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p. 542

Guardando fuori:

la “situazione della finestra”

nella poesia di Umberto Saba

e di Alexandru Philippide

 

Francesco  Ricci,

Liceo “Enea Silvio Piccolomini”,
Siena

 

Alla piccola Sofia

 

“Chi vive solo e senza amici e tuttavia vorrebbe allacciare seri rapporti ogni tanto, chi non dimentico dei mutamenti delle ore della giornata, del tempo, delle relazioni professionali e cose simili vorrebbe comunque vedere un braccio qualsiasi sul quale appoggiarsi non riuscirà a resistere a lungo senza una finestra sul vicolo”.[1] Pochi testi come il breve racconto di Franz Kafka La finestra sul vicolo, dal quale è tratto il passo sopra riportato, sono in grado di chiarire l’evidente significato simbolico che l’atto di guardare dalla finestra possiede nella grande narrativa europea del XIX e del XX secolo. Da Flaubert a Dostoevskij, da Kafka a Moravia a Pavese, i personaggi vengono sovente rappresentati mentre osservano la realtà da una finestra, volendo con ciò suggerire la loro esclusione tanto dal resto della società degli uomini quanto dalla vita stessa.

Neppure la poesia del Novecento, inncentrata come è sul motivo del “male di vivere” e testimone del ruolo sempre più emarginato e alienato dell’intellettuale all’interno della società borghese, si è potuta sottrarre alla suggestione della “situazione della finestra”, tanto che Franco Fortini[2], commentando Il ladro di ciliege di Bertold Brecht, vi ha ravvisato “un luogo simbolico della poesia contemporanea”. In ambito italiano probabilmente è stato Umberto Saba (1883-1957) il poeta che più di ogni altro ha impiegato la “situazione della finestra” non solo come metafora dell’atto poetico (inteso, in primo luogo, come osservazione e riproduzione della realtà esterna al soggetto[3]), ma anche come simbolo di una relazione contraddittoria e sofferta col mondo. Dalle raccolte giovanili, si pensi a liriche come A una stella o Meditazione, sino a quelle della maturità, come attesta, ad esempio, Finestra in Ultime cose, passando per Veduta di collina, La greggia, Il patriarca, la finestra costituisce un osservatorio ricorrente per il poeta triestino, contribuendo in maniera decisiva a caratterizzarlo come “poeta dello sguardo”. Al fine di intendere pienamente il valore che tale sguardo possiede nella poesia sabiana, risulta quanto mai proficuo istituire in via preliminare un confronto con l’opera di Stéphane Mallarmé, al cui interno il binomio finestra / vita compare già in una lirica giovanile, appartenente alla raccolta Dal Parnaso contemporaneo (1866), che reca il titolo, estremamente significativo nell’ottica del discorso che stiamo portando avanti, Le finestre. Si legge nella parte centrale della lirica[4]:

 

“Così, nauseato dall’uomo dal cuore incallito

dentro il benessere avvolto, dove si pascono

p. 543

le sole sue voglie e insiste a cercare rifiuti

per porgerli alla sua donna che allatta i suoi piccoli,

 

io fuggo e m’abbranco a tutte le chiuse vetrate

donde alla vita si voltan le spalle, e là, sacro

nel loro vetro lavato da eterne rugiade,

che indora il casto mattino dell’Infinito

 

mi specchio, e me angelo vedo […].”

 

Appare evidente come per Mallarmé iil volgere le spalle allo spettacolo della vita costituisca l’azione (e la condizione) preliminare per fare poesia, vale a dire per superare ciò che è transitorio, fenomenico, caduco, ed accedere alla dimensione dell’imperituro, dell’essenziale, alla contemplazione, cioè, delle pure idee. Solamente chi possiede il coraggio e la capacità di recidere ogni legame con quanto costituisce la storia e l’esperienza mondana dell’uomo, può ambire a raggiungere l’Assoluto (L’Azur), a sfiorare il senso nascosto delle cose.

Se a questo punto passiamo ad esamiinare l’opera di Saba, è facile rendersi conto di quanto sia intenso in lui il desiderio di conservare un legame con la vita di tutti i giorni, con quel quotidiano fatto di persone, oggetti, situazioni, che Mallarmé tendeva a relegare ai margini della composizione poetica, in quanto manifestazione di quel mondo umano che la sua poesia, come ha messo in evidenza Hugo Friedrich nella sua fondamentale La struttura della lirica moderna, intende programmaticamente abolire[5]. Anzi, il desiderio di Saba sarebbe addirittura quello di potersi confondere, quasi “sciogliersi” in quella vita dalla quale il poeta francese voleva, invece, rifuggire. Ma a Saba tocca di registrare amaramente come tale desiderio debba restare inappagato e che nel “guardare ed ascoltare” consista tutto il suo destino di uomo e di artista, come viene esplicitamente dichiarato nella quartina di apertura di Meditazione, che appartiene alla raccolta Poesie dell’adolescenza e giovanili (1900-1907):

 

“Sfuma il turchino in un azzurro tutto

stelle. Io siedo alla finestra, e guardo.

Guardo e ascolto; però che in questo è tutta

la mia forza: guardare ed ascoltare.”

 

Ora, questo guardare stando alla fiinestra, se costituisce, a livello di situazione, un recupero, che è anche un omaggio, alla grande tradizione poetica italiana, da Petrarca (si pensi alla canzone Standomi un giorno solo a la finestra) a Leopardi (evidente appare l’eco di A Silvia), certamente, però, esprime in modo nitido anche la grande disponibilità da parte del poeta di istituire un rapporto con la vita e con il mondo che si vorrebbe che fosse il più cordiale ed il più intenso possibile. Una disponibilità, questa, che non trova uguali nella poesia italiana del Novecento, tranne, forse, che nel caso del perugino Sandro Penna[6], e che pare non venir meno

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neppure dinanzi agli spettacoli più turpi, più impuri (quegli stessi spettacoli che, invece, inducevano Mallarmé ad aggrapparsi “a tutte le chiuse vetrate/donde alla vita si voltan le spalle”), quali sono, ad esempio, quelli che quotidianamente hanno luogo nella “cità vecia”, vale a dire nel nucleo primitivo e più italiano di Trieste, capaci di ispirare una delle liriche più belle e più note di Saba, Città vecchia, che fa parte della raccolta Trieste e una donna (1910-1912):

 

“Spesso per ritornare alla mia casa

prendo un’oscura via di città vecchia.

Giallo in qualche pozzanghera si specchia

qualche fanale, e affollata è la strada.

 

Qui tra la gente che viene che va

dall’osteria alla casa o al lupanare,

dove son merci ed uomini il detrito

di un gran porto di mare,

io ritrovo, passando, l’infinito

nell’umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,

il dragone che siede alla bottega

del friggitore,

la tumultuante giovane impazzita

d’amore,

sono tutte creature della vita

e del dolore;

s’agita in esse, come in me, il Signore.

 

Qui degli umili sento in compagnia

il mio pensier farsi

più puro dove più turpe è la vita.”

 

Anzi, secondo Saba è proprioo l’ingresso in quelli che assieme a Max Stirner[7] è possibile chiamare “i covi del vizio”, che consente l’epifania della “calda vita”, una vita prelogica, istintiva, indifferenziata, che si manifesta in tutti gli esseri e alla quale il poeta dà il nome di “brama”, riconoscendo in lei, come si legge in Storia e cronistoria del Canzoniere, “l’antico Eros che unifica il mondo”[8]. E’ in questa “calda vita” che Saba vorrebbe perdersi ed annullarsi, come è detto nei seguenti versi tratti da Il borgo, che fa parte della raccolta Cuor morituro (1925-1930):

 

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“Dove nel dolce tempo

d’infanzia

poche vedevo sperse

arrampicate casette sul nudo

della collina,

sorgeva un Borgo fervente d’umano

lavoro. In lui la prima

volta soffersi il desiderio dolce

e vano

d’immettere la mia dentro la calda

vita di tutti,

d’essere come tutti

gli uomini di tutti

i giorni.”

 

Se il tentativo di “immettere” la ppropria vita “dentro la calda vita di tutti”, di “essere come tutti gli uomini di tutti i giorni” fallisce, ciò dipende dal fatto che nell’animo di Saba accanto alla socialità e al desiderio di immedesimarsi con il resto dei viventi agiscono l’introversione e il ritegno, che finiscono col fare dell’animo sabiano il luogo di un conflitto irrisolto tra pulsioni opposte, che lo accompagnano sin dalla nascita (evidente appare il riferimento alla infelice situazione familiare)[9], e che la poesia, con la sua bellezza, può occultare, ma non può conciliare, come è detto in Secondo congedo: “O mio cuore dal nascere in due scisso, / quante pene durai per uno farne! / Quante rose a nascondere un abisso!”. E’ questa una delle numerose testimonianze delle scissioni che lacerano l’animo di Saba, questo “psicanalitico prima della psicanalisi”, secondo la felice definizione di Gianfranco Contini[10], e che l’atto di guardare dalla finestra contribuisce in modo determinante a mettere in luce. Una volta di più, dunque, trova conferma la bontà dell’intuizione di Claudio Magris[11], il quale ha colto il segreto della bellezza e della modernità della poesia di Saba proprio nella capacità di coniugare la dimensione della “larghezza” con la dimensione della “verticalità”, vale a dire, lo sguardo gettato sulla vita di tutti i giorni, con i suoi ambienti popolari, i suoi uomini, le sue storie, e lo studio dell’animo umano, della selvaggia e contraddittoria molteplicità che si annida nel profondo di ogni individuo.

In ambito romeno la situazione dellla finestra ritorna nell’opera di Alexandru Philippide (1900-1979), a partire dalla lirica La finestra (Fereastra)[12], inclusa nella raccolta Oro sterile (1922):

 

“In cocci di gelo

L’azzurro si stacca dal cielo.

 

Quando il sole declina,

p. 546

Pone sul vetro sigilli d’oro verde

E tutta la finestra si imperla

Di madrepore di brina.

 

Gli attimi gocciolano –tic, tic–

(Come? Il tempo non si è rappreso per gelo?)

Gli a attimi gocciolano –tic, tic–

Sulla barba del pendolo solitario

E colano, cadendo sulle sue ginocchia,

Come una pannocchia

Di minuscole perle

Per nanerelle.

 

(Di una pannocchia di perle in frantumi

Io faccio un ballo di stelle in costumi

Di bianchi Pierrot!)

 

Con le sue spalle di marmo sereno,

Dove ha deposto baci bianchi il gelo,

Alla finestra

Si curva il cielo.

 

(E’ illusione che il cielo sia distante.

Basta guardare le stelle solitarie

Sulle cimase …

Un colpo di vento

Le disperde in un momento …)

 

Come diafane ali di farfalla

La finestra dispiega i suoi vetri.

Dai suoi vetri

Polline vitreo

Scrolla.

 

Quasi è notte …

Il tempo gelido avanza

A passi di silenzio nella stanza.

 

La finestra freme …

 

Quando mi si chiudono gli occhi, la finestra viene

Accanto a me,

Occhi profondi, per guardarmi bene …”

 

p. 547

La separazione dall’esterno in Philippide non è vissuta in modo sofferto, poiché, apparentemente, non esiste alcuna separazione. La finestra, infatti, lascia filtrare intero lo spettacolo della realtà naturale in tutto il suo nitore e la sua evidenza, tanto che il poeta si sforza a più riprese di sottolineare la trasparenza del cristallo (“pone sul vetro”, “come diafane ali di farfalla la finestra dispiega i suoi vetri”, “polline vitreo”), che permette di cogliere intatto l’incanto della natura (l’azzurro che pare staccarsi dal cielo, il sole al tramonto, le stelle solitarie). Quella della finestra, di conseguenza, è una presenza che non suscita dolore, dal momento che è vista non già come una barriera che separa dal mondo esterno, ma come una muta compagna dei pensieri e delle confidenze del poeta, col quale condivide lo spazio e il tempo e al quale pare, da ultimo, addirittura volersi avvicinare, per poterlo osservare ed ascoltare meglio (“Quando mi si chiudono gli occhi, la finestra viene / Accanto a me, / Occhi profondi, per guardarmi bene …”). Non c’è sgomento, non c’è angoscia, perché la separazione con l’esterno risulta solo apparente, come apparente è la distesa del cielo (“E’ illusione che il cielo sia distante”), anche se solamente il poeta sembra in grado di comprenderlo (“Basta guardare le stelle solitarie / Sulle cimase …”).

Il quadro sino a qui delineato trovva puntuale conferma nella lettura e nell’analisi della poesia Musica (Muzica)[13], anch’essa tratta da Oro sterile:

 

“La corda di un raggio fende

Il vetro che la luna accende.

 

Serpeggiando nell’aria, indolente,

Il tremulo raggio azzurrino

Melodioso sul tappeto si stende

Come un fremito.

 

Fremito azzurro …

La corda ialina

Diffonde mute melodie di luna.

E sul suo sdrucciolo turchino,

Fremito sfuggito a un archetto,

Dalla luna scende, leggero come

Farfalla, un sorriso sul tappeto.

La corda vibra di fremiti turchini

Nella musica di sorrisi della luna.

 

Ondula la finestra come un’acqua

Quando di raggi si imbeve;

Dai mobili il silenzio si stacca;

Il tappeto, lago di fiocchi, stende

Onde impietrite, azzurrine; lievi,

p. 548

Fiocchi bianchi si impigliano alle tende.

Oh sogno, pure la tenda ora è piena

Del sonno serico di luna piena.”

 

Anche in questo caso siamo in preseenza di un “notturno”, di un “chiaro di luna” (e la parola “luna” ricorre per ben cinque volte nel giro di 23 versi). Anche qui il silenzio pare avvolgere il mondo e la stanza al cui interno si trova il poeta, un silenzio che pare rotto ed attraversato solamente, a tratti, da sottili fremiti (“fremito azzurro”, “fremiti turchini”, “fremito sfuggito a un archetto”) e dolci, quasi impercettibili, armonie (“mute melodie”, “musica di sorrisi”). Anche qui, infine, la grazia e la dolcezza sembrano essere la materia di cui è fatto il mondo (“il tremulo raggio azzurrino”, “leggero come farfalla”, “lago di fiocchi”, “lievi fiocchi bianchi”), una sensazione, questa, che viene accresciuta dal consueto raffinato cromatismo di Philippide.

Non meraviglia, di conseguenza, chee anche in Musica la dialettica interno / esterno sia colta e mostrata dal punto di vista dell’analogia, non già del contrasto. Scegliere di sedere alla finestra, scegliere di guardare dalla finestra (“Ondula la finestra come un’acqua / Quando di raggi si imbeve”) significa cercare il punto nel quale ogni distanza si annulla, l’interno e l’esterno, il vicino ed il lontano si confondono e si sovrappongono: così la luna che in apertura di lirica dall’alto illuminava i vetri della stanza (“La corda di un raggio fende / Il vetro che la luna accende”) nei versi finali pare, animandosi e umanizzandosi, approssimarsi alle tende e ai tappeti che si trovano dentro la stanza (“Oh sogno, pure la tenda ora è piene / Del sonno serico di luna piena”) e che sono percorsi e attraversati, anch’essi, da sottili fremiti di vita.

Nella poesia di Philippide tutto &eegrave; grazia, dolcezza, delicatezza; le parole, quando vengono scambiate, vengono pronunciate sottovoce. Si potrebbe quasi parlare di una “maniera” di fare poesia, tanto ricorrenti appaiono in lui certi elementi: il vento è sempre una delicata brezza, la luna è una presenza amica, alberi e cielo si confondono in un comune abbraccio, e perfino una piccola frana appare agli occhi del poeta come una innocente ed indolore discesa a valle. Esemplare di questa maniera è l’incipit di La larva del bosco (Nãluca pãdurii)[14]:

 

“Scorre il ruscello alla brezza leggera;

Tra le erbe alte il vento fruscia appena;

La luna è un filo verdino di vento

Che, tremolante, si impiglia nei rami,

Sul colle dove dormono gli abeti

Sorreggendo il cielo.

 

A valle,

Là dove la sponda divalla

Come una palpebra

Sull’acqua,

Son rotolate furtive dal colle

Alcune rocce, a tener consiglio.”

 

p. 549

Persino la morte in Philippide risuulta spogliata di ogni componente tragica. Così nella lirica Cimitero (Þintirim), più che le immagini cupe, lugubri, di sapore vagamente ossianico (“Una pietra / Luccica come un cranio tra gli sterpi”, “Su una croce marcita si posa una cornacchia”, “Vecchie tombe, sentieri deserti, peste di cani”), resta impresso nel lettore il ricordo della danza e dei salti che il becchino ogni sera improvvisa sotto lo sguardo attento della luna, sua fedele compagna di giochi, che finiscono con l'introdurre una dimensione ludica perfino nel regno della morte (“Il becchino che è passato per strada / – Pazzo da legare (dicono alcuni) / Perché balla la sera intorno alla luna – / Ha appoggiato la vanga a una tomba, / E ora / Cerca di saltare la sua ombra, / Che la luna gli ha legato ai piedi”)[15].

Tuttavia, sebbene il poeta, osservaando dalla finestra la realtà a lui esterna, ne riporti immagini costantemente cordiali e serene, non per questo si dovrà parlare di un rapporto cordiale e sereno col mondo. Anzi, a ben vedere non esiste alcun rapporto col mondo: il poeta si nega al mondo, lascia fuori dalla sua finestra il mondo intero. Se in Saba la finestra segna in maniera anche drammatica la separazione dal mondo e dalla “calda vita”, è cioè simbolo di un isolamento e di una esclusione che conseguono dal contatto cercato col mondo, e si situa a pieno titolo all’interno del mondo (così come fa parte del paesaggio urbano l’erta “popolosa in principio, in là deserta”[16], dalla quale il poeta, isolandosi, può contemplare la città di Trieste), in Philippide la finestra neppure esiste come barriera, perché di fatto non esiste quel mondo, inteso come realtà, naturale ed umana, separata e distinta dal soggetto, che la finestra lascia fuori. Insomma, protagonista non è lo sguardo rivolto dall’interno della stanza verso l’esterno, bensì lo sguardo gettato nel profondo di se stesso, alla ricerca di immagini e di impressioni, che possiedono come tratti costitutivi la dolcezza e la delicatezza. Tutto sembra avere luogo unicamente nell’animo e nel sogno del poeta, che si rivela poeta eminentemente solipsistico, certamente visionario, poeta, riprendendo il titolo di una sua lirica della maturità[17], delle grandi solitudini (quelle che precedono ogni rapporto col mondo, non quelle che discendono, come avviene in Saba, dal desiderio frustrato di immedesimazione col mondo):

 

“In me, nelle mie grandi solitudini,

Sento da tempo un canto. Ma è canto

Qualcosa che si può udire

Con l’orecchio dell’anima soltanto?

Suoni fiochi, sussurro d’astri,

Gorgo di sogno e ricordi di venti,

Illusione sonora che può essere luce,

Presenza che allontana la parola?

 

Mi sono abbandonato tante volte

Alla barca del sonno, navigando

A ventura sui mari del silenzio

Interiore, in attesa dell’incontro

Con il misterioso cantore.”

 

p. 550

Appare chiaro, dunque, come il monddo poetico di Philippide non sia fatto di presenze concrete, tangibili, dotate di una loro esistenza reale ed oggettiva: tutto è evanescente, indefinito, immateriale. Così, ciò che a una prima analisi pareva frutto semplicemente di un’arte attenta e sorvegliata, tesa a nobilitare una materia trita e comune, quale può essere il progressivo passaggio dalla luce del crepuscolo al buio o un “notturno”, per mezzo di raffinate suggestioni cromatiche (“in cocci di gelo l’azzurro si stacca dal cielo”, “quando il sole declina, pone sul vetro sigilli d’oro verde”, “la luna è un filo verdino di vento”), ad un esame più attento risulta invece funzionale alla creazione di un paesaggio, che pare avere la sua nota dominante non già nella tranquillità e serenità, ma nell’immaterialità e vaghezza, quella immaterialità e vaghezza che sono proprie della reverie o dei sogni (e sogno è parola ad altissima frequenza nel vocabolario di Philippide, come già una rapida ricognizione dei testi prova: “oh sogno”, “sogno stolto”, “dovizia di sogno”, “lunghe ere di sogno”, “gorgo di sogno”, “nel mio sogno”, “sogno lontano”) e che sempre accompagnano e contraddistinguono ogni spirito in fuga dal mondo e dagli uomini.

 

 

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© ªerban Marin, March 2004, Bucharest, Romania

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[1] F. Kafka, I racconti (traduzione italiana di G. Schiavoni), Milano, 1985: 74.

[2] Nella introduzione a B. Brecht, Poesie di Svendborg, seguite dalla Raccolta Steffin, Torino, 1986: VIII.

[3] “Io guardo il vero, e calco / qual è la dolce vita, / con qualche cosa ancora / che dice: guarda e adora; / guarda se il mondo è bello, / se il tuo dolor non vale” (U. Saba, L’incisore: vv. 28-33).

[4] Vv. 21-29 (traduzione italiana di L. Frezza).

[5] “Così alle labbra in coro / Volano i canti / Escludine sul nascere / Perché vile il reale”, S. Mallarmé, Tutta l’anima raccolta: vv. 9-12 (traduzione italiana di C. Ortesta).

[6] “Sempre affacciato a una finestra io sono, / io della vita tanto innamorato. / Unir parole ad uomini fu il dono / breve e discreto che il cielo mi ha dato”, Sempre affacciato a una finestra io sono, in S. Penna, Poesie scelte (a cura di N. Naldini), Milano, 1999: 111. Non è certo un caso che Penna sia, assieme a Giorgio Caproni e ad Attilio Bertolucci, il rappresentante più significativo di quella “linea antinovecentesca” che ha avuto in Umberto Saba il proprio maestro riconosciuto e modello dichiarato.

[7] L’unico e la sua proprietà, Milano, 1979: 374.

[8] Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, Milano, 1948: 171.

[9] Su questo punto mi permetto di rinviare a F. Ricci, Il Nulla e la luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento, Siena, 2002: 58-59.

[10] Esercizi di lettura, Torino, 1974: 28.

[11] A. Ara, C. Magris, Trieste, Torino, 1997: 75.

[12] Traduzione italiana di M. Cugno.

[13] Traduzione italiana di Cugno.

[14] Vv. 1-12 (traduzione italiana di Cugno).

[15] Cimitero: vv. 15-21.

[16] Trieste: v. 3.

[17] Nelle grandi solitudini (În marile singurãtãþi): vv. 1-13 (traduzione italiana di Cugno).