LE RAGIONI DI UNA SCELTA



Lo sfruttamento fiscale

Perchè, dunque, vogliamo fare la secessione dallo Stato italiano?
Perchè l'Italia è una repubblica fondata sulle tasse dei cittadini lombardi. E ci siamo stancati.
Il livello dello sfruttamento fiscale operato dai governi italiani ai danni della Regione Lombardia è arrivato ad un punto tale da risultare persino imbarazzante. Nel senso che noi stessi proviamo un profondo imbarazzo domandandoci come sia stato possibile che i cittadini lombardi abbiano tollerato tutto ciò per così tanto tempo. E che continuino ancora adesso a tollerarlo!

Dall'ormai lontano '92 vengono periodicamente elaborate analisi economiche, su base regionale, per calcolare la differenza fra il prelievo fiscale, operato dallo Stato centrale nelle varie Regioni, e la spesa pubblica che lo Stato stesso effettua nelle medesime Regioni. In altre parole, questa differenza, che tecnicamente viene chiamata "residuo fiscale", serve per capire quanti soldi ogni cittadino lombardo versa in media all'anno all'Italia e quanti ne tornano indietro sotto forma di spesa pubblica nel territorio della Regione. Ebbene, la Lombardia registra complessivamente un residuo fiscale negativo di circa 30 miliardi di Euro annui, ovvero vede ritornare dall'Italia 30 miliardi di Euro in meno rispetto a quelli versati dai suoi cittadini. Siamo la prima regione in assoluto in questa speciale classifica, seguiti dal Veneto con 11 miliardi e dall'Emilia-Romagna con 10. Si può affermare, dunque, che queste tre Regioni mantengono letteralmente in piedi lo Stato italiano, con le sue spese folli e i suoi sprechi clientelari. Alcune altre Regioni del Centro-Nord hanno una situazione di sostanziale equilibrio; le Regioni del Sud sono invece pesantemente in debito verso lo Stato, in quanto ricevono molto più denaro di quanto ne versino i loro cittadini.

Allo scopo di chiarire meglio la pazzesca entità del residuo fiscale lombardo, sottolineiamo che 30 miliardi di Euro corrispondono a circa 3.000 Euro annui a testa. In parole povere -si fa per dire- ogni cittadino lombardo ("terrone" o "polentone", bianco giallo o nero, vecchio o neonato che sia) versa allo Stato italiano, in media e ogni anno, circa 6 milioni di vecchie lire che non tornano più.
Questo dato, da solo, basterebbe a chiarire il concetto di sfruttamento fiscale italiano ai danni della nostra Regione. Uno sfruttamento che è tanto più odioso in quanto non viene utilizzato per creare vero sviluppo nelle Regioni che se ne avvalgono, bensì serve per mantenere un sistema economico parassitario, dedito agli sprechi e alle clientele, e peraltro pesantemente controllato dalle organizzazioni criminali mafiose. Su questo specifico aspetto torneremo però più avanti.

Va qui rimarcato un fatto: l'enorme flusso di denaro, che dalle tasche dei cittadini lombardi parte per Roma e per il Sud, non ha eguali nel resto d'Europa. Nemmeno gli ingentissimi aiuti versati dalla Germania Ovest a quella dell'Est, dopo la riunificazione seguita alla fine del comunismo sovietico, possono esservi paragonati.
Le dimensioni del prelievo fiscale in Lombardia e del successivo misero ritorno in termini di servizi pubblici hanno le caratteristiche di un sistema di stampo coloniale.
Nonostante, però, l'enormità di tale trasferimento di risorse a favore del Sud, mezzo secolo di intervento straordinario per il Mezzogiorno non è riuscito a generare il benché minimo autentico progresso socio-economico di quelle Regioni; anzi, oggi più di ieri, esse appaiono economicamente rattrappite su se stesse, drogate da questo continuo flusso di denaro pubblico, che ha assuefatto gli enti locali meridionali (e certamente anche una gran parte dei loro cittadini) al vizio del parassitismo. Sia chiaro che questo discorso riguarda i cittadini delle Regioni del Mezzogiorno, non i lombardi di origine o provenienza meridionale. Questi ultimi, infatti, ai fini del nostro manifesto secessionista sono cittadini lombardi a tutti gli effetti. Come tali, essi concorrono alla produzione e alla vita della nostra Regione, subendo in ugual misura il peso dello Stato italiano e dello sfruttamento fiscale da esso perpetrato.

Ma andiamo avanti con qualche cifra a supporto delle ragioni della secessione.
La Lombardia versa il 57% del fondo nazionale di perequazione per la sanità (si tratta di un fondo di solidarietà fra le Regioni, che serve per trasferire soldi dalle più ricche a quelle considerate più povere -ma che, in effetti, sono semplicemente le più improduttive e inefficienti). Ciò significa che la nostra Regione paga per mantenere gli sprechi che caratterizzano la gestione della sanità nelle Regioni del centro-sud. Citiamo l'esempio più eclatante in merito: la Regione Lazio -sì, proprio quella della Capitale Roma- ha recentemente dovuto ammettere nel 2007 di aver accumulato, nel corso degli anni precedenti, un debito sanitario di oltre 9 miliardi di Euro (che peraltro verranno ripianati in buona parte con soldi statali, cioè per lo più lombardi). Il Lazio, si badi bene, non è certo la sola Regione ad aver accumulato un altissimo debito sanitario; gli hanno fatto compagnia negli anni anche le altre Regioni meridionali. Si pensi che tre Regioni del Centro-Sud, da sole, e cioè il citato Lazio, la Sicilia e la Campania, detengono l’86% dell’intero deficit sanitario italiano!
La morale, dunque, è semplice: la Lombardia è una Regione virtuosa che ha debiti sanitari fisiologici e che contribuisce per la gran parte al fondo perequativo nazionale; le Regioni del centro-sud, invece, sperperano enormi quantità di denaro e, per giunta, una volta dichiarati i propri debiti stratosferici, se li vedono ripianare in buona parte dall'intervento statale (cioè da altri soldi prelevati essenzialmente in Lombardia).

Dal capitolo sanità passiamo al capitolo pensioni. Le elaborazioni rese note nel 2007-2008 hanno confermato l'assenza di qualsiasi forma di debito pensionistico da parte della Lombardia. La nostra Regione è infatti l'unica, in Italia, ad avere un saldo previdenziale positivo, con la quota di contributi versati dai lavoratori che è superiore alle prestazioni erogate. Il saldo complessivo italiano è ampiamente negativo; infatti, soltanto il 75% circa della spesa pensionistica è coperta dai contributi versati dai lavoratori; la parte restante, il cosiddetto deficit, è una spesa viva a carico dello Stato. Anche in questo caso la responsabilità del buco pensionistico va addebitata in gran parte alle Regioni meridionali, che da sole ne generano circa i due terzi. In che modo? Contributi non versati, pensioni non dovute, assistenzialismo sotto le più svariate forme e, non dimentichiamolo, privilegi previdenziali del tutto ingiustificati per moltissimi dipendenti pubblici, che per la maggior parte sono concentrati nelle Regioni del Mezzogiorno.

Gli esempi che abbiamo citato, riguardanti la sanità e il debito pensionistico, ci portano ad affrontare un'altra questione relativa al ruolo della Regione Lombardia nei confronti dell'Italia e dell'Europa. Da molti anni, ormai, noi cittadini veniamo letteralmente bombardati dai mezzi di informazione a proposito del rischio di un crac pensionistico e dell'analogo rischio di fallimento del sistema sanitario. In parole povere, la classe politica italiana continua a vivere e a giustificare parte della propria stessa esistenza sull'allarmismo in fatto di pensioni e sanità; veniamo terrorizzati e spinti a credere che la situazione sia molto precaria e che siano necessari continui tagli e sempre più tasse (anche sotto forma di un progressivo aumento dei contributi pensionistici, specie sui lavoratori dipendenti più giovani, su quelli autonomi e sui parasubordinati). La realtà, però, è ben diversa, se i conti vengono analizzati su base regionale. Abbiamo visto, infatti, che la Regione Lombardia ha i conti sanitari in regola e, in ambito pensionistico, non ha debito. Questo significa una cosa sola, e molto semplice: la Regione Lombardia, se fosse uno Stato indipendente nell'Unione Europea, non dovrebbe assolutamente inseguire nessuna crisi sanitaria nè pensionistica. I nostri concittadini potrebbero vivere molto più tranquilli e potrebbero affrontare l'esistenza quotidiana, il lavoro, l'avanzamento dell'età senza eccessivi patemi d'animo e senza il terrore di non potersi ritirare dal lavoro; per converso, i giovani lavoratori, specie se autonomi o parasubordinati, potrebbero godere di trattenute pensionistiche decisamente più ridotte e potrebbero al contempo sapere che, una volta divenuti anziani e ritiratisi dal lavoro, non ci sarebbe alcuna possibilità di brutte sorprese (il tanto temuto crac). Insomma, come cittadini lombardi potremmo giustamente goderci il frutto del nostro lavoro e affrontare la vita molto meglio -dato che già subiamo lo stress dei nostri forsennati ritmi di lavoro-. E invece no. Invece dobbiamo tirare la cinghia, subendo trattenute pensionistiche sempre più alte, sperare che tutto vada bene e che non arrivi nessun crac, perchè i soldi che versiamo e che abbiamo versato allo Stato e agli enti previdenziali servono per compensare i pesanti debiti sanitari e pensionistici accumulati dalle Regioni e dai cittadini del Centro-Sud. Noi cittadini lombardi stiamo pagando per gli altri, come al solito.

C'è però un altro aspetto della questione che merita di esser affrontato. Un aspetto che va oltre la spoliazione fiscale operata ai danni delle imprese e dei cittadini lombardi. Ci riferiamo ai metodi con cui tale spoliazione avviene. Si tratta di una questione che riguarda la dignità stessa del lavoro dei lombardi. Non stiamo più parlando "soltanto" di rapina fiscale, stiamo parlando di vera e propria umiliazione.
Cominciamo col dire che da ormai molto tempo, da un tempo in verità insopportabilmente lungo, gli abitanti della Regione Lombardia non sono più cittadini, ma sudditi, della Repubblica Italiana. Questa trasformazione si è compiuta del tutto quando, all'aumento intollerabile del prelievo fiscale, si è aggiunta la colpevolizzazione preventiva dei contribuenti. Stiamo parlando di una vera e propria criminalizzazione sancita in vari modi: in particolare, la Repubblica Italiana ha adottato tutta una serie di strumenti e di meccanismi fiscali che tendono a scaricare sui contribuenti l'onere di dimostrare minori redditi rispetto a quelli minimi stabiliti dal Fisco (che sono in verità decisamente alti e, spesso, del tutto fuori dal mercato); a corredo di questi strumenti persecutorii, sono state emanate numerose nuove norme, che hanno ulteriormente complicato la materia tributaria, aggiungendo elementi di pericolosa incertezza per il mondo dell'impresa, che già deve confrontarsi con quella, naturale, dei mercati.
Si potrà obiettare che le normative fiscali, a differenza del residuo fiscale citato in precedenza, non possono essere giudicate in un'ottica regionale, dato che colpiscono qualsiasi contribuente della medesima categoria su tutto il territorio dello Stato.
In altri termini: l'Italia potrà anche prelevare tantissimi soldi in Lombardia e spenderli poi nel Lazio o in Calabria, ma almeno le norme tributarie sono uguali per tutti (quelli che pagano). In apparenza l'obiezione è fondata, ma ci sono due "ma". Il primo: l'impatto delle normative fiscali è ovviamente molto diverso in base alla composizione del tessuto socio-economico delle singole Regioni; mentre la Lombardia ha il maggior numero di lavoratori autonomi, piccole-medie imprese e lavoratori parasubordinati, le Regioni meridionali, al contrario, hanno una popolazione lavorativa massicciamente impiegata alle pubbliche dipendenze dello Stato e degli enti locali. Il caos normativo e l'appesantimento burocratico, in ambito fiscale, hanno dunque effetti pesanti sull'economia lombarda; su quella delle Regioni centro-meridionali, invece, l'impatto è decisamente più limitato. Per i dipendenti pubblici, infatti, il rischio d'impresa, cioè la possibilità di perdere il lavoro, è pressoché nullo e, per ciò che riguarda le novità fiscali, è il datore di lavoro, ovvero l'ente pubblico, a farsi carico della dichiarazione dei redditi.

Il secondo "ma": nonostante la propaganda antisettentrionale tenda a descrivere la Padania (e la Lombardia) come terra di evasori fiscali, i dati ufficiali dell'Erario dimostrano che il tasso di evasione al Sud è triplo rispetto a quello del Nord; a ciò si aggiunga il fatto che una parte rilevante del lavoro autonomo e dipendente nel Mezzogiorno è svolta "in nero", senza subire, quindi, lo svantaggio delle complicate normative fiscali e senza alcuna garanzia per i lavoratori. Questo aspetto ha un particolare rilievo nell'ambito dei lavori pubblici, che, anche quando si svolgono al Nord, vengono assegnati spesso e volentieri ad aziende del Sud infiltrate dalle mafie, aziende che si offrono sul mercato dei bandi pubblici a prezzi stracciati e che poi fanno lavorare dipendenti in nero sottopagati e perfino reclutati con forme di caporalato fra gli extracomunitari irregolari. Si tratta di uno degli ambiti più pericolosi dell'infiltrazione mafiosa nel sistema dell'economia legale; si tenga presente che le imprese di qualsiasi regione possono partecipare ai bandi in tutto il territorio statale: con la secessione della Lombardia potremmo porre un limite a queste infiltrazioni, senza la secessione rischiamo, invece, di continuare a dare legalmente e nostro malgrado soldi alla mafia per costruire le nostre opere pubbliche. Sarebbe bene rifletterci attentamente. Non stiamo parlando di rischi teorici, ma di fatti concreti: in Umbria, sfruttando l'emergenza post-terremoto, i clan mafiosi campani e calabresi si sono inseriti pesantemente nel sistema degli appalti pubblici per la ricostruzione.

Ma torniamo ancora sulla questione delle norme fiscali punitive verso chi lavora in proprio. Esse hanno l'effetto della sabbia gettata in un motore: lo ingolfano. Negli ultimi anni, gli imprenditori, gli artigiani, i professionisti, i commercianti del Nord e, in particolare, della Regione padana più dinamica, la nostra Lombardia, hanno dovuto fare i conti con un vero e proprio diluvio di novità normative. Questi provvedimenti hanno toccato qualsiasi ambito dei rapporti produttivi, alterando in modo significativo delicati equilibri formatisi nel corso di interi decenni. In molti casi si è capito chiaramente che tali norme sono state concepite, fin dall'inizio, proprio per ostacolare chi lavora e produce. Un'aberrante logica antisettentrionale e statalista ha dunque influenzato la riformulazione delle normative tributarie: tale logica va ricercata nel ruolo perverso della burocrazia centro-meridionale, che gestisce i ministeri romani. Questa casta di funzionari pubblici inamovibili concepisce la legge come un potente e pervasivo strumento di potere; la scrittura sapiente delle nuove norme che via via si affastellano, le une sulle altre, in un crescendo kafkiano, permette loro di avere armi di ricatto nei confronti della società produttiva. Ogni codicillo, ogni circolare interpretativa, ogni regolamento attuativo è un'arma potenziale, da usare al bisogno per mettere in crisi il lavoratore lombardo. Si tratta di un sistema paramafioso, tipico delle burocrazie borboniche e corrotte, che ha il solo scopo di tenere in scacco i cittadini che vogliono lavorare e produrre, obbligandoli a fornire un numero sempre maggiore di certificazioni, autorizzazioni, progetti, dichiarazioni, documenti vari: una montagna di carta che finisce per deprimere le persone volenterose, allontanare i giovani dalle attività imprenditoriali, ingolfare l'economia dinamica della Lombardia. Come la sabbia nel motore, per l'appunto.
La malvagia visione del mondo e della società che si cela dietro a queste scelte normative si sostanzia in una massima tanto illiberale quanto assurda: chi lavora in proprio (e chi crea imprese) sta per principio dalla parte del torto; sta a lui l'onere di dimostrare il contrario.

Dietro a questa "strategia della tensione (legislativa)" si cela anche, però, un interesse molto più basso, particolarmente sentito dalla casta dei dipendenti pubblici: l’interesse a giustificare la necessità del proprio posto di lavoro pubblico. E' chiaro, infatti, che, in un contesto normativo sempre più complesso e mastodontico, il funzionario pubblico diviene indispensabile per archiviare e controllare le montagne di documenti che il cittadino è costretto a produrre. Uno Stato leggero, dotato di poche e semplici regole, nel quale le autorizzazioni per aprire un'azienda o un negozio fossero ridotte al minimo, avrebbe bisogno di ben pochi dipendenti. Ecco perchè la casta del pubblico impiego, monopolizzata dai politici e dai cittadini delle Regioni meridionali, fa di tutto per aumentare il peso della burocrazia: lo fa per giustificare la propria stessa esistenza.
Siamo di fronte ad una delle principali ragioni della nostra scelta secessionista. L'apparato pubblico italiano è concepito, come abbiamo visto, per ostacolare il dinamismo e le energie del tessuto socio-economico della nostra Regione. E non c'è verso che un governo riesca a diminuire il numero dei funzionari pubblici e i regolamenti da loro elaborati. Al massimo, si è riusciti ad avere governi che si sono limitati a non incrementare significativamente il già enorme peso dello Stato. Ma è troppo poco per le necessità della Lombardia. La nostra Regione deve competere con quelle del resto d'Europa, e non è facile, quando si deve aver a che fare con le burocrazie borboniche che ci ritroviamo nella Repubblica Italiana. La Regione Lombardia rimane tuttora uno dei principali motori dell'economia europea e mondiale, grazie alle proprie forze e grazie all'inesauribile volontà d'animo dei propri cittadini: nonostante lo Stato italiano. Ecco perchè, prima che esso ci danneggi del tutto, dobbiamo separarcene.
Dobbiamo secedere per restare competitivi e continuare a generare benessere diffuso; dobbiamo secedere per non morire di burocrazia italiana.