vi immaginate quanto duramente. Poi verrete rottamate, come merce avariata, di scarto. Non rivedrete mai più la luce del sole". Continuava a colpirle con foga. Poi staccò la catena dal muro e le trascinò via, tirandole giù per le scale ripide della cantina.
Le due ragazze erano terrorizzate. L'uomo le legò entrambi i polsi ai lati di un'asta di ferro e le issò in alto. Le due donne scivolavano nei bracciali che mordevano i polsi, e con le gambe tentavano di arrampicarsi l'una sull'altra. Le lasciò li che si agitavano come anguille.
Ricomparve dopo un'ora col padrone, che era venuto per assistere direttamente alla fustigazione. E fu inflessibile. Il servitore non ce la faceva più, ma il padrone lo costrinse ad andare avanti. Le donne strillavano, chiedevano pietà, singhiozzavano, poi emettevano solo suoni gutturali. Infine smisero di reagire. Fu il servitore, stremato, a chiedere in ginocchio di smettere. Il padrone gli strappò la frusta di mano e iniziò a colpire di persona le due donne ormai svenute. Le frustava gridando insulti, ricordando con rabbia che erano finite, che sarebbero state rottamate, anche se ormai non lo potevano più sentire. Andò avanti fino a quando non fu stremato anch'egli. Rimasero appese tutta la notte.
Erano ancora appese, la mattina dopo, quando il padrone si mise davanti a loro a sfogliare un catalogo patinato, scegliendo le due donne che le avrebbero sostituite. Commentava ad alta voce. E scorreva lentamente, pagina dopo pagina.
 

Rottamata
 

Erano ancora in stato di semi incoscienza, quando gettarono i loro corpi nel furgoncino, che lasciò l'elegante villa.
Non seppero quanto durò il viaggio, forse un giorno, forse due. Finalmente a terra, gettate sul fondo del del furgoncino, caddero in uno stato di sonno agonico.
Le scaricarono in un cortile chiuso di una fabbrica abbandonata.
"E' arrivato un altro carico!" gridò l'autista. Subito apparvero diversi uomini che le presero in consegna. Furono scaricate nel suolo polveroso, cosparso di carte, rifiuti, cocci. Le svegliarono con una secchiata d'acqua, e dato che non riuscivano ad alzarsi, le trascinarono per i capelli dentro il fabbricato. Le legarono con le braccia e le gambe ben distanziate su una specie di tavolo reclinabile. Le caviglie erano fissate ai bordi del tavolo. I polsi invece a i una specie di rullo che permetteva di tirarli verso la parte opposta, stirando il corpo delle due sventurate. Rimasero da sole sul tavolo fino a sera inoltrata.
Le luci si accesero improvvisamente sopra di loro. Riflettori potenti, dritti sopra i loro occhi. Una voce commentava sopra di loro.
"Mica male la merce, stavolta. Ma sono ridotte maluccio..."
"...per quello che dobbiamo farne..." rispose sarcastica un'altra voce.
"allora, non perdiamo tempo. Fateli entrare".
Si aprì una porta, sentirono passi avvicinarsi, diverse persone, forse una decina.
"Sono vostre. Fate pure". Ognuno di voi ha il suo numero, rispettate l'ordine. Ma prima potete ispezionarle". Decine di mani si posarono sui loro corpi, carezzandoli, pizzicandoli, seguendo i segni rossi della frusta, graffiandoli.
Poi li sentirono allontanarsi di nuovo. Il tavolo si mosse sotto di loro, ruotando e inclinandosi e di nuovo una frusta iniziò a colpirle. Piccoli colpi, quasi dimostrativi, chiaramente di mani inesperte. Dopo ogni colpo una mano tornava ad ispezionarle per vederne gli effetti, poi ne arrivava un'altro. Da dietro seguivano commenti sui compi, sui loro effetti e suggerimenti, conditi da parole oscene e volgari. Quando riuscirono a vedere attraverso il fascio dei fari, videro che erano circondate da uomini col volto coperto, vestiti di pelle e borchie. Erano tutti fortemente eccitati, e non riuscivano a star fermi in attesa del loro turno.
Per quattro giorni tutto si ripeté uguale. A notte fonda le scioglievano dal tavolo e le stipavano in una piccola gabbia, dove le aspettavano una ciotola di acqua ed una di rifiuti di cibo, su cui le due donne si gettavano.
Il quarto giorno le portarono in una stanza dove le aspettava un grosso uomo, quindi chiusero la porta dietro a loro.
"Eccole qua..." fece l'uomo facendosi incontro a loro e iniziando a tarstarle seni. Le due donne guardavano verso il basso senza reagire.
"Potete parlare?" Le chiese. Le due donne guardavano sempre in basso.
"Vi siete mangiate la lingua? Parlate! Vi ordino di parlare!"
Da quanto tempo non parlava? Un anno, forse più. Non le era permesso parlare. Parlare... Ora le ordinavano di farlo. Cercò di parlare, ma l'inibizione era troppo forte. Alla fine le uscì un sospiro flebile, appena percepibile.
"Sì" sussurrò. "Sì" le fece eco l'altra ragazza.
"Bene. Siamo al capolinea ragazze. Avrete capito che siete state date in uso a sadici paganti. Ma sapete, questo tipo di gente si annoia facilmente, ha bisogno di emozioni forti. Hanno chiesto di vedere una di voi impalata. Sapete come funziona, no? Un bello spettacolo: ti calano seduta sopra questo palo acuminato, che inizia a penetrarti dentro lentamente, spinto su dal peso del tuo stesso corpo. Lo spettacolo della tua morte dura ore, un'intera giornata".
Le due ragazze guardavano terrorizzate. Ora capivano cosa voleva dire "rottamazione". Uccise per dare spettacolo con la loro morte. Si sentirono svenire.
"Ma non vi preoccupate" continuò l'uomo. "E' una di voi che sarà impalata. L'altra si salverà. Almeno per ora. Magari le toccherà una morte migliore, più rapida. Oppure, chissà, ho sentito che una volta una di voi è uscita viva di qui...
Dipende da voi. Beh, adesso siamo qui. Cercate di ricordarvi come si parla, perché dovrete essere convincenti. Ciascuna di voi dovrà convincermi perché dovrei impalare l'altra. E per essere più convincente dovrà soddisfarmi".
Le vide farsi avanti verso di lei. Si sbottonò i pantaloni, le afferrò i capelli e portò la testa a sè, costringendola ad inginocchiarsi. Terrorizzata iniziò a baciare, leccare e succhiare. Lui le continuava a premere la testa, tenuta saldamente per i capelli. Improvvisamente la tirò via e sempre tenendola per i capelli, iniziò a schiaffeggiarla.
"Parla stronza! Vuoi convincermi o no? Parla, devi parlare. Vuoi morire? Perché devo impalare lei ne non te? Perché? Vuoi dirmelo, stronza?!". La gettò al suolo e la lasciò singhiozzante. Afferrò l'altra ragazza per i capelli e la spinse a sé, continuando a gridare e a schiaffeggiare. La ragazza, in ginocchio, inizio a baciare il sesso di lui con delicatezza e devozione, e a balbettare, flebilmente.
"P... perché lei... più bella... più forte, resistente... lei dura tanto... lei è spettacolo migliore. Per piacere, impala lei.... Lei è migliore, per piacere...".
Le fece tacere riempendole la bocca col suo fallo e spingendoloo a fondo.
"Sei stata abbanstanza convincente - le disse tirandola via per i capelli e lasciandola a terra singhiozzante - Ora vedremo cosa sai fare tu".
Il boia ora si rivolgeva a lei. La sua vita, o quel che ne restava, dipendeva da cosa avrebbe saputo fare. La sua compagna aveva tentato di salvarsi facendo impalare lei, e lei sentiva di dover fare lo stesso. Non biasimava nessuno, non odiava nessuno, ma aveva un terrore cieco di quella morte orribile, il palo: lo sentiva penetrarle dentro, farsi strada dentro il suo corpo, spaccare ossa e aprire organi, fino ad uscirle dalla bocca. Si inginocchiò con deferenza, come se l'uomo che aveva di fronte fosse stato il massimo oggetto di amore di tutta la sua vita. Con deferenza gli baciò i piedi, quindi portò la bocca al suo fallo, alternando casti baci e tentativi di parola. Le frasi le uscivano disarticolate, ma non era quello l'importante. L'importante era parlare e convincere.
Quando entrambe ebbero parlato e l'ebbero fatto godere, le afferrò per i capelli e le portò con sé fuori dalla stanza.

"Brave, mi avete convinto. Sì, siete state proprio brave, convincenti. Credo proprio che vi impalerò entrambe, sarete entrambe fantastiche.
Devo dire che era già previsto, ma visto che eravamo qua, perché non farmi convincere anche da voi? Dovevo pur lasciarvi un ultimo desiderio, no? Ecco ci siamo: questa è la vostra ultima scena. Comunque vi voglio mostrare la mia gratitudine: ciascuna di voi potrà godersi lo spettacolo della sofferenza dell'altra. Sarete impalate l'una di fronte all'altra".
Erano entrati in una grande sala, o meglio, un capannone industriale. Vecchie macchine ancora erano disposte in file regolari. Al centro di un grande spazio vuoto, erano piantati due pali alti quatto metri, dalla punta sottile. Sopra i pali, carrucole e ganci pendevano dalle vecchie strutture in ferro.
Le portò di fronte ai due pali e le spinse a terra per i capelli, facendole inginocchiare. Le premeva la testa contro quel tronco di legno scuro.
"Baciate il palo! Baciate il vostro ultimo amante". E intanto aveva preso a colpirle con violenza. Posero le loro bocche sul legno liscio e freddo, piangendo.
"Baciatelo stronze! Leccatelo, baciatelo! E pensate a quando sarà dentro di voi, un amante prepotente e spietato. Il grande amore della vostra vita di prostitute!"
Erano appese da un'ora ai ganci sopra il palo. Erano legate in posizione fetale. Aspettavano che iniziasse lo spettacolo della loro agonia. Le corde stringevano e le toglievano il respiro, ma quello che le angosciava era il palo sotto di loro, proteso e acuminato. L'idea di morire non le spaventava: erano stanche, stanche di soffrire, stanche di tutto. Ma che la loro morte fosse spettacolo, diventasse occasione di scherno. Le avevano lasciato due giorni di quiete, affinché si rimettessero, affinché fossero in grado di reagire, di non accettare il supplizio passivamente.
Passò l'uomo grosso. Ispezionò metodicamente tutti i macchinari, quindi si avvicinò ad una leva. Improvvisamente, con un ronzio, una puleggia iniziò a girare, una corda si tese. Le due donne si sentirono calare verso il basso. Lentamente, sempre più lentamente. Si guardarono l'un l'altra con apprensione. Era il loro ultimo saluto. Quando sentirono la punta del legno sfiorarle sussultarono, e tentarono di rattrappirsi verso l'alto. L'uomo fermò la puleggia, e tenendo la leva con una mano, afferrò un lungo bastone con l'altra. All'estremità del bastone c'era un gancio di ferro.
Sentì il gancio frugarle il corpo, graffiarle la pelle, farla oscillare spingendole in direzioni opposte. Oscillando, sentiva la punta del palo toccarle le natiche. Poi il gancio afferrò la corda che le legava la vita e sisentì manovrare dal bastone mentre aveva ricominciato lentissimamente a scendere. Il bastone la guidava nella giusta posizione. Sentì la punta del palo avvicinarsi all'ano, posizionarcisi con precisione. Cercò di tirarsi sù, ma quella punta la seguiva implacabilmente. Poi, sempre con estrema lentezza, iniziò a penetrarla.
"Ci siamo" pensò. Un vortice di pensieri le passò per la testa. Iniziava una lunga fine. L'uomo abbassò la leva. La puleggia si fermò e il palo cessò di penetrare. L'uomo agitò il bastone che era ancora agganciato alle corde. Lei sentì il legno farsi strada dentro di lei, ma quello stesso legno le impediva di dondolare in seguito alle sollecitazioni del bastone. Soddisfatto, l'uomo sganciò il bastone, rimise mano alla leva e tirò su la ragazza.
"Spiacente deluderti, bella, era solo un test. Ma non essere ansiosa, siamo quasi allo show finale!"
Lo vide da sopra mentre lasciava il capannone. Un'ondata inconsulta di singhiozzi la scuoteva, facendola dondolare. Non riusciva a fermarsi né a controllarsi. Anche l'altra donna aveva cominciato a singhiozzare. Poi sentirono dei rumori improvvisi. Il cuore iniziò a sussultare. Tre uomini entrarono correndo, afferrarono i bastoni e li usarono per afferrare le due donne con brutalità, ferendole col gancio. Le tiravano di lato, mentre l'altro uomo teneva le leva e le faceva scendere. Videro il palo scorrere al loro fianco, poi videro il pavimento sporco schiacciarsi sotto di loro.
Altre grida concitate, altra gente che correva. E in lontananza, una sirena.
"Presto, presto, via subito!". Le afferrarono ancora legate, sganciarono il moschettone che le univa alla corda e le gettarono in un furgoncino che era entrato nel capannone. Il mezzo uscì sgommando, forse da un'ingresso secondario. L'uomo che era con loro nel retro del furgoncino le afferrò e le mise in due sacchi da spazzatura, poi mise a ciascuna un tampone dall'odore pungente davanti al naso. Tutto cominciò a girare, e iniziò il buio.
 

Viaggio
 

Si risvegliò oppressa dal caldo. Si trovava in quella che sembrava una caldaia, ovunque puzza di gasolio e di lubrificanti. Le pareti ricoperte di spessa vernice grigia, e macchie di grasso. Era appoggiata col ventre e la faccia ad una sorta di tavolo da lavoro. Non poteva alzarsi, perché era incatenata per il collare ad un anello fissato alla parete metallica. Le mani sempre ammanettate dietro la schiena. Il viso e il seno poggiavano su una superficie rozza, cosparsa di pungenti trucioli di ferro.
Sentiva tutto vibrare intorno a sé e solo a quel punto comprese con orrore dove si trova: nella sala motori di una nave. All'improvviso la porta di ferro di aprì e ne uscì un enorme uomo dalla tuta blu coperta di morchia. L'uomo si tolse la tuta, la ripose con cura in un armadietto di metallo, si abbassò dietro di lei, le divaricò le gambe legandole alle gambe del tavolo con del nastro isolante. Si rialzò, le allargò le natiche con le mani e la prese da dietro, aiutato dalla resistenza opposta del tavolo.
Lo fece con violenza senza dire una parola, mentre le dita coperte di morchia le strizzavano i seni, le cercavano nell'inguine, le penetravano in bocca. Poi senza dire una parola l'uomo si infilò nella doccia, prese altri vestiti dall'armadietto e uscì. Cercò di opporre resistenza, ma bloccata com'era le fu impossibile. Ma fu sufficiente a lasciar intendere le sue intenzioni all'altro, che come ebbe finito, la sciolse dal tavolo, le liberò le mani e la trascinò agitandola per i capelli in un'altra cabina. Qui le legò di nuovo i polsi ad una corda che pendeva dal soffitto e le somministrò venti colpi con un rudimentale gatto a nove code fatto di strisce di gomma. Quindi la riportò dove stava prima, più convinta a collaborare.
Ad ogni fine turno un uomo che era in sala motori la prendeva, prima di fare la doccia e uscire. Erano in tre, più il cuoco, che la violentava una volta al giorno, quando le portava del pappone e una scodella d'acqua, che doveva consumare senza poter usare le mani, e che la lavava con la pompa. In pochi giorni era nera e viscida di morchia. La rapida spruzzata di acqua non le lavava via il grasso, e puliva assai poco del resto. Dopo pochi giorni era oggetto degli assalti di mosche e zanzare.
Quando si annoiarono, gli uomini della sala macchine iniziarono a fare uso di fantasia, a prenderla con le chiavi inglesi, a tirarle i capezzoli con le pinze, a versarle olio lubrificante nell'ano. Sempre senza una parola, come un lavoro ben fatto su un pezzo di motore. Un giorno uno di loro volle inciderle il suo nome sulla spalla con un piccolo saldatore. Per farla tacere le spinse in bocca un enorme straccio pregno di grasso, che usava per pulire gli ingranaggi. Per immobilizzarla meglio le tirò i capelli ben tesi sulla superficie del tavolo e vi piantò dei chiodi a doppia punta. Finita l'operazione la lasciò li, coi capelli tirati in tutte le direzioni e il panno grasso conficcato fino in gola. La liberò la mattina dopo il cuoco, prima di violentarla.
 

Domata
 

Capì che era la fine del viaggio quando la sciolsero dalla catena. A mala pena poteva rimettersi dritta. La lavarono, per la prima volta, col detersivo sgrassante. Fissarono una nuova catena al suo collare, le misero il bavaglio e le bendarono gli occhi. Iniziò quella che doveva essere la traversata di una città. Forse era notte perché non sentiva voci. La fecero salire su un piccolo camion scoperto, il cui fondo era coperto di paglia. Dall'odore si intuiva che era adibito al trasporto bestiame. La fecero inginocchiare con le spalle contro i bordi, e con un moschettone le fissarono il collare al bordo di ferro. Accanto a lei c'erano altre due donne, anch'esse legate, e probabilmente imbavagliate. Da come erano strette deduceva che il camion doveva essere pieno di "merce". Quando il mezzo si mosse con un rumore assordante, maledì la pavimentazione di pietra della città: ad ogni sobbalzo il bordo ondeggiava, e uno strattone le tirava improvvisamente il collo. Ma dopo i primi minuti capì che il peggio doveva ancora venire. La strada si faceva sempre più dissestata, e probabilmente ad un certo punto terminò del tutto. Il camion si muoveva dondolando su una pista cosparsa di pietre. Fu felice quando il motore si fermò. Sentì che una ad una facevano scendere le altre, poi venne il suo turno. Le sganciarono il collare dal moschettone e lo fissarono ad una catena. Si sentì tirare per una strada di ciottoli. Poi l'ingresso in una porta, la discesa di scale. Quando le tolsero il bavaglio e la benda era in una stanza buia. La catena fissava il collare a un anello sul muro, ma non era cortissima, e almeno poteva muoversi. Al lato della stanza c'era una latrina lercia, ma almeno era qualcosa. Vi rimase due giorni senza sentire più nulla. Intravedeva appena il passaggio del giorno e della notte da una vaga luminescenza sotto la fessura della rozza porta. Niente da mangiare. Nella latrina scorreva un rigagnolo d'acqua in un letto di muffe e alghe. Si adattò a leccarne il magro flusso, goccia dopo goccia, nello stesso luogo dove urinava e defecava.
Poi la fame prese il sopravvento, e passò i restanti giorni (cinque? Sei?) in uno stato di semi agonia.
Uscì da quello stato semiconscio quando la porta si aprì di nuovo. Un uomo sciolse il lucchetto che univa la catena all'anello e la tirò a sé. Capì che doveva seguirlo. Aveva un vestito strano, quasi fuori del tempo. Grossi stivali di pelle, calzoni larghi in pelle, o fustagno, e una lunga giacca tenuta da alamari, stretta in vita da un largo cinturone di cuoio. Dal cinturone pendevano un pugnale e una frusta. L'uomo la strattonò rudemente per il guinzaglio conducendola su per le scale strette, fino ad una sala più grande e illuminata, dove con parole sconosciute ma gesti eloquenti la fece inginocchiare al cospetto di un altro uomo, vestito in modo similare, ma dai finimenti più ricchi. Doveva essere una specie di capo. Questi la osservò con interesse. Teneva in mano un coro frustino, e con quello le fece cenno di allargare maggiormente le gambe, poi le passò su per l'inguine, risalì sui seni. Quindi, sempre guardandola, e fece un commento compiaciuto, nella sua lingua sconosciuta. Poi si rivolse a lei.
"Tu buona schiava? Noi oggi vede. Noi oggi doma. Se tu no resiste doma, tu no buona schiava, tu libera e va via. Se tu buona schiava noi doma schiava".
Qualcosa emerse in lei dalla debolezza e dallo stato confusionale. Cercò disperatamente di rimettere in moto i pensieri, i concetti. Forse ho un'occasione. Forse posso trattare con quest'uomo. Si sforzò di parlare.
"S... Signore, io sono ricca. Se mi libera posso pagare un grande riscatto? Capisce? Riscatto, soldi, tanti soldi..."
Con un sibilo improvviso il frustino le colpì il volto. L'uomo la guardò con disprezzo. "Se tu può pagare, tu non qua. Tu non ricca, tu schiava. E schiava non parla. Schiava zitta". Un altro sibilo e il frustino le colpì l'altro lato del volto. Poi fece cenno all'altro uomo di portarla via. Le somministrarono altri colpi di frusta sulla schiena, poi se la trascinarono appresso lungo i corridoi scuri. Di nuovo la benda sugli occhi, di nuovo il bavaglio. Mentre la catena le strattonava il collo, i pensieri nella sua testa lavoravano febbrilmente. Se resisto sono libera. Qualsiasi cosa sia. Sarà dura, ma se resisto sono libera. Devo resistere. A qualunque costo. Combattere la debolezza, combattere il dolore. E' l'ultima opportunità.
Ora era all'aperto. Sentiva un mormorio diffuso di persone. Legarono il collare ad una lunga catenella e le levarono il guinzaglio. Era in uno stadio.
Era un grande anfiteatro in pietra grezza, affollato di gente vestita all'incirca come i due uomini che aveva visto. Tutti guardavano lei. Il suo guardiano le fece cenni di alzarsi e di allargare le gambe, poi si allontanò. Era da sola, completamente nuda, se non per i ceppi che le stringevano le mani dietro la schiena e il collare che la legava alla lunga catenella. Dalla parte centrale del podio un uomo aveva iniziato un discorso, forse una specie di introduzione a quello che doveva accadere. Era chiaro che parlava di lei. La stava indicando, e l'attenzione del pubblico si concentrò di nuovo sul suo corpo nudo, l'osservavano con attenzione, facevano apprezzamenti.
Dopo un attimo di silenzio si udì il suono di un corno, e da una piccola porta uscì un uomo vestito di nero. La giacca era ornata da strisce di pelle coperte di borchie aguzze. Alla cintura aveva un pugnale, ed in mano una lunga frusta di cuoio intrecciato. Appena emerso dalla piccola porta, si avventò verso di lei con un urlo bestiale. "Resistere, resistere" pensò lei cercando di vincere il terrore improvviso e la debolezza. Fuggì nella direzione opposta fino a quando un violento colpo al collo le fece capire che la catena era finita. Non si era ancora ripresa, quando un altro colpo lancinante le ferì il ventre. La lunga frusta dell'uomo vi era affondata, avvolgendosi sulla vita. E ora altrettanto improvvisamente l'uomo la tirava a sé attraverso la frusta. Con un balzo di slancio riuscì ad evitarlo. Si tuffò in terra rotolando in senso opposto alla frusta, ma così si avvolse nella catena. L'uomo aveva ora afferrato la catena. Lei cercò di sbrogliarsi, ma si sentì afferrare per i capelli. L'uomo le tirò i capelli a terra le li fermò al suolo col piede, quindi le afferrò le cosce con le mani e le sollevò. Sentì una forza immensa riversarsi su di lei, fino a straziarle la carne, fin quasi a spezzarle le ossa. "Resistere... resistere" pensava lei sempre più debolmente, mentre l'uomo con la frustata la maneggiava come un giocattolo. Poi l'uomo la gettò con violenza nella polvere e le si gettò addosso col suo corpo immenso. Il colpo la stordì. La risvegliò il dolore delle borchie aguzze che le ferivano il corpo nudo.
L'uomo si alzò, l'afferrò per il piede e inizio a farla ruotare, lanciandola di nuovo nella polvere a qualche metro di distanza. Quando la vide di nuovo a terra cosparsa da una nuvola di polvere, le gridò qualcosa che non capiva, ma il cui significato era chiaro: sottomettiti.
Non ce la faceva più, ma resistette. Raccolse tutte le forze residue e scappò di nuovo. Questa volta l'uomo non cercò di raggiungerla, ma trattenendola per la catena iniziò a far schioccare la sua lunga frusta. Non tentava di catturarla, voleva deliberatamente ferirla. Ad ogni colpo ripeteva con violenza lo stesso comando. I primi colpi scorrevano lungo la schiena lasciando profonde tracce scavate. Con l'altra mano l'uomo strattonava la catena per impedirle di cercare riparo, per esporre a ogni colpo una parte diversa del suo corpo, ogni volta una parte più sensibile. Lo faceva con precisione ed esperienza, ma questo lei non poteva capirlo. Oramai vedeva solo rosso. L'uomo se la avvicinò di nuovo tirando la catena e le ripetè il comando sconosciuto. Lei si lasciò cadere in ginocchio sulle gambe allargate, e abbassò la testa al suolo. Sentì lo stivale spingerle la faccia nella polvere, mentre un'ovazione si levava dagli spalti dello stadio. Quindi l'uomo gettò la frusta al suolo, slacciò le braghe e con un urlo feroce la tirò su, afferrandola da dietro per i seni con una mano e per una coscia con l'altra. Sentiva le borchie aguzze contro la carne, sentiva le dita di lui straziarle il seno. Dopo averla agitata come una bambola di pezza senza peso, iniziò a penetrarla da dietro, camminando a larghi passi per l'arena, mostrando il suo trofeo alla folla in visibilio con un latrato disumano.
 

Marchio
 

Fu lasciata sola un giorno nella stanza buia, solo che ora le avevano gettato in un angolo del cibo, una pappa informe mista a semi.
Dormì un sonno di uncubi, ma dormì. Aveva ripreso un po' di forze, quando la porta si palancò di nuovo, accecandola. La sagoma di un uomo si stagliava sfocata nella luce improvvisa della porta.
L'uomo la afferrò per la catena che portava al collo e la condusse tramite corridoi bui fino ad un'altra stanza avvolta nel tepore di un bracere, dove altre persone li aspettavano.
Senza una parola, l'uomo fissò la catena ad un gancio nel muro, quindi le somministrò 15 colpi sulle natiche con una piccola frusta di cuoio. Il primo colpo la fece sobbalzare. Non aveva fatto nulla che potesse contrariarli, non c'era motivo. Riuscì comunque a contenersi. L'uomo lo capì, perchè dal terzo colpo aumentò l'intensità, strappandole un urlo. All'ottavo colpo urlava senza contenersi. Dopo l'ultimo colpo la sciolse dal muro e la fece di nuovo inginocchiare. Il ventre ancora le sussultava per i singhiozzi, quando l'uomo le spinse il viso a terra e le mise i piedi sui capelli, quindi si abbassò mettendosi a cavalcioni sulle sue spalle, tenendole ben ferme le natiche con le mani. Uno degli uomini che si trovavano lì estrasse dal bracere un lungo ferro dalla punta piatta e lo spinse sulla natica sinistra della ragazza.
L'uomo era sopra di lei, una enorme massa muscolare che la immobilizzava, schiacciandola verso il suolo. Le cosce di lui pesavano sui segni appena lasciati dalla frusta. I pesanti stivali le tiravano i capelli, strappandoli a ciocche, non poteva spostare la testa più oltre. Ma quando sentì quel dolore improvviso penetrarle la natica ebbe un sussulto più forte di tutto ciò che la teneva ferma. Lancio un lungo urlo che si trasformò in gorgoglio sconnesso, per lasciare spazio ad un inconsulto pianto, ma solo dopo un tempo che le sembrò interminabile. Soltanto quando riaffiorò dal tunnel di dolore e riprese coscienza di sé; percepì l'odore della carne bruciata, e capì che l'avevano marchiata, per segnarne indelebilmente la proprietà. Intanto l'uomo le stava fissando al collo un collare di ferro fissato ad una catena. La tirò su agitando la catena e la spinse a calci fuori dalla stanza. Dopo un lungo corridoio, le fecero salire una lunga, interminabile scala a chiocciola. Non si era ancora ripresa dai colpi subiti, e ogni scalino che saliva sentiva un forte bruciore alle natiche. Era priva di forze e si sentiva mancare, ma l'uomo dietro di lei ancora portava le frusta, e le dimostrò che era intenzionato ad usarla.
 

Il mercato degli schiavi
 

La svegliarono all'alba gettando una secchiata d'acqua fredda attraverso le sbarre. Aveva una percezione confusa dei ricordi. Si trovava in una stanza insieme ad altre donne, rinchiuse ciascuna in una piccola gabbia grande quanto un canile.
Aprirono la porta della gabbia e con un ordine secco le fecero capire di uscire.
La misero in fila insieme ad altre fino a farla ispezionare da una donna che le mise in ordine i capelli e le ispezionò i denti e le mani, quindi disposero tutte le donne in un'unica fila, e agganciarono i loro collari a una lunga catena. Una guardia armata afferrò il primo capo della catena e iniziò a strattonarla con forza, indicando alle schiave la via delle scale. Uscita in strada sentì improvvisamente il sole sulla pelle. Quanto tempo era che non vedeva la luce del sole? Le riaffiorarono ricordi antichi, e improvvisamente si sentì di nuovo nuda, esposta, a camminare per la pubblica via, con le mani slegate dietro la schiena, tirata per il collo insieme ad altre donne, come una mandria di vacche.
La gente che le vedeva passare si fermava, faceva commenti, cercava di guardare da vicino o di toccare qualche particolare, una guancia, un seno. Un grido brusco della guardia li riportava indietro. Prima pagare.
Quando arrivarono alla piazza le fecero salire su una specie di podio, dove rimasero in mostra aspettando le contrattazioni. Sentiva gli sguardi frugarle il corpo, soppesarne ogni singola parte, stabilire un prezzo. Era un articolo commerciale.
Come per le altre, anche per lei l'imbonitore si dilungò in descrizioni. Per dare maggiore forza al discorso, le toccava la guancia, le esponeva un seno, le infilava due dita in bocca, a mostrare i denti. Per mostrarne la usabilità iniziò a masturbarla tra le gambe davanti alla folla. Si sentiva umiliata, eppure la mano sapiente dell'uomo, che evidentemente conosceva il suo mestiere, riuscì a ottenere l'effetto desiderato, e all'improvviso si accorse che stava gemendo di piacere. Davanti a tutti. Fu colta da un improvviso rossore, e nascose la testa tra i capelli, atterrita dalla vergogna. Implacabile, l'imbonitore le afferrò i capelli dietro la nuca costringendola ad alzare la faccia, mentre spingeva le dita tra le sue cosce.
Fu a quel punto che si avvicinarono i compratori. Il primo la guadò con attenzione e passò oltre. Il secondo le fece aprire la bocca, le passò la mano sul seno e poi giù fino alle cosce, la fece piegare le tastò le natiche, poi la fece rialzare e se ne andò scuotendo la testa. Uno dopo l'altro si fermavano su un'altra donna, contrattavano brevemente, pagavano e la portavano via. Nessuno voleva comprarla. L'avrebbero certamente punita, per questo. La vergogna era diventata umiliazione. Si sentiva merce scartata, avariata, di infima qualità.
Una bella donna riccamente vestita le passò davanti guardandola con disgusto. Un terzo compratore si soffermò solo sulla sua vicina. Non le degnò uno sguardo, ma passando le afferrò un capezzolo e lo strinse forte torcendolo, mentre diceva una frase scherzosa all'imbonitore, che rispose alla battuta con deferenza.
All'improvviso l'allegro vociare del mercato cessò, e si stese sulla piazza una cortina di silenzio. Un manipolo di cavalieri al trotto si stava avvicinando al podio di vendita. Erano tutti armati. Quello che li guidava aveva un copricapo di pelle. Scese da cavallo con un balzo con grido verso le guardie, che deposero prontamente le armi al suolo. Quindi l'uomo si scagliò contro l'imbonitore, mentre gli strappava dalle mani la catena delle schiave. L'imbonitore cercava invano di calmarlo.
L'uomo afferrò per i polsi la donna riccamente vestita, le mise un pezzo di catena intorno al collo e la chiuse con un lucchetto. La donna gridò, sotto lo sguardo terrorizzato dell'imbonitore, ma un potente schiaffo la convinse al silenzio. L'uomo legò al suo cavallo l'altro capo della catena delle schiave. Quindi ritenne di dover dare un'ultima lezione alla cittadinanza, perché balzo tra la folla, afferrò per i capelli una giovinetta, le mise la mano nel colletto e le strappò via la tunica. Sempre tenendola per i capelli, la costrinse a succhiargli il fallo, mentre nello stesso tempo, a scatti, insultava e minacciava la cittadinanza terrorizzata.
Prima di rimontare a cavallo fece un cenno ai suoi uomini, che rimossero ai vestiti alla signora elegante, lasciandola nuda come le altre schiave. Quindi la colonna si mosse al trotto, con le donne che cercavano di tenere il passo dei cavalli, dirigendosi verso le porta della città.
 

Tra i fuori legge
 

Camminava zoppicando. Non era abituata ad andare scalza. I sassi che sporgevano dal suolo di argilla secca erano aguzzi, e i piedi le si erano coperti di piaghe. La marcia fu lunga. A metà giornata il capo fermò la colonna, fece staccare dalla catena la donna ricca, che non aveva mai cessato di singhiozzare, e mentre due uomini la tenevano per le braccia divaricate, la frustò con forza usando una vecchia corda. Quindi, ottenuto il silenzio, le rimise la catena al collo e riprese la marcia. Solo a sera poterono fermarsi. Le spalle erano bruciate dal sole, ed erano diventate rosse. Aveva i brividi. Gli uomini prepararono l'accampamento, mangiarono, poi ciascuno prese una donna e se la portò nella tenda.
Un grosso uomo coperto di polvere, di grasso di pecora e di sudore la tirò via per i polsi, la sbatté sul suolo della tenda e le si gettò sopra leccandola e sbavando. Dopo averla violentata, la ricondusse fuori, sotto un albero, le legò due corde alle caviglie e lanciò ciascuna corda su un diverso ramo, quindi la issò su.
Le appese anche le braccia ai rami con una corda, fino a farla pendere orizzontalmente a X. Quindi la prese un'altra volta facendola oscillare alle funi, poi le sciolse le mani e la tirò più in alto.
Appesa a testa in giù per le caviglie, rimase per tutta la sera oggetto degli scherzi degli uomini. Sembravano giocare e ridere come bambini. Prima le collocarono un bersaglio tra le gambe e si esercitarono al tiro con l'arco. Poi le spinsero in bocca un piccolo ceppo di legno e glie lo legarono stretto con delle corde che le giravano dietro la nuca. Quindi le misero una candela nell'ano, tra le gambe divaricate e l'accesero. Quando il pastoso misto di cera e grasso rovente iniziò a colarle tra le gambe le venne da gemere e ad agitarsi, ma si accorse subito che così ne cadeva di più, e che l'unico modo per evitare il dolore era inarcare il pube e tenere la candela più ferma e verticale possibile.
Agli altri rami dell'albero, altre ragazze subivano lo stesso trattamento, trasformate in tante lampade sofferenti. Più sfortunata, l"ultima di loro, la donna ricca, a cui di candele ne avevano collocate due, una davanti e una dietro: era impossibile tenerle entrambe verticali.
La mattina dopo era ancora appesa all'albero, quando udì un branco di pecore avvicinarsi. Il pastore doveva essere in buoni rapporti con i banditi, perché si salutarono calorosamente, benché era chiaro che i briganti lo trattassero con la bonaria simpatia che i guerrieri accordano agli idioti e ai pazzi. Poi iniziarono uno strano rituale: il capo della banda passò in rassegna le pecore e ne indicò due. Quindi il pastore si avvicinò all'albero e indicò una delle donne.
Quando si vide indicare dal pecoraio le viscere le si rivoltarono. Era un uomo repellente, basso e tarchiato, con il viso marcato da verruche e profonde cicatrici, lo sguardo assente, l'espressione animalesca. L'uomo le si avvicinò, le palpò la faccia ancora stretta tra i legacci che tenevano lo strano bavaglio, le strinse un seno graffiandolo a fondo, e le infilò la mano tra le gambe. Quindi la passò nell'ano e con una risata demente ne estrasse i resti della candela, come avesse tirato fuori un coniglio dal cappello si un prestigiatore. Gli altri uomini risposero con risate oscene.
La tirarono giù e le legarono una corda al collo. Il pastore prese la corda giusto vicino al nodo e agitandola a scatti la portò in mezzo al gregge e le caricò bruscamente un sacco di pelle pieno di masserizie. Aveva ancora le mani legate dietro la schiena, e il peso delle corde ricadeva tutto sulle spalle piagate dal sole. Era terribilmente pesante, e bruciava sulla pelle, ma il pastore la iniziò subito a frustarla con un ramoscello verde, sottile e flessibile, e lei non se lo fece ripetere due volte. Si allontanarono mentre i banditi sgozzavano le due pecore.
Seguì il gregge una giornata intera. Ogni tanto il pecoraio la buttava per terra con un potente calcio e la violentava, sempre da dietro, come aveva imparato con le pecore. Ogni volta la copriva di graffi sui seni e di morsi. Poi la marcia riprendeva, sotto il peso della sacca. Al tramonto il pastore radunò le pecore sotto un albero e accese il fuoco.
Mentre lei era legata all'albero, lui ciucciò il latte dalla mammella di una pecora, poi tentò di invano fare lo stesso con lei. Succhiava con forza e con rabbia, ma non ne ottenne niente. Le masticò i capezzoli fino a farla sanguinare. Poi, infuriato, iniziò a picchiarla, a frustarla col ramo, insultarla nella sua lingua elementare. Quando fu stanco, la afferrò per i piedi e la trascinò vicino al fuoco. Quindi le passò una corda intorno al busto, sotto le ascelle, lanciò l'altro capo sul ramo di un albero, e la tirò su, lasciandola appesa sopra il bivacco.
Sentiva il calore salirle dal basso verso l'alto. Il fuoco era spento e restava solo la brace, ma bastava a scottarla se rimaneva ferma per più di un minuto. Doveva muovere le gambe per far circolare l'aria attorno a lei, ma ogni movimento le doleva alle ascelle e ai seni, dove la rozza corda tirava. Ogni ora il pecoraio si svegliava e riattizzava un po' il fuoco, poi si rimetteva a dormire. Passò un'altra notte senza dormire. La mattina dopo lui la tirò giù e le rimise la sacca sulle spalle, sempre coprendola di insulti e di frustate. Il gregge si rimise in movimento. Camminò tutta la mattina per una strada in salita. Fu felice quando lui le fece cenno di sdraiarsi per terra.
Conficcò al suolo quatto pali disposti a croce, ve la legò per le braccia e le gambe, poi si allontanò. Lei rimase li, braccia e gambe allargate e tirate con forza. Chiunque poteva passare e prenderla. Ma era sfinita e si addormentò sotto il sole.
Dopo qualche ora il pastore ritornò con una decina di uomini. Anche questi sembravano banditi, ma molto più approssimativi. Una banda raccogliticcia, priva di cavalli e di vere e proprie armi, ma quanto bastava per imporre il proprio pedaggio ai pastori e ai piccoli commercianti privi di scorta.
Con finti gesti cerimoniosi gli indicava la donna e gesticolava ridendo. L'ansia la faceva respirare profondamente, muovendole i seni su e giù. Era li, come un agnello sacrificale, nuda, aperta, immobilizzata, e lui li stava invitando a prendere parte al banchetto. Era il suo pedaggio per attraversare incolume il passo. Non se lo fecero dire due volte. Il primo le si buttò addosso con un grugnito, prendendola con violenza, mentre con le grosse mani le strizzava i seni e le torceva i capezzoli. Non capitavano spesso donne per quei paraggi. Mentre il primo la violentava, gli altri commentavano, discutevano le caratteristiche della donna, le sue forme, la sua resistenza. L'avrebbero testata tutti più volte.
Quando si furono soddisfatti, le tolsero le corde e le ordinarono di alzarsi. Non riusciva neppure a muoversi, ma il pastore iniziò a frustarla selvaggiamente col suo ramoscello. La colpiva con rabbia sulla faccia, sui seni, in mezzo alle gambe.
Alla fine alzò, barcollando. Gli uomini, benché sazi, avevano ancora voglia di diverstirsi con lei. Le si fecero intorno, le legarono le mani dietro alla schiena e le annodarono una lunga corda attorno alla vita. Di li la tirarono entrambi i capi attraverso le gambe e li fecero risalire su per la schiena, passando ogni capo sopra ciascuna spalla, per legarla di nuovo alla vita, tirando sempre con forza. La larga e ruvida corda le si era conficcata tra le gambe e le passava sopra le spalle ancora bruciate e sopra i seni, affondando nella morbida carne fin quasi a tagliarla. Le legarono un'altra corda ben stretta attorno al busto, appena sotto i seni, in modo da tirare ancor più le due corde verticali che glie li schiacciavano. A malapena poteva respirare. Un'altra corda la legarono al collo, e fra risate, urla e frustate, la fecero camminare strattonandola. Ogni passo che faceva le costava un dolore lancinante. A turno, uno l'afferrava per i capelli, un altro la frustava con un ramoscello o la prendeva a calci, un altro la tirava per la corda al collo. Gemendo e singhiozzando sommessamente li seguì per tutta la strada.
 

La caccia
 

Dopo il passo la strada cominciò a scendere, fino ad arrivare ad un altipiano verde, circondato di rocce. Al centro c'era un piccolo lago, l'erba cresceva alta. Il pastore poteva ristabilire le sue pecore, dopo la lunga marcia nelle steppe aride. Era territorio dei banditi, ma stavolta aveva trovato il modo di pagare l'affitto. E anche lui poteva divertirsi un po'.
Mentre le pecore si abbeveravano nel laghetto, gli uomini la fecero inginocchiare e la costrinsero a succhiare il fallo a tutti. Poi si disposero a semicerchio attorno a lei e le fecero cenno di andar via. Lei li guardò stupita, ma quelli iniziarono a urlare minacciosi, facendole cenno di allontanarsi. Iniziò a muoversi, sempre a fatica, con le corde che le bruciavano. Ogni tanto si voltava intimorita, e li vedeva sempre li fermi, a guardarla allontanarsi. Quando si fu allontanata di circa duecento metri sentì un urlo selvaggio: gli uomini si erano messi a correre nella sua direzione brandendo armi e bastoni. Era una battuta di caccia! Colta da improvviso terrore tentò di correre, malgrado le corde le lacerassero letteralmente la pelle, ma in poco tempo gli uomini le di fecero vicini. Si guardò indietro e si rese conto che lasciava una traccia nell'erba troppo visibile. Allora tornò indietro di una decina di metri, lungo le proprie impronte, si buttò di lato tra l'erba alta e iniziò a strisciare in un'altra direzione, cosa non facile con le mani legate dietro alla schiena. Si spingeva con le ginocchia cercando di rimanere il più possibile appiattita al suolo, per non abbattere troppi steli e lasciare meno tracce della sua presenza. La per far ciò strisciava col busto, scaricando tutto il peso proprio sui seni. Il suolo sembrava fresco e piacevole, ma i fili d'erba erano taglienti e le cosparsero il busto con decine di graffi, minuscoli ma profondi e dolorosi. Tentò di usare quelle fragili lame per tagliare le corde che la legavano, ma invano.
Dopo qualche minuto ascoltava immobile, pietrificata dal terrore, le grida degli uomini che si avvicinavano, proseguivano lungo le sue tracce e si allontanavano in avanti. Rimase immobile fino a quando non si fece notte. Gli uomini gridavano di rabbia, probabilmente minacciavano vendetta.
La luna splendeva in cielo. La guardò con rabbia affranta, e si riabbassò rapidamente. Alcuni dei banditi continuavano a darle la caccia, e appena si fosse allontanata dall'erba alta su per i pendii rocciosi, sarebbe stata troppo visibile, facile preda dei rabbiosi cacciatori. Non era riuscita a liberarsi delle corde. Sul suolo erboso non aveva trovato un solo sasso, né altro che potesse aiutarla. Non era in alcun caso in grado di correre. Inoltre era sfinita, e le ore di immobilità le avevano accentuato il dolore sotto le corde. Decise di darsi un po' di pace e di rimanere lì, sperando che se ne andassero. Mangiò a morsi un po' di quell'erba, amara e stopposa.
Si accorse con orrore che stava brucando come un animale, prima di cadere addormentata. La svegliarono all'alba le urla selvagge dei banditi che si avvicinavano di nuovo, mentre il cielo cominciava a schiarire. Questa volta puntavano dritti verso di lei. Troppo precisi, pensò. Udì guaire. I cani, pensò terrorizzata, avevano utilizzato i cani. E infatti vide il primo cacciatore apparire tra l'erba. L'indicava con una mano, e con l'altra teneva un cane a una corda. Scattò in piedi e iniziò a correre, non sentiva più il dolore ma solo le grida degli uomini e dei cani. Finché una spinta improvvisa non la buttò per terra. Un dolore lancinante le penetrava la spalla, e udiva nelle orecchie il ringhio strozzato del cane che agitava la testa senza mollare la presa. Poi arrivarono gli uomini, la liberarono dal cane e iniziarono a picchiarla coi bastoni e con strisce di cuoio. Quindi le tolsero le corde lasciandole solo i polsi e il collo legati. Il sangue che improvvisamente rifluiva sotto la pelle le provocò un dolore tremendo, ma era ancora niente: iniziarono a prenderla a turno, poi tutti insieme. Le sembrava di avere una palla di fuoco tra le gambe. Le rozze mani le strizzavano i seni,facendo scoppiare i capillari appena inturgiditisi. Per farla cessare di urlare le spinsero in bocca una palla di erba compressa,che le provocava continui conati di vomito.
Quando ebbero soddisfatto i loro desideri, decisero che anche il cane meritava la sua parte. La fecero inginocchiare, le tirarono a terra la testa e due di loro le montarono coi piedi sui capelli per tenerla ben ferma. Alcune ciocche le si strapparono. Intanto un altro bandito le spalmava del grasso di pecora tra le gambe. Quindi aizzarono il cane, che si gettò d'un balzo sul fiero pasto.
Quando anche il cane ebbe finito le liberarono la bocca e la riportarono all'accampamento presso il lago, strattonandola per i capelli e la riconsegnarono al pastore, che era rimasto con le sue pecore.
Lui la prese per la corda che ancora aveva al collo, la tirò dentro l'acqua, e e pestò la corda tirandole giù la testa, costringendola con la faccia a mordere il fondo limaccioso del lago. Per reazione l'acqua le portò a galla le gambe. Lui le afferrò e la prese, tenendola rovesciata, con la testa sott'acqua. All'inizio riuscì a trattenere l'aria, ma in breve il respiro le mancò, tentò di liberarsi dalla presa, tossì, e l'acqua iniziò a entrarle nei polmoni. Continuò a violentarla, mentre lei si agitava disperatamente. La lasciò risalire solo quando fu sazio. Aveva il viso bluastro, ma tossiva sputando acqua e fango. Si sarebbe ripresa. La tirò fuori e la buttò sull'argine del lago, con disinteresse.
Rimase lì per una settimana, durante la quale imparò a sue spese quanto ricca e sottile fosse, in fatto di sesso, la fantasia brutale degli uomini delle praterie. La usarono in decine di modi diversi, e nessuno fu di suo gradimento. Non l'usarono mai per fare il fuoco o altri servizi, perché non si fidavano, e non le tolsero mai le corde dai polsi. Per mangiare poteva rosicchiare a terra le ossa che gettavano, contendendosele col cane, il quale però ormai che l'aveva posseduta, era aggressivo e minaccioso.
Quando le pecore si furono rimesse, il pastore decise che era tempo di ripartire. Appena ebbe radunato le pecore i banditi gli si fecero intorno, e iniziò una trattativa. Evidentemente stava cercando di lasciarla presso di loro, perché ne decantava la bellezza, i muscoli e la dentatura, con gesti plateali. Ma loro continuavano a indicare le pecore. Allora lui la fece strisciare ai loro piedi, le fece leccare le dita intrise di limo e di sterco di pecora. I banditi lasciarono fare ridendo, ma poi si fecero seri e indicarono di nuovo le pecore. Non la volevano, preferivano le pecore, o forse non volevano donne. In un ultimo tentativo, il pastore le mise a terra con le gambe divaricate, invitando i banditi a prenderla ancora una volta, cosa che fecero per dovere di ospitalità, ma mentre l'ultimo ancora la penetrava, gli altri già afferravano le quattro pecore reclamate.
 

Nella stalla
 

Il gregge si rimise in moto, e lei aveva sempre la pesante sacca sulle spalle. La strada ora era in discesa, ma non era più confortante. Il pecoraio era furioso, e per tutta la strada al punì per non essere stata scelta dai banditi. La frustava col ramoscello, le tirava sassi, la prendeva a calci, fra sputi e insulti. Ogni volta che le scappava un singhiozzo, lui aumentava la dose. Rimpiangeva le sue quattro pecore. Quando fu sera, radunò il gregge e riprese a frustarla e insultarla. La gettò nella povere buttandosi su di lei e coprendola di pugni sul volto, poi si accorse del suo seno e iniziò a ciucciarlo e masticarlo, fino a quando si addormentò come un bambino.
Il mattino dopo la marcia riprese. Quando avvicinarono una piccola fattoria il pecoraio le tirò la corda e la portò dentro il recinto. Gli si face incontro un contadino ancora giovane che sembrava conoscerlo, ed iniziò una nuova trattativa. Il pastore mostrò di nuovo denti, seni, ventre e natiche con esagerato orgoglio, e indicò il gregge di pecore oltre il recinto. Quindi si avvicinò alla stalla e indicò un bufalo, dopo averlo analizzato allo stesso modo. Questa volta la trattativa andò in porto. Un bufalo contro una donna e due pecore. Il pecoraio riprese il cammino col gregge, e il contadino portò le due pecore nel recinto, poi la prese per la corda e la condusse dietro la capanna. C'era la carcassa di un somaro. L'animale non doveva essere morto da molto, ma col caldo della giornata aveva già richiamato nugoli di mosche. Lui le diede una pala, e le fece segno di scavare. Per essere più convincente la colpì un paio di volte con un nerbo di bue. Mentre lei scavava, lui col coltello tirava via dalla scheletrica carcassa quel che rimaneva della carne. Quindi ne trascinò i resti nelle buca e le fece cenno di ricoprirla. Finito il lavoro, riprese la corda e la portò nella stalla. La fece inginocchiare nella paglia, di fronte al muro, e legò la corda a un anello di metallo che vi era infisso. Aveva ancora le mani legate dietro la schiena. Alla sua destra aveva una mucca da latte, alla sinistra una scrofa, legate allo stesso modo: era diventata un animale da stalla. Era evidente che avrebbe dovuto fare il somaro.
L'uomo non sembrava violento, ma quando lei cercò di sedersi sulla paglia la colpì col nerbo di bue. Per impedirle di sedersi piantò due paletti nel suolo e vi agganciò gli anelli che ancora portava alle caviglie. Rimase inginocchiata, a gambe divaricate, i polsi legati dietro la schiena e la faccia premuta sullo strame. Lui si inginocchiò dietro di lei e la prese. Quindi mise dell'acqua sporca nel truogolo di fronte a lei e lasciò la stalla chiudendo la porta dietro di sé. Sfinita, si addormentò sulla paglia.
Ricomparve la mattina dopo, la sveglianndola poco prima dell'alba. La sciolse dall'anello e dai paletti, e la portò con sé nei campi dietro la capanna. C'era un piccolo aratro abbandonato nel campo. Le mise il giogo attorno al collo, lo fissò alle spalle con delle approssimative stringhe di cuoio e con dei pezzi di corda, e con il nerbo di bue la incitò a tirare. Dopo i primi passi si sentì già sfinita, ma ogni volata che rallentava il nerbo di bue la colpiva sulle natiche, sulle gambe e sulla schiena. Alla fine riuscì a tenere un ritmo accettabile, lento ma continuo, e riuscì a resistere fino a quando il sole era alto in cielo. Sudava come una fontana, e i tafani si affollavano sulla sua pelle bagnata e bruciata dal sole. Ma non poteva scacciarli, perché ogni movimento le avrebbe fatto perdere il ritmo, le sarebbe costato una crudele e profonda frustata.
Verso mezzogiorno il contadino la sciolse dall'aratro e legò la sua corda vicino a una pozza con dell'acqua, dove si poté abbeverare. Quindi anche lui si mise a mangiare della carne secca, lanciandole di tanto in tanto dei brandelli di pelle. Li tirava in alto e lei doveva afferrarli al volo con la bocca, altrimenti, appena toccavano terra, lui ci metteva sopra il piede, e allontava ridendo con un calcio il viso di lei che tentava di prenderli. Nel pomeriggio la legò ad un carretto e si fece trascinare fino ai campi più lontani. Non era affatto facile, perché il carro non aveva parti in metallo. L'asse era interamente in legno, ed era bagnata. Le ruote, vecchie e consumate, correvano con difficoltà.
Ma col suo nerbo di bue in mano, il contadino aveva un argomento assai convincente, e raggiunsero i campi al trotto. Appena nel campo la sciolse e le face caricare sul carro una piccola montagna di rape che erano state ammonticchiate nei giorni precedenti. Altre montagnole sorgevano poco lontano. Quindi la legò di nuovo al carro, vi montò sopra sedendo sulle rape, e le fece capire con una frustata che era tempo di ritornare. Era il tramonto quando la riportò alla stalla e le legò la corda all'anello. Prima di uscire si inginocchiò dietro di lei e la prese di nuovo.
La mattina successiva, dopo averla sciolta, la condusse all'interno della capanna. Le legò i capelli dietro a coda, sopra il collo, le sciolse la corda dal collo, la fece inginocchiare con la testa sopra un grosso ceppo di legno e le fermò strettamente il collo con una cinghia di cuoio, quindi afferrò un coltello. Per un attimo temette che lui volesse macellarla, come un animale da stalla, ma lui le fece cenno di non spaventarsi. Le passò la punta del coltello nel naso causandole un dolore improvviso, ma le cinghie al collo e l'altra mano di lui sul capo la trattennero. Dopo averle forato la parte interna della cartilagine, le applicò un grosso anello, di circa cinque centimetri di diametro. Quindi la guardò con soddisfazione, le sciolse la corda dal collo e la legò all'anello. La liberò dal ceppo e la condusse all'aratro. Questa volta non ebbe bisogno di usare la frusta per ottenere il lavoro, né per condurre il carretto al trotto: lei rispondeva docilmente ad ogni minima sollecitazione._ _Il naso le doleva terribilmente, le sembrava che stesse sempre per spezzarsi. Ma la mano del contadino era esperta, e non forzava mai troppo, anche se più lei li lamentava e più lui la strattonava. Imparò a tacere.
I giorni successivi si ripeterono tutti uguali. Ogni giorno c'era da arare, raccogliere e trasportare. Il contadino non la maltrattava più del necessario, e il periodo passato con lui fu uno dei migliori tra quelli che le erano capitati. Se non fosse stato per il cibo, che consisteva sempre in un pappone di acqua mista a resti andati a male. Doveva succhiare con la lingua (le mani erano sempre segate dietro la schiena) selezionando gli agglomerati viscidi e gelatinosi, per evitare i grassi vermi che vi pascolavano. Fino a quando l'abitudine, la fame e la fretta, causata dalla concorrenza con la scrofa, non la convinsero a mandar giù tutto senza distinzioni.
Diverse volte fu colta da crampi, ma il contadino era inflessibile. Quello che andava bene per la scrofa, doveva andar bene anche per gli altri animali della stalla.
Non aveva modo di contare i giorni, in quel ritmo primordiale. La sua vita di stalla fu interrotta un'alba in cui la svegliarono grida umane. Si accovacciò nella paglia, fino a quando udì il crepitare delle fiamme. Gli animali sembravano impazziti quando la stalla cominciò a bruciare. Anche lei fu colta dal panico, quando il fumo rese l'aria irrespirabile. Aveva morso la corda e tentava di strapparla via a strattoni. Tossendo disperatamente riuscì a bruciare la corda che le teneva le mani, appoggiandola sui tizzoni che cadevano giù dal soffitto in fiamme. Appena ebbe le mani libere afferrò l'anello che aveva al naso e vi si concentrò con la forza della disperazione. Riuscì ad aprire l'anello e a liberare il naso. Scappò via dalla stalla che ormai cadeva in pezzi.
Correva per i campi senza neppure sapere in quale direzione. Si era ustionata i polsi e la schiena, ma sfogava tutto il terrore nella corsa. Non sapeva cosa fosse successo, ma intuiva che non era niente di buono. Correva nei campi, senza neppure sapere in quale direzione, con l'unico obiettivo di fuggire via. Fuggire soltanto. Fino a quando sentì un galoppo alle sue spalle. Scappò ancor più velocemente, colta dal terrore, ma un improvviso dolore sul collo la gettò in terra prima di sensi. Si risvegliò che non riusciva a muoversi. Il collo era trattenuto in terra da qualcosa. Riuscì a fatica a girare la testa, e vide una sagoma sopra di lei. Da sopra il cavallo teneva un bastone la cui punta biforcuta si conficcava al suolo, imprigionandole il collo. Con un unico movimento tolse il bastone e buttandosi dal cavallo le saltò addosso.
Con una mano le teneva fermi i polsi, con l'altra le aveva afferrato i capelli dietro la nuca. Le alzò la testa e la baciò a lungo. Poi diresse la sua attenzione ai seni.
Era strano. Neppure riusciva a ricordare da quanto tempo nessuno l'aveva mai baciata. Sentì uno strano brivido di adrenalina scorrere dentro di lei, nel profondo. Inarcò il busto e rilassò le gambe. L'uomo, dal canto suo, non perse tempo e la prese.
Il predone la riportò verso la fattoria oramai in fiamme. Le legò le mani al ramo di un albero in modo che non si potesse muovere, e si dedicò a radunare il bestiame superstite. Quando riempì dei sacchi di generi commestibili e altro materiale che ritenne utile portar via, caricò tutto il bestiame e si mosse. Anche a lei toccava un grosso e pesante sacco, che le fece rimpiangere il carro a cui si era ormai adattata. Quando ebbe finito, le legò i polsi dietro la schiena, le passò una corda attorno al collo e l'altro capo al cavallo. Le legò al collo anche la corda che teneva in fila gli animali. Quindi montò in groppa e mosse il cavallo al trotto. Lei correva cercando di tenere il passo del cavallo. Appena riusciva a raggiungere il cavallo, lui accelerava La corda fissata al cavallo le tirava inesorabilmente il collo in avanti, ma dietro le bestie facevano resistenza, togliendole il respiro. Il ruvido sacco le lacerava la pelle e la faceva incespicare sotto al suo peso. Cominciò ad inciampare, ma lui non fermò mai il cavallo. La trascinava per il collo per tre o quattro metri. Sassi e arbusti le graffiavano la faccia e i seni, poi riusciva a rimettersi in piedi, appena prima di sentirsi completamente strangolata.
Veniva da lontano, perché il viaggio durò due giorni, durante i quali non si curò del bottino, se non per accelerarne la marcia.
 

In guerra
 

La marcia era dura, sotto il sole. Corse per cinque ore strattonata dal cavallo, cercando di tenersi in equilibrio sotto il sole cocente e col suolo brullo che le feriva i piedi, era sudata e disidratata. Quando si avvicinarono a un ruscello lui scese da cavallo, la sciolse e la condusse a bere. La fece inginocchiare, le afferrò i capelli e le spinse la testa nell'acqua. Ingoiò quanta più acqua poteva, anche se si sentiva soffocare, perché sapeva che non le sarebbe più capitato per molto tempo. Poi sentì il bisogno di respirare, l'acqua le andò di traverso, iniziò a premerle nel naso e a entrare nei polmoni. Si contorceva, ma la mano di lui la teneva ferma, sott'acqua. Aveva stabilito quanto tempo dovesse bere e non accettava repliche. Quando la lasciò risalire aveva ingoiato un bel po' d'acqua. La lasciò a tossire sul bordo del ruscello, poi le rimise la corda intorno al collo e rimontò a cavallo.
Verso mezzogiorno si fermò per mangiare e diede qualcosa anche a lei. Prima di ripartire, le sciolse i posi e li legò alle estremità di un grosso ramo. Il centro del ramo lo legò da dietro al collo di lei. La fece inginocchiare, si mise daventi a lei a gambe divaricate e le afferrò con forza i capelli dietro alla nuca, portando la bocca di lei sul suo fallo. Quando fu soddisfatto, la risollevò per i capelli, le annodò nuovamente al collo la corda fissata alla sella del cavallo, e si rimise in marcia. A malapena poteva respirare, ma aveva imparato a muoversi in modo tenersi in equilibrio.
Camminarono tutto il giorno senza fermarsi. Fecero il loro ingresso in città che il tramonto si avvicinava. Poco prima di entrarvi aveva consegnato tutto il bestiame, tranne lei, a quello che sembrava un suo servitore, venutogli incontro lungo la strada.
Il suo arrivo doveva essere stato annunciato dalle staffette, perché quando passò la una porta, folla si era radunata ai margini della strada. Appena entrati si fermarono, e la folla si chiuse intorno a loro silenziosa.
Tutti la stavano guardando. Lui le fece cenno di allargare le gambe, le braccia erano sempre tenute larghe dal bastone che legato sul collo. Ubbidì. Si sentiva sporca, era coperta di polvere, e rigagnoli di sudore tracciavano righe scure sul volto, sul ventre, tra le gambe. Da sopra il cavallo, l'uomo che l'aveva conquistata agitava la corda che le legava il collo, e gridava brevi slogan, ai quali la folla rispondeva con dei monosillabi, in coro. Durò circa un quarto d'ora, poi, con una complicata cerimonia, consegnò la corda ad un altro uomo con una catena d'oro al collo, che si era fatto avanti che la tirò con sé e la portò avanti, lungo la strada, mentre la folla si apriva in due ali al loro passaggio. Quindi la portò su per degli scalini, fin sopra una piazza rialzata, una specie di altare, sul quale era un rude carro di legno e una vasca. Ai bordi delle vasca delle ancelle, forse delle sacerdotesse, la presero in consegna, la immersero e la lavarono, la unsero con oli profumati e la consegnarono ad altri due uomini. L'uomo con la catena d'oro stava parlando alla folle, come se officiasse un rito religioso. Intanto i due uomini avevano disposto sul carro due grosse travi disposte ad X, una croce di Sant'Adrea. Presero la donna, la issarono sulla croce e ve la legarono strettamente. Terminata l'operazione, l'uomo con la catena la indicò, fece dei segni ignoti con la mano destra sul suo ventre, sempre continuando a parlare, e la folla lanciò un grande grido di giubilo.
Era strano. Il bagno l'aveva un po' rinfrancata, ma ora, legata sulla croce, sentiva i polsi dolere, mentre il formicolio alle braccia e alle gambe si faceva sempre più forte. Eppure vedeva quella folla che la guardava come fosse una dea. Una dea catturata e legata, impotente ed esposta agli sguardi penetranti, ma pur sempre una dea. Sentiva di essere per loro qualcosa di molto importante, e una strana tensione si impossessò del suo corpo, mentre i capezzoli le si inturgidivano.
La cerimonia ebbe fine, e scese la notte. Fu lasciata sulla croce, circondata da torce e da guardie. Il dolore agli arti la faceva gemere, e un ragazzo in tunica bianca le slegò a turno le gambe e le braccia, per far riprendere la circolazione. Prima dell'alba sentì un trambusto dietro di sé. Era una processione, che prese in consegna il carro, vi aggiogò due cavalli bianchi e lo portò lungo le strade fino a farlo uscire dalla città. Fuori le mura si era di nuovo adunata la folla, alla luce delle torce, ma questa volta vide che era un esercito. Una squadra di cavalieri raggiunse il carro, vi si dispose intorno, e quindi si spostò alla testa dell'esercito. L'armata iniziava a marciare, preceduta dallo strano carro in cui dondolava una donna bionda, legata nuda su di una croce.
Il sole si levava lentamente, colorando di insolita vivacità la pianura semidesertica. Dall'alto della croce vedeva il cielo incendiato di rosso, e non riusciva a capire se fosse realtà o allucinazione. La marcia era penosa per le sue membra. Aveva cominciato di nuovo a gemere, e a gridare e singhiozzare, ogni volta che uno strattone le tirava il corpo contro il legacci. Il galoppo dei cavalli e il clamore del ferro coprivano tutto. Quando di fronte a se vide una nuvole di povere l'esercito si fermò e dispose le sue ali: era il nemico.
L'armata riprese la marcia a velocità sostenuta, per dare alla cavalleria forza d'impatto. Gridava per il dolore, ma nessuno poteva sentirla. Due manipoli di cavalieri galopparono ai lati del carro, lo superarono e si gettarono incontro al nemico che ormai si era avvicinato. Vide ergersi tra la polvere dello schieramento opposto un altro carro con una croce simile alla sua. Una donna bruna, anch'essa bruna, anch'essa legata alla croce, la guardava con odio. Gridava anche lei, ma gridava la sua rabbia contro il nemico. Capì di essere la bandiera del suo esercito, l'emblema vivente, il simbolo della vittoria. Sentì di nuovo scorrere dentro di sé l'eccitazione e l'orgoglio, e si trovò a gridare anche lei di odio, verso un nemico che neppure conosceva.
La battaglia infuriava. Le frecce le fischiavano intorno. Di tanto in tanto un manipolo nemico cercava di superare il muro umano che la proteggeva, per lanciare un'ascia, un giavellotto. La polvere copriva tutto, i corpi degli uomini e dei cavalli si agitavano, e lei, legata nuda in alto sulla croce, fu presa da una furia cieca, e gridava, gridava.
Gridò fino a quando non sentì il silenzio intorno. La povere si abbassò poco a poco, e vide l'armata nemica farsi intorno a lei, lentamente, calpestando i corpi di soldati moribondi. Poi quello che sembrava essere il capo lanciò all'improvviso un grido di vittoria, e tutti i soldati risposero con ferocia. Salirono sul carro, tagliarono le corde coi coltelli, la afferrarono per i capelli e la portarono davanti al capo, in ginocchio, la testa nella polvere. Questi la tocco con espressione di schifo, le mise un piede sul collo, e pestando con forza iniziò a insultare lo stendardo dell'esercito sconfitto, nella sua lingua sconosciuta. Quindi diede dei brevi ordini secchi. Gli uomini l'afferrarono e la condussero agitandola per i capelli in una buca, la fecero inginocchiare e le legarono il collo ad una pietra, lasciandola con la guancia premuta nella terra, sul fondo della buca, dopo averle legato le mani dietro la schiena. Da sopra il ciglio del fosso la donna bruna la guardava con disprezzo. Avevano condotto il suo carro ai margini della buca; era ancora sulla croce, e doveva soffrire terribilmente, ma la sola cosa che trapelava da quel volto era il disprezzo, l'odio per il simbolo dell'esercito avversario.
Sull'altro lato iniziò a disporsi l'esercito. Ad un comando secco iniziarono ad urinare nella buca. Sentì il liquido caldo zampillarle sul ventre, sulla faccia, sui seni. Appena finiva uno si affacciava un altro. Sentiva la spumeggiante pozza di urina poco a poco salire, bagnarle la schiena, i fianchi, le orecchie. La sentiva salirle su tra le gambe, sulle guance. Arcuò il petto per dare modo alla bocca di salire, e sentì gli occhi affondare nel liquido scuro. La corda al collo le impediva si sollevarsi di più senza strangolarsi. L'unico modo per non affogare era bere quel misto di urina e fango, per non affogarvi. Vide che la donna aveva cominciato a ridere sguaiatamente, poi non capì più nulla. Beveva, doveva bere più velocemente dei soldati.
Si risvegliò che tossiva e vomitava. La spingevano e le picchiavano con la punta dei bastoni, per farla muovere. Un uomo tarchiato e sporco, l'unico che non si schifasse a toccarla, l'afferrò per i capelli e le legò una corda al collo. Quando l'esercito ripartì, era alla sua testa, spinta in avanti dalle acuminate punte dei bastoni. di nuovo per la sua strada. Il sole si era alzato, e iniziava a riscaldare l'aria. L'urina che la ricopriva interamente si era impastata alla polvere. In breve era letteralmente coperta da una nuvola di mosconi e tafani che le si infilavano dappertutto. Poi non sentì più nulla. Quello che accadde poi lo percepì come attraverso una allucinazione. Aveva le vertigini e la vista sfocata. Camminava barcollando e inciampando, rialzata ogni volta dall'infierire dei bastoni. Arrivò il resto dell'esercito, e si congiunse alla colonna, dopo essersi impadronito della città nemica ormai sguarnita. Una lunga fila di donne in catene correva dietro i cavalli dei soldati. Seguivano altri cavalli carichi di bottino. La prima fila levava sulla punta delle picche le teste dei più illustri tra i nemici uccisi. Con terrore credette di riconoscere quella del suo rapitore. Vide tutto nero e non sentì più nulla. Era svenuta e rimase a lungo insensibile alle bastonate. Quando riaprì gli occhi sentì un dolore tra le braccia. Le avevano passato due bastoni sotto le ascelle e la trascinavano avanti. Era di fronte alle mura di una città. Sugli spalti la popolazione esultava all'esercito vincitore. Poco fuori le mura vide una fila di lunghi pali aguzzi, cui pendevano resti di corpi umani seccati al sole. Capì perché non l'avevano lasciata affogare, e lo rimpianse. Lo stendardo nemico meritava una lunga agonia, e la folla esigeva un bello spettacolo: l'avrebbero impalata.
 

Sacrificio
 

Prima di entrare in città, la pulirono sommariamente con una secchiata d'acqua e la legarono di nuovo sulla croce del carro. Il corteo trionfale fece ingresso in città. La folla premeva sul cordone di soldati e cercava di raggiungere il carro nemico per farlo a pezzi. Dalle finestre della case le tiravano pietre e rifiuti. I soldati dovettero fare scudo per evitare che la folla la facesse a pezzi. Quando furono nella piazza centrale, issarono la croce sulla cima di un palazzo che dominava la città e la collina: doveva essere il tempio. Diedero fuoco, proprio sotto di lei, alle altre insegne dell'esercito sconfitto. Le fiamme le lambivano le gambe e il fumo la faceva tossire, e se il vento non avesse girato di tanto in tanto, l'avrebbe soffocata.
Sotto di lei soldati e folla si erano mischiati per festeggiare la vittoria. Fuochi, cibi e vino.
Dopo aver mangiato iniziarono dei giochi, poi rivolsero a lei la loro attenzione. Uomini ubriachi le tiravano ossi e resti del banchetto. Una brocca le si spaccò appena sopra la testa. Due torce la colpirono, lasciandola urlante mentre schizzi di catrame in fiamme le colavano sulle gambe. Poco prima dell'alba la festa scemò. Doveva essere di nuovo svenuta. Si svegliò che una mano le afferrava il ventre da dietro la croce, mentre un coltello le liberava le braccia. Le gambe già pendevano inerti. Le braccia la tirarono dietro e si sentì caricare sulle spalle. Non desiderava altro che tutto finisse il più rapidamente possibile. Svenì di nuovo.
La fecero riprendere con una secchiata d'acqua fredda. Era l'alba, e una nuova folla si era già radunata sotto la croce.
La condussero al fiume. Qui li aspettava una grossa zattera sormontata da quattro pali a ciascun angolo. I pali distavano tra loro circa due metri. La fecero coricare col ventre sulla zattera, poi quattro robuste mani le afferrarono le braccia e le gambe; la sollevarono e le legarono polsi e caviglie alla cima dei pali. Si trovava sospesa a un metro dal fondo di legno. Vedeva l'acqua che affiorava tra i tronchi. Intravedeva la folla lontana che si era radunata in silenzio. Non la dileggiavano più, ma ascoltavano, ripetendo a tratti, una lamentosa litania. Intuì in qual momento che non l'avrebbero impalata, ma consegnata al fiume in una sorta di scarificio umano alla divinità delle acque, che evidentemente era la protettrice della città. Ne fu certa quando, alla fine della cerimonia che le sembrò infinita, spinsero la zattera al largo, tra le ovazioni della folla.
La zattera iniziò a navigare seguendo la corrente, oscillando ogni volta due diversi flussi d'acqua si incontravano, girando su sé stessa sui mulinelli, senza mai affondare. Il suo stesso peso la tirava verso il basso, segandole i polsi e le caviglie legate alla rozza corda, non desiderava altro che tutto finisse. Per tutta la mattinata gruppi di persone seguirono la zattera, commentando. Il dolore ai polsi la faceva sussultare ad ogni oscillazione, poi, stordita dal sole e dalla sofferenza, svenne.
Navigò per tutta la giornata, perdendo conoscenza in continuazione, priva ormai della dimensione del tempo. Mentre il sole le bruciava la schiena, affiorò dal dolore la sete. Sempre più forte, pervasiva, accresciuta dal rumore dell'acqua tra le assi della zattera, a pochi centimetri dalla sua bocca. Le punte dei suoi capelli erano intrise di acqua, ma per quanto sollevasse la testa non riuscì a raggiungerne una sola goccia.
Il tramonto fu l'ora delle zanzare. Vennero fuori a decine di migliaia, attratte da quel corpo caldo di sole, esposto, disponibile. Le pungevano la schiena, il ventre, la faccia, le parti più intime. Tentò di agitarsi, anche se questo le feriva i polsi, ma non serviva a nulla. Ne era completamente ricoperta, avvolta da un manto formicolante di succhiatrici di sange. La tortura durò fino a quando fu notte, poi le zanzare si dileguarono, lasciandola gonfia, attraversata da ondate di brividi e di febbre. Il viaggio continuava nel buio.
Li vide muoversi sul fondo della zattera quando riprese coscienza. Pensò di avere le allucinazioni, poi si rese conto che era tutto vero. Erano dei mammiferi scuri, una via di mezzo tra piccoli castori e grossi topi. Nel buio non riusciva a distinguerli bene. Ma erano abili nuotatori. Convergevano a centinaia sulla zattera e vi montavano sopra, fino a quando non ne ebbero ricoperto il fondo. Si protendevano verso di lei squittendo orribilmente, ma non erano alti a abbastanza, cercavano di afferrarne i capelli, ma non riuscivano a tirarla giù. Quindi iniziarono ad arrampicarsi su per i pali. Le montarono sulle braccia e sulle gambe, fino alla schiena e alla testa. Colta dal panico, si agitò incurante delle ferite ai polsi e alle caviglie, ma fu peggio: quelli, sentendosi instabili, le conficcarono gli artigli nella carne. Si calmò e tentò di controllarsi.
Oramai le salivano sopra a decine. La odoravano, centimetro per centimetro, poi iniziarono a leccarle il sudore salato sulla pelle, il sangue delle ferte. Si spingevano sulla testa, calendole per i capelli, le leccavano la faccia, cercavano di infilarsi tra le gambe.
Quando sentì il primo morso capì in cosa consisteva il sacrificio, e rimpianse di non essere stata impalata. Dapprima la morsero piano, quasi per sondare il terreno, poi iniziarono ad affondare le piccole zanne nella carne. Urlava agitandosi tra le corde, senza capire più nulla. Tanto che non sentì nemmeno l'urto che fece sobbalzare la zattera. Qualcosa di grosso vi era saltato su facendola oscillare pericolosamente. Emetteva un orribile latrato. Gli animali scuri smisero di morderla e cercarono di fuggire saltando in acqua, ma quello ne afferrò due con gli artigli e uno con le zanne. Iniziò a divorarli con rabbia, facendo schizzare tutt'attorno pezzi di carne sanguinolenta. Intorno alla zattera e tra le assi l'acqua aveva cominciato a ribollire: migliaia di pesci carnivori, eccitati dal sangue, si contendevano i brandelli di carne caduti in acqua. Affamati, dovevano aver cominciato a mordere anche le corde intrise di sangue, perché con uno schianto, la zattera si spaccò, facendola cadere in acqua.
Il fresco dell'acqua sulla pelle rovente la riportò brutalmente alla lucidità. I pesci carnivori avevano iniziato ad avventarsi anche su di lei, ma si accorse che l'acqua le arrivava appena alle ginocchia. Concentrò tutte le sue forze e si alzò, trascinando faticosamente fino a riva i pezzi di zattera a cui era ancora legata. Si lasciò cadere sfatta sull'argina sabbioso.
Si svegliò diverse volte percorsa da brividi, per il freddo e per il gonfiore della pelle. Quando riuscì a riprendere il controllo su di sé, sciolse le corde che ancora la legavano ai pali, trascinò nel fiume i resti della zattera, e si allontanò dall'argine cercando un posto protetto. Il fiume attraversava una fitta foresta, e non le ci volle molto per trovare un riparo sotto una grossa foglia. Vi si accoccolò sopra un nido di humus caldo e si addormentò.
Rimase diversi giorni almeno accoccolata nel suo nido di humus, in un continuo dormiveglia, mentre la febbre sfogava. Mangiava solo dei frutti aciduli e succosi che cadevano da un albero nelle vicinanze. Al terzo giorno le formiche avevano scoperto e invaso il suo nido, e fu costretta a spostarsi. Ma oramai si era rimessa in forze, e le era venuta anche una certa fame. Il fiume era torbido e scorreva veloce. Ne dedusse che doveva essere un corso d'acqua instabile, soggetto a piene improvvise e a periodi di secca. Iniziò a perlustrare i bordi del fiume, fino a quando non trovò una pozza residua dell'ultima piena. Li, come sperava, ci trovò diversi pesci intrappolati in poca acqua, e li catturò con facilità divorandoli mentre ancora si dibattevano.
Quindi si costruì con delle foglie una sorta di gonna, e si mise in cammino. Non aveva un luogo in cui andare. Decise di seguire il corso del fiume verso valle, in direzione opposta alla città che l'aveva mandata a morire. E forse in direzione del mare.
Si era armata con un bastone acuminato e camminando cercava di cacciare qualcosa da mangiare. Ora che aveva ripreso le forze, si fidava poco a mangiare frutta e erbe sconosciute. Attraversando una radura vide sull'altro lato una specie di capretta ferma tra le radici di un grosso albero. Forse aveva uno zoccolo incastrato, perché tentava disperatamente di tirar via la zampa senza riuscirvi. Si avvicinò con cautela, ma non era necessario, perché l'animale non riusciva a muoversi. Quindi vi si gettò sopra conficcandole il bastone nel corpo. Sentì l'animale fremere sotto di sé e poi rimanere immobile, quindi affondo i denti nella pelliccia pelosa strappandone via brandelli, in cerca di carne. Era ancora buttata su quel corpo quando qualcosa le tirò indietro il piede. Il suolo le scorse sotto la faccia e improvvisamente di allontanò: era appesa ad un ramo per una corda che le tirava su il piede. Era caduta in una trappola. Sotto di lei comparve un uomo coperto di pelli. Le di fece incontro gridando con rabbia e indicando l'animale ucciso. Quindi le afferrò le manie e glie le legò e la tirò giù, picchiandola e gridando in una lingua sconosciuta.
Ora era lei a trovarsi legata tra le radici dell'albero. L'uomo coperto di pelli le si era buttato addosso e l'avieva presa con rabbia. Ogni volta che affondava in lei, le copriva il volto di pugni e sputi. Quindi si alzò lasciandola legata alle radici, e rimise in funzione la trappola.
Era ancora imbrattata del sangue dell'animale, che nel frattempo l'uomo stava scuoiando. Finita l'operazione l'uomo si allontanò. Rimase sola per ore. L'odore del sangue aveva attirato miriadi d'insetti, e in breve richiamò anche animali più grossi.
Venne la notte, e iniziò a sentire attorno a sé decine di rumori, passi, scricchiolii che le facevano paura.
Sentiva il ringhio venire dal buio, nel profondo della foresta. Non sapeva se era un leopardo, o una pantera o cos'altro. La stava studiando dal folto della foresta e si apprestava a balzarle addosso. Era lì a fare l'esca, proprio come il capretto che aveva ucciso. Ma la corda che aveva preso lei, avrebbe preso anche la fiera? E questa l'avrebbe uccisa prima di essere catturata, come lei aveva ucciso il capretto? Era sopraffatta dal panico. Cercava inutilmente di strappare le corde che la legavano stretta alle radici. Non sapeva se il cacciatore era nei pressi o se si era allontanato. Sentiva l'animale spostarsi ora da un lato, ora dall'altro. Neppure lo sentì quando alla fine spiccò il salto. Vide appena un'ombra scura sopra di lei e all'improvviso ritirarsi ruggendo orribilmente. Si ritrasse di scatto e fece appena in tempo ad evitare una zampata che le avrebbe strappato le viscere.
Si agitava tirata in alto dalla corda, a pochi passi da lei. Era caduta nella trappola. Non sapeva cosa fosse, era un enorme felino scuro.
Il cacciatore riapparve solo per finire l'animale. Ne prese la pelle e dei brandelli di carne, poi si allontanò di nuovo. Fece l'esca per due giorni interi. L'uomo non la sciolse mai dalle corde. Ogni tanto la prendeva, ma aveva smesso di picchiarla: era stato ricompensato della perdita del capretto.
Al terzo giorno la sciolse, la caricò di un fagotto fetido di carni e pelli, e la portò con sé tenendola per una corda che le aveva legato al collo. Le mani erano strette dietro alla schiena e tirate in su da una corda che le legava il collo.
A metà pomeriggio incontrarono una strada, e a notte fonda erano arrivati ai bastioni di una città. Il cacciatore la condusse fino ad un grande palazzo rotondo, come una sorta di fortezza, e bussò alla porta. Trattò a lungo con l'uomo che si era affacciato, indicando la sua preda con orgoglio. Mostrò anche delle pelli, ma l'uomo non sembrava interessato. A transazione avvenuta, l'uomo prese la corda al cacciatore e scomparve dietro la porta portando la ragazza con sé.
Non vedeva nulla. Dopo aver passato alcuni corridoi bui, entrarono in una grande sala. L'uomo le fece cenno di inginocchiarsi di fronte ad uno di essi. Sapeva cosa si aspettavano da lei. Obbedì, abbassando la testa e allargando le gambe mentre s'inginocchiava. L'uomo chiamò un collega, che iniziò ad osservare la nuova mercanzia: le girò intorno indicando e commentando ogni sua parte, poi le tastò con metodo i seni, il ventre e le natiche, poi le tirò indietro la testa per i capelli e le aprì la bocca stringendole la mascella con la mano, per osservare i denti. Pensò che l'avrebbero fatta lavorare, perchè si soffermavano sui muscoli, commentando con vivo interesse. Dopo una breve conversazione, l'uomo la fece alzare di nuovo tirandola per la corda e la portò via con sé per altri corridoi, per altre scale.
Giunti in cima all'ultima scala, attraverso una piccola porta, fu condotta ad una terrazza esposta al in cui sorgevano dei grandi camini. L'uomo la spinse contro uno di questi, le legò le braccia a degli anelli infissi nella parete e si allontanò.
Era sola, adesso. Il vento fresco dell'aurora le faceva rabbrividire la pelle piagata. Si accorse di essere sull'orlo di un cornicione, e si mise paura, spingendosi con tutta la forza che le restava contro la parete ruvida. Dietro di sé scorgeva a malapena le poche luci della città nel sonno.
Con l'alba la città iniziò ad animarsi. La gente scendeva per le strade dirigendosi alle proprie occupazioni. Inutile dire che tutti gli sguardi erano rivolti a lei, completamente nuda, legata alla cima del palazzo.
Il peggio venne nella tarda mattinata, quando il sole, ormai alto, iniziò a bruciarle senza pietà sulle natiche ferite, mentre sotto di lei si era riunita una folla di sfaccendatati, che guardavano con insistenza, indicavano, commentavano, e le gridavano parole incomprensibili, ridendo grossolanamente.
Rimase fino a sera, ferita dal sole e dagli sguardi di un'intera città. All'imbrunire l'uomo tornò, la sciole, le fece scendere le scale, e trascinandola per tortuosi corridoi sutterranei, la condusse fino a un cortile chiuso. I lati del cortile erano circondati da una fila di piccoli canili, dai quali sporgevano corpi di donne, tutte legate alla catena.
Fu spinta dentro un canile vuoto, dove la rimase a singhiozzare, fino a quando il sonno non ebbe il sopravvento.
 

Combattimento
 

Il giono dopo fu lasciata in pace. Dal suo canile ebbe tempo di osservare le sue vicine, le ragazze che occupavano i canili ai suoi lati. Alla sinistra stava inginocchiata una ragazza mora e dalla pelle olivastra. Non era alta di statura, ma i muscoli erano ben sviluppati. Le fece un cenno di saluto, ma quella per tutta risposta si voltò dall'altra parte. Alla sua destra dormiva un'altra ragazza bruna, più magra e slanciata, dallo sguardo dolce.
Passò quasi tutta la gionata nel dormiveglia, per riprendersi. Si svegliò solo quando a mezzogiorno, insieme alle altre, fu portata al guinzaglio fino alla mangiatoia che si trovava al centro del cortile.
La mattina dopo si svegliò con il collo strattonato: da fuori il canile le tiravano la catena facendole cenno di uscire. La portarono di fronte a una specie di commissione, che iniziò ad analizzarla una seconda volta pezzo per pezzo: le braccia, le gambe, i denti, le parti intime. Quindi la portarono al di sotto di un grosso palco, nel mezzo del cortile. Le legarono delle corde alle braccia e le caviglie, le misero un bastone in mano, e iniziarono a muoverla. Le corde erano tenute dall'altro, da qualcuno in un palco che non poteva vedere. Le muovevano il braccio avanti, poi indietro, poi la gamba, come una marionetta, fino a quando non ebbe imparato come doveva muoversi. Quindi un'altra donna apparve di fronte a lei, legata allo stesso modo. La riconobbe: era la ragazza slanciata. Era legata allo stesso modo e aveva anche lei aveva un bastono in mano. Le corde iniziarono a muoverla verso la nuova venuta e a brandire il bastone verso l'alto. Muovevano la marionetta a giocare alla guerra. Il bastone cominciò a cadere sulle sue spalle, mentre il suo cadeva sulle spalle dell'avversaria. Quando si lo vide arrivare dritta in faccia una bastonata, ebbe una reazione istintiva, e parò il colpo col proprio bastone. Nello stesso momento un grido selvaggio la colse alle spalle. E poi una frustata, poi un'altra. Non capiva le parole, ma intuiva che muoversi di propria iniziativa era stato un crimine.
La portarono via, in un sottosuolo buio e la legarono ad una specie di tavola dove la lasciarono. Dopo diverse ore la bendarono e iniziarono a palparle i seni e a strizzarle i capezzoli. All'improvviso sentì un dolore fortissimo a un capezzolo e subito dopo lo stesso dolore all'altro. Quando le tolsero la benda vide che le avevano messo un anello a entrambi i seni. Un uomo si avvicinò con un due pendagli di ferro circondati di lunghe spine acuminate, e li fissò a ciascuno degli anelli. Quindi la portarono lungo altri corridoi bui. Camminare era dolorosissimo, coi pendagli che le pesavano sul capezzolo, e con le spine che pungevano i seni ad ogni passo. Improvvisamente una porta si aprì di fronte a lei, lasciandola abbagliata. La corda al collo però la tirava strattonando con impazienza.
Sotto i piedi sentiva la sabbia, e solo col tempo gli occhi si riabituarono alla luce e fu in grado di vedere di nuovo. Si trovava nel mezzo di un'arena. Gli spalti erano stipati di pubblico vociante. Nell'arena vide che all'altra ragazza avevano riservato lo stesso trattamento. Le misero una di fronte all'altra e legarono i polsi di entrambe alle estremità di un bastone, la sinistra dell'una alla destra dell'altra. Entrambe le ragazze cercavano di tenersi distanziate per non spingersi reciprocamente le spine contro i seni, ma fu molto più difficile quando il bastone fu tirato in alto da una corda. Si trovarono improvvisamente con i seni premuti l'una contro l'altra, e le spine dei pendagli che si conficcavano nella carne. In quel preciso istante udirono un sibilo, e poi un dolore improvviso ad un fianco. Era un colpo di frusta, una lunga frusta di cuoio intrecciato, i cui feroci compi potevano uccidere una persona in poco tempo. Immediatamente scattarono entrambe, e le spine dei pendagli le affondarono nei seni. Quando erano riuscite a separarsi di nuovo, un altro colpo di frusta le investì lacerandole i fianchi. Fu al quarto colpo che capirono entrambe la dinamica dell'incontro: per evitare le frusta dovevano spostarsi sul lato opposto. Chi vi riusciva vi esponeva la compagna ai colpi ma li risparmiava a sé stessa. Iniziò così un duro match di lotta. Ognuna cercava di sottrarsi ai colpi girando il bastone che le legava, in una sorta di balletto governato con sapienza dall'uomo con la frusta. La donna colpita si schiacciava automaticamente verso l'altra, colpendo entrambe con i pendagli acuminati.
Combatterono strenuamente, l'una contro l'altra. Quando una sveniva, una secchiata d'acqua salata la faceva riavere, bruciando sulle ferite sui colpi della frusta. Dopo un tempo interminabile la sua compagna-avversaria smise di combattere. L'uomo con la frusta le assegnò altri dieci colpi rituali, scanditi con entusiasmo dal pubblico, e dichiarò concluso l'incontro.
La slegarono e la riportarono al suo canile, dove la lasciarono in pace. Si era qualificata per gli incontri successivi. La ragazza slanciata era stata sostituita da un'altra piccolina e magra.
Dopo qualche giorno la riportarono nell'arena. La fecero inginocchiare sulla sabbia e la legarono davanti a un basso carro. Aveva le mani legate dietro la schiena, e alla vita le avevano messo una cintura di cuoio dotata di ferri ricurvi e acuminati che si protendevano verso i glutei. Non la ferivano, ma le impedivano di sedersi, o anche solo di appoggiarsi sul fianco. Il giogo del carro le stringeva il collo e le spalle, ed era troppo corto per consentirle di alzarsi. Un uomo armato di frusta salì sul carro e iniziò a incitarla. Il carro faticava ad avanzare, affondando nella sabbia dell'arena. Doveva protendersi in avanti, piantando le ginocchia ben divaricate nella sabbia e facendo attenzione a non far oscillare troppo i pendagli con le spine che ancora portava ai seni.
Quando raggiunse il centro dell'arena, vide che c'era un altro carro simile al suo che veniva dalla parte opposta, avanzando dritto verso di lei. Lo tirava la ragazza muscolosa dalla pelle olivastra. Verso quel carro la spingeva il suo auriga. Appena la raggiunse, l'altra ragazza si protese verso di lei e tentò di morderla, latrando con ferocia come un cane impazzito. Con uno scatto tentò di indietreggiare, ma l'auriga iniziò a colpirla violentemente con la frusta e a incitarla ad avanzare. Capì che doveva combattere. Senza mani, e senza poter usare le gambe, perché i ferri che portava alla vita le impedivano di appoggiarsi sul fianco o di sedersi. Le rimaneva solo la bocca. Tentò di mordere al volto la sua avversaria, ma quella scattò di lato, riuscendo ad afferrarle una ciocca di capelli. Quindi la strattonò bruscamente facendole perdere l'equilibrio. Appena cadde sentì le spine dei pendagli penetrare nella soffice carne dei seni. Si rialzò di scatto, coi pesi ancora conficcati, ma più libera nei movimenti. Prima che potesse riprendersi del tutto, sentì un bruciore alla spalla. La ragazza dell'altro carro vi aveva conficcato i denti e la teneva con fermezza. Oramai non poteva muoversi, e sentiva la morsa stringere sempre di più. Le frustate che cadevano sulla sua schiena non sortivano più alcun effetto. Si dibatté inutilmente, fino a quando non la vide ritrarsi di scatto: si era esposta troppo alla frusta del suo auriga, che ne aveva approfittato per colpirla in pieno volto.
Appena vide l'avversaria in difficoltà, ne approfittò per colpirle il naso con la testa. Quindi la colpì ancora sul naso con ancor più violenza, più e più volte. Doveva averle rotto il setto nasale, perché il sangue cominciò a scorrere sul viso della ragazza, che sembrava stordita.
La vista del sangue si mescolò alla frusta che la colpiva alle spalle in un unico istinto feroce. Si avventò sull'avversaria stringendole i denti sul collo e tirandola giù, costringendola a mordere la sabbia. Questa volta fu la frusta dell'auriga avversario a scagliarsi su di lei con violenza, ma era di spalle e, accecata dalla ferocia, poteva resistere. Anzi, i colpi la facevano stringere con forza maggiore. Il pubblico gridava entusiasta. Erano i dieci colpi rituali che scandivano la fine del match. Finiti i colpi, cessarono le frustate. L'auriga scese dal carro, sganciò il giogo del carro avversario, e prese la donna da dietro.
Lei la sentiva sussultare sotto di sé, mentre accecata dalla furia, ancora le stringeva i denti nel collo. L'altro auriga non intervenne.
Quando ebbe finito con la ragazza, l'auriga tornò da lei e a colpi di frusta la staccò dall'avversaria. Quindi la sganciò dal carro, la afferrò per i capelli e la condusse fin sotto l'auriga sconfitto, offrendogliela come segno di spirito sportivo e cavalleresco. Questi le strappò via la cintura e la prese davanti a tutti, tra le grida estasiate del pubblico. Non fu troppo sportivo, e fece pagare a lei la sua sconfitta. Mentre la prendeva, le mani le strizzavano seni e le torcevano i capezzoli, facendovi penetrare a fondo le spine dei pendagli.
Mentre la portavano via sentì il pubblico gridare con eccitazione. La ragazza che aveva appena battuto veniva trascinata verso un alto palo acuminato che si ergeva al centro dell'arena. Ebbe un brivido: intuì che non l'avrebbe più rivista.
Quando la incatenarono nuovamente al suo canile, vide la ragazza di statura minuta che la guardava interrogativa. Distolse lo sguardo e si voltò bruscamente dall'altra parte. Proprio come aveva fatto con lei la ragazza che ora stava esalando gli ultimi respiri di fronte ad un pubblico avido di agonia. Quanto sarebbe durata, prima che toccasse a lei? Non valeva la pena di affrontare sconfitta e la tortura finale, invece che procrastinarla, e nel frattempo decidere la condanna tutte le sue compagne di sventura?
 

Torre
 

Non le lasciarono molto tempo per riflettere. Erano venuti a riprenderla. Con durezza meccanica. L'afferrarono per il collare, le tolsero i pendagli dai seni e la riportarono all'arena. Sul lato opposto la struttura si faceva sempre più alta e scoscesa. Invece di declinare a scalinate verso il campo di sabbia, si allungava in verticale, come una sorta di immenso sperone, lievemente ricurvo verso il cuore dell'arena. La condussero di nuovo verso una fessura scura. Poi, spingendola su a bastonate, la fecero salire per una ripida scala a chiocciola che non finiva mai. Era sfinita, inciampò diverse volte. La fecero rialzare colpendola con la punta del bastone. Si rialzava puntando il viso sul bordo aguzzo dei gradini, mentre il bastone la colpiva spietatamente. Quanto fu in cima e la scala buia terminò, il cielo le esplose improvvisamente intorno. Era abbagliata dalla luce improvvisa e stremata. Sentì che lavoravano intorno a lei, le scioglievano i polsi da dietro la schiena e li incatenavano nuovamente davanti, le legavano qualcosa alla caviglia. Cosa lo capì prima ancora di riacquistare la vista: campanelli. Aveva campanelli ai polsi, alle caviglie e al collare. Due, quattro, sei mani la tastavano su tutte le parti del corpo. Le spargevano qualcosa, forse olio.
Quando riuscì a distinguere quel che aveva attorno, si buttò a terra terrorizzata: era nella stretta cima della torre a forma di artiglio. Sotto di lei le gradinate dello stadio si aprivano stracolme di pubblico. Al centro, proprio sotto di lei, alcuni uomini stavano ultimando la collocazione di una foresta di pali aguzzi rivolti verso l'alto.
La fecero rialzare a colpi di bastone, e la spinsero verso l'orlo. Appena si porse, un corno richiamò l'attenzione del pubblico, che si volse verso di lei con una acclamazione sordamente sinistra. I bastoni la spingevano sempre pù verso l'orlo. Cercava di fare resistenza, le punte dei bastono penetravano nelle spalle, nelle spalle, nei glutei. E spingevano con sempre più forza. Tentò di rivoltarsi per afferrare quei bastoni, ma la compirono con forza sulle mani protese, sul ventre, sui seni. Scivolò e perse l'equilibrio e cadde oltre il bordo. Tentò di afferrarsi al bordo, ma l'olio in cui era impregnata le impedì di tenere la presa, e precipitò nel vuoto.
Cadeva a picco. Cercava di afferrare i bordi della torre, ma si facevano sempre più lontani. Era lanciata a velocità sempre maggiore verso le punte dei pali conficcati sul fondo dell'arena. Non poteva sentire che il pubblico si era fatto silenzioso, non sentiva né capiva nulla, nemmeno che stava urlando, nemmeno che il cuore le stava esplodendo. Poi il dolore si spostò sulla gamba. Come un colpo improvviso. Un dolore che le fece perdere conoscenza, mentre rimbalzava come un corpo morto appesa alla corda che le legava la caviglia. Il pubblico gridava di gioia e ammirazione.
Si risvegliò a fatica. Era appesa a testa in giù nel vuoto. Il sangue le pulsava nella testa. La gamba si doleva terribilmente alle giunture. I muscoli erano come attraversati da migliaia di spilli. Oscillava nel vuoto. Sentiva la corda vibrare e le sembrava che dovesse spezzarsi. L'altra gamba, non tenuta dalla corda, le ricadeva verso il basso. Attorno a lei solo il vuoto, e l'immensa arena che l'osservata. Non si era mai sentita così esposta.
Improvvisamente udì un grido sopra di sé. Riuscì a guardare verso l'alto e vide un'ombra gettarsi su di lei. Vinse il terrore e cercò di oscillare per spostarsi. L'ombra precipitò fermandosi proprio alla sua altezza e agitandosi come una marionetta impazzita. Quindi rimase a oscillare davanti a lei come un corpo senza vita. Era la ragazza piccola di statura, la sua vicina del canile. Mentre la ragazza si riprendeva sentì qualcosa fischiare dietro le spalle. Da sotto una squadra di arceri aveva iniziato una gara di tiro a segno. Il bersaglio era costituito da due donne appese a una fune, dalla cima di una torre.
Le due donne tentarono prima di abbracciarsi l'una all'altra. Le venne in mente che poteva usare le mani. Pensò che avrebbe potuto arrampicarsi per la corda dell'altra ragazza. Sentiva il corpo di lei che le si stringeva addosso, e pensò di farla finita. Farla finita con quegli uomini che la usavano, che la mettevano contro le altre donne, e che avrebbero distrutte tutte comunque. Mentre si stringeva alla ragazza, sentì che questa le stringeva la gamba e stava cercando di arrampicarsi sul suo ventre. Con uno scatto improvviso le aveva piantato un ginocchio in mezzo alle gambe e aveva afferrato la corda al di sopra la sua caviglia. La usava per arrampicarsi. La furia bruciò improvvisa dentro di lei. D'istinto si tirò sul torace, le afferrò i capelli e iniziò a tirare verso il basso agitandoli a destra e sinistra.
I campanelli suonavano, mentre le due ragazze lottavano fra loro cercando di arrampicarsi sulla corda. I due corpi scivolavano e sgusciavano via, ricadendo in basso. Il pubblico rideva con gusto sempre maggiore.
Quando le due ragazze sembrarono stanche, iniziarono a lanciare su di loro una gran quantità di acqua gelata. Colpite dall'acqua, le due donne smettevano di lottare e ricadevano giù gridando, fra le risate del pubblico. Poi, colte dal terrore, ripresero la lotta con furia cieca. La seconda volta l'acqua era bollente. La terza volta gettarono una palata di brace, poi di nuovo acqua gelida.
Mentre stavano lottando, una strana vibrazione le raggelò: sentirono le corde che poco a poco si sfilacciavano e si spezzavano. Si abbracciarono tremanti, restando immobili. La corda dell'altra ragazza si ruppe, e quella le si strinse ancora più forte. Sentiva che il peso raddoppiato sfibrava sempre più la corda, pensò ai pali aguzzi sul fondo, presa da un'incredibile paura cercò di liberarsi dell'intrusa, aiutata dalla viscosità dell'olio, che rendeva difficile la presa. Ma anche la sua corda si spezzò, e precipitarono entrambe verso i pali aguzzi.
Il dolore era quello di una frustata improvvisa, non di un palo che ti attraversa il corpo. Una frustata violenta su tutte le parti del corpo. Era legata strettamente, contorta, strizzata, vicino a lei l'altra ragazza. I pali erano ancora sotto di loro, vicinissimi. Le punte quasi le toccavano. Erano strette in una rete, che dondolava lentamente sull'arena. Il pubblico applaudì a lungo ridendo.
Poi rivolse la propria attenzione all'altro lato dell'arena, dove due ragazze nude e dalle mani legate dietro la schiena erano state fatte entrare, e si apprestavano ad affrontarsi. Avevano fissate alle spalle sue fasce di cuoio coperte di lame e lunghe punte, con le quali dovevano colpirsi a vicenda, piegandosi in avanti come due tori. I piedi, legati da corte catene, impedivano alle due donne rapidi movimenti. Tentarono di non combattere. I due uomini che le guidavano con la frusta, le portarono alla base di un alto palo aguzzo eretto al centro dell'arena, indicandone la cima. Fu sufficiente: la prima scattò avventandosi sull'altra, che reagì con determinazione. Il pubblico le incitava sostenendo ora l'una, ora l'altra.
Dalla rete non riusciva a muovere la testa per vedere cosa accadeva. Riusciva appena a seguirlo con la coda dell'occhio. Vide le due donne gettarsi l'una contro l'altra, colpendosi reciprocamente nel ventre. La battaglia era concepita per non avere un vincitore. Caddero entrambe sulla sabbia, rotolando e colpendosi ancora, benché ormai prive di forze, mentre il pubblico, soddisfatto, iniziava ad abbandonare l'arena.
Le due donne strette nella rete rimasero appese nel vuoto tutta la notte, strette una contro l'altra, dondolando sopra l'arena deserta, sopra i minacciosi pali appuntiti. Nude, strette tra le sottili fibre della rete, e sferzate dal vento freddo non poterono dormire. Al mattino alcuni uomini si ripresentarono nell'arena e iniziarono a lavorare sulle corde. Le tirarono giù evitando i pali, e ancora ben annodate nella rete, le gettarono su di un carro trainato da buoi. Qui si poterono finalmente addormentare, e fu un sonno pesante, privo di sogni.
 

Giochi d’acqua
 

Non poterono dire quanto dormirono. Furono svegliate di soprassalto da un nuovo terrore di caduta. Il carro era stato inclinato sull'orlo di un alto burrone, e stavano rotolando nel vuoto, sempre avvolte nella rete. Non fecero in tempo ad accorgersi che sotto di loro c'era il mare, che ne attraversarono la superficie, dura come roccia, per ritrovarsi di nuovo in stato di semi incoscienza, avvolte dalla fredda oscurità dell'acqua. Iniziarono a risalire lentamente, mentre i loro corpi superavano lo choc dell'impatto per affrontare la mancanza di ossigeno. Iniziarono ad agitarsi scompostamente,sempre strette nella rete, picchiando l'una sull'altra, e bevendo acqua salata, fino a quando non videro il chiarore del cielo farsi strada attraverso l'incubo sen'aria. Ma quando raggiunsero la superficie, la tortura si fece più terribile: la rete le impediva di tirare fuori la testa e respirare. Strette tra le maglie non potevano nuotare. Ci volle un immenso sforzo di volontà per imporle di rimanere immobili. Solo così potevano far affiorare la testa quel tanto che bastava per poter respirare. Ma dovevano soffocare con forza la tosse e le contrazioni che scuotevano i loro corpi.
Respirare, non respirare. Stava imparando a seguire il ritmo delle onde per poter sopravvivere. Il sale le bruciava nel naso e in gola, e schizzi di acqua salata ancora le forzavano la trachea, facendole sentire di soffocare nuovamente, chiedendo al suo corpo di agitarsi. Sentiva accanto a sé, la sua compagna, contenere rigida gli stessi impulsi. Doveva riuscire ad aprire quella maledetta rete, o sarebbero affogate entrambe. D'improvviso sentì delle voci gridare intorno a lei: si stava avvicinando una barca. Con un colpo secco, la rete le si strinse di nuovo attorno trascinandola a fondo. Mentre si agitava terrorizzata, sentì un morso al braccio. Qualcosa l'aveva ferita e tirava, tirava. Con un colpo di reni all'indietro riuscì a svincolarsi, anche se a costo di un dolore ancor più intenso. Ma si accorse pure di avere il braccio libero. Chi l'aveva ferita aveva anche tagliato la rete. Con la forza della disperazione, lavorò freneticamente attorno a quel foro, fino a che non riuscì a farci passare la testa. Divincolandosi come un'anguilla riuscì a liberarsi dal morso della rete, e a conquistarsi la strada verso l'aria, nuotando a piene mani. Appena mise la testa fuor d'acqua, sentì un sibilo sopra di sé, e riuscì a vedere cosa stava succedendo. Era una battuta di pesca: stavano cercando di arpionarle.
Gli uomini gridavano eccitati. Indossavano strani costumi ricoperti di scaglie argentee, e lanciavano i loro arpioni verso tutto ciò che in acqua si muoveva. Alcuni di loro si tuffarono in acqua per andare a stanare le loro prede. Erano intorno a lei, e anche sott'acqua oramai riuscivano ad individuarla. La forza della disperazione le suggerì un ultimo tentativo. Riemerse per un solo istante, quanto bastava a riempirsi i polmoni di aria e a prendere le misure della barca dei suoi cacciatori, quindi utilizzò tutto lo slancio della salita per rigettarsi più in fondo possibile. Nuotava con forza verso il basso, verso le acque più buie, dove gli inseguitori, impacciati dai pesanti costumi e dall'arpione, non riuscivano a seguirla, né ad individuarla. Quindi, quando intuì che si trovava nel punto giusto, si lasciò risalire in verticale, lentamente. Quando sulla testa sentì la superficie dura e ruvida, incrostata di denti di cane, capì che aveva calcolato giusto: era esattamente sotto alla barca. Si portò un po' a destra, poi un po' a sinistra, guidandosi con le mani, sempre trattenendo il respiro. Quando capì come era orizzontata la barca, si spostò sotto la poppa, e riemerse a respirare in un angolo buio. Attorno al timone vi era un piccolo angolo che sebbene si trovasse sotto la chiglia, era però sopra il livello dell'acqua. Lì non la vedeva nessuno. Felice di poter respirare, rimase immobile, sperando che nessuno si accorgesse di lei.
Non riuscì a capire come fosse andata la battuta, capì solo che era interminabile. Rimasero a lungo a girare intorno, scendendo e risalendo dalla barca, ma non sapeva se cercassero solo lei o anche la sua compagna. Non lo seppe mai. Capì che stavano per andare via quando il peso sulla barca aumentò, schiacciandole le testa verso il pelo dell'acqua. Riuscì a resistere ancora un tempo interminabile, respirando solo quando le onde rifluivano. Poi, appena si fece scuro, protetta dal mare che si era fatto ondoso e livido, scivolò via dal suo posto, allontanandosi dalla nave.
Il braccio ferito le doleva e le impediva di nuotare. Aveva una sete tremenda, e si sentiva debole. Realizzò che erano due giorni che non mangiava e non beveva. Non sapeva dov'era la terra, né dove andare. Nuotava e basta, lottando contro il dolore della ferita, contro le onde che si erano fatte più alte, che la gettavano a destra e a sinistra, spruzzandole acqua salata in bocca ogni qualvolta prendeva una boccata d'aria. Gli stati di coscienza e di incoscienza si alternavano con la stessa frequenza delle onde. Nuotava ciecamente, come un animale che lotta per sopravvivere. Non vide la terraferma aprirsi intono a lei, semplicemente vi strisciò sopra, buttandosi priva di forze sulla battigia.
 

Donna misteriosa
 

La trovò buttata sui ciottoli in riva al mare. Una donna bellissima, bionda, slanciata. Il mare era troppo agitato, quella sera, per uscire a pescare. Stava tornando verso casa, di pessimo umore, quando vide qual corpo chiaro nel nero della notte. Era priva di sensi, e se la caricò fino a casa. Qui la mise in un giaciglio pulito e le curò la ferita al braccio. Vide che aveva molte altre ferite minori sparse un po' dovunque, e anche su quelle sparse dell'unguento. E aveva decine e decine di cicatrici. Eppure la pelle, una volta lavata dal sale, era soffice e fresca.
Con la mano tremante sfiorò quella che gli sembrava una dea caduta dal cielo. Il corpo muscoloso, i seni sodi e protesi. Non riuscì a smettere di carezzare quella donna così bella, da superare tutti i suoi sogni. Solo dopo molto tempo si accorse che si era svegliata, e ritirò la mano imbarazzato. Ma lei non reagì, se non con l'abbozzo di un sorriso. Le offrì dell'acqua e del cibo, ma era troppo debole, e dovette metterle tra le labbra ogni boccone, affinché lo ingoiasse. Decise di lasciarla dormire da sola, ma appena si allontanò, lei iniziò a gemere. Le si fece vicino, l'abbracciò, e dormirono l'uno accanto all'altra.
Il giorno successivo si ripeté uguale, ma la donna era un po' più in forze. Cercò di metterle un vestito, ma lei si strappava tutto di dosso appena lui si voltava. Quando a sera le si stese vicino per dormire, fu lei ad abbracciarlo. Le baciò le labbra e la guardò protendesi. la guardò e ripensò alle cicatrici.
"Devi aver sofferto molto, piccola mia". Lei lo guardò interrogativa, come se non capisse, poi gli prese la mano e se la portò sul seno. Poggiò la testa sulla sua spalla e si accoccolò al suo fianco.
Il mattino dopo si svegliò con una mano che lo carezzava. Lei si era alzata in ginocchio, e sfiorava il petto con le dita. Quindi scese verso il basso, abbassò la testa verso il ventre, e iniziò a baciarlo con delicatezza. Era inginocchiata con devozione. Sfiorò il suo fallo con le labbra, dapprima timidamente, poi con passione sempre più ardente, finché non l'ebbe tutto in bocca.
Rimase con lui, ma era una strana presenza. Anche quando fu guarita, non volle mai vestirsi, e non parlò mai. Eppure voce ne aveva: gemeva per chiedere le sue carezze, e gemeva di godimento quando le riceveva, ma non pronunciò mai una sola parola. Quando lui le parlava, lo guardava quasi con venerazione, con un'espressione al tempo stesso attenta e persa nel vuoto, come un cane che cerca di cogliere l'espressione, il tono delle parole, senza afferrarne il significato.
E, altra cosa strana, mangiava solo dalle sue mani. Aveva cercato inutilmente di farla mangiare a tavola al suo fianco, ma lei si portava l'acqua in un angolo e la rovesciava in una vecchia ciotola che aveva trovato nel cortile. Beveva dalla ciotola, senza usare le mani, quindi si andava ad inginocchiare sotto la sua sedia, aspettando che lui le desse dei bocconi di cibo.
La sua casa era isolata, e nessuno seppe della strana specie di moglie che teneva con sé. Visse così con quella donna svestita e felice, bella come un sogno, amazzone dalle misteriose cicatrici, che lo venerava, e lo amava come la più tenera delle amanti.
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