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Stefano il Grande e la Moldavia nei Commentari di Andrea Cambini e Theodoro Spandugino Cantacuzeno

 

 

Gianluca  Masi,

Università degli Studi di Firenze

 

Per avere un’ulteriore testimonianza del modo in cui, al tempo di Stefano il Grande o pochi anni dopo il suo principato, venivano recepite in Italia le vicende che riguardavano lui ed il suo paese, vorrei segnalare in questa sede due fonti abbastanza note, almeno nel campo degli studi relativi alla storia dell’Impero Ottomano, e tuttavia, ritengo, poco conosciute per quella delle terre romene. Inizio dal Commentario de Andrea Cambini fiorentino della origine de Turchi, et impero della casa ottomana, del cui autore appongo di seguito una doverosa presentazione[1].

 

1. Breve profilo biografico di Andrea Cambini

Andrea nacque a Firenze da Antonio Cambini, probabilmente intorno agli anni 1455-1460, ed ebbe come maestro Cristoforo Landino. Questi, nel commento alla Divina Commedia, cita il discepolo come traduttore in volgare delle sue Disputationes Camaldulenses: “Danthe fu el primo che investigò gli alti sensi di Virgilio de’ quali perché molto prolixo sarebbe qui riferire, lo quanto portò el mio ingegno nel terzo et nel quarto libro delle nostre Disputationi Chamaldulesi expressi et dichiarai; el quale volume Andrea Cambini nostro discepolo traduxe in lingua fiorentina”[2]. Grazie al maestro, il Cambini entrò in contatto con l’Accademia Platonica fiorentina[3] e con lo stesso Marsilio Ficino, che in una lettera lo disse “prudens moderatusque[4], quindi lavorò alle traduzioni dei

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dialoghi ciceroniani Cato maior de senectute, dedicato a Lorenzo di Bernardo de’ Medici, e Laelius de amicizia, con dedica ad Antonio de’ Medici, nessuna delle due mai data alle stampe.

Come uomo politico e diplomatico, il Cambini ebbe più volte incarichi da parte di Lorenzo il Magnifico[5]. Negli anni 1482-1483 fu in missione diplomatica a Ferrara, dove, su invito del duca Ercole d’Este[6], iniziò la traduzione in volgare dei trenta libri delle Historiarum ab inclinatione Romani imperii decades di Biondo Flavio, che si sarebbe conclusa solamente nel 1491[7]. Dopo essere stato Priore a Firenze (maggio 1485-aprile 1486), il Cambini fu inviato a Siena con lettere credenziali per la famiglia Piccolomini,

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quindi, cresciuto nella stima di Lorenzo, fu nominato economo ufficiale e procuratore del Card. Giovanni[8], ottenendo nel 1488 l’amministrazione dell’Abbazia di Montecassino. Dimostratosi eccessivamente zelante, fu sostituito l’anno successivo ed inviato nel gennaio a Bologna, presso Giovanni Bentivoglio[9], con lo scopo di trovare un accordo circa il problema dei fuoriusciti e per porre un termine alle discordie sorte dopo l’uccisione di Galeotto Manfredi[10]. Nel novembre 1494, durante i tumulti scoppiati a Firenze contro i Medici, il Cambini non abbandonò il Card. Giovanni: rimase ferito nel tentativo di difenderlo ed ottemperò, così, alla promessa fatta a Lorenzo quando questi gli aveva raccomandato, in punto di morte: “l’età del figlio e la dignità della città”[11]. Poi però, quando Piero[12] fu costretto all’esilio, il nostro scrittore, che dissentiva dalle scelte politiche del nuovo signore di Firenze, divenne seguace di Girolamo Savonarola e referendario di Francesco Valori, gonfaloniere di Giustizia, di cui condivise in parte le sorti. Mentre infatti, l’8 aprile 1498, il frate domenicano si arrendeva ai mazzieri della Signoria, per finir poi bruciato sul rogo il 23 maggio, e lo stesso Valori consegnatosi ad un mazziere era assalito ed ucciso per strada, il Cambini prima vide la casa saccheggiata e data alle fiamme, quindi il 9 mattina fu imprigionato, ma durante il processo si difese tanto abilmente da ottenere una pena piuttosto lieve (26 aprile): un’ammenda di centocinquanta giorni ed un’ammonizione per cinque anni. Comunque, presso molti, rimase di lui un giudizio simile a quello che Francesco Tranchedino[13] aveva formulato in una lettera indirizzata da Bologna, il 12 aprile dello stesso anno, a Ludovico il Moro, duca di Milano[14]: “Le case poste ad

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saccho sonno solum quella di Francesco Valore, dove erano molti armati, quali non defesero la casa, né la roba, né luy, un’altra casa d’un suo nepote; et la casa di quello Andrea Cambyni, facto richo per manegiare la roba de’ Medici bon tempo, ma discognoscente de chi li haveva facto beneficio, fu anche missa ad sacho”[15].

Nei trent’anni successivi fino alla morte, avvenuta a Firenze il 5 marzo 1527, durante un’epidemia, il Cambini pensò bene di abbandonare l’attività politica, dedicandosi solamente, a quanto ci è dato sapere, alla stesura dell’opera in quattro libri: Della origine de Turchi et imperio delli Ottomani[16], rimasta incompiuta e pubblicata postuma a Firenze, per gli eredi di Filippo di Giunta, nel mese di giugno 1529. Quest’opera, per l’attualità dell’argomento trattato, ebbe nel XVI secolo una certa fortuna: nel 1541, ad esempio, videro la luce a Venezia, per i figli di Aldo Manuzio, i Commentarii delle cose de Turchi, di Paulo Giovio et Andrea Gambini, con gli fatti et la vita di Scanderbeg[17].

 

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2. Stefano il Grande, principe di Moldavia, nell’opera di Andrea Cambini

Nel Commentario del Cambini il nome di Stefano il Grande (1457-1504) non compare mai espressamente, mentre con il termine Valacchia s’intende naturalmente la Moldavia. Inoltre, nelle parti riservate a Mehmet II (1444-1481) e a Bayezid II (1481-1512), quindi per quanto concerne l’ambito storico in cui Stefano si trovò ad agire, l’analisi dell’espansione ottomana ruota, com’è naturale, intorno alle potenze operanti sul teatro dell’Europa centro e sud orientale, ma nei confronti di Stefano il Grande il Cambini pratica una sorta di “censura” che cercheremo di motivare più avanti, non ritenendo che essa debba addebitarsi unicamente alla scarsa conoscenza della Moldavia da parte del fiorentino[18].

Nel Secondo libro del suo Commentario[19], il Cambini tratta, fra l’altro, della crociata contro gli Ottomani iniziata nel 1463, per la quale Pio II[20] patrocinò un’alleanza fra la città di Venezia, l’Ungheria e il regno di Napoli, che portò sostegno all’Albania di Skanderbeg[21]. In quest’occasione furono presi accordi con alcune potenze dell’Anatolia avverse agli Ottomani, ossia i Turcomanni Aqqoyunlu[22] di Uzun Hasan (1433-1478) e

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il regno turco del Caramanide. Prima vengono elencate dal Cambini le conquiste di Venezia a partire dal settembre 1463, quando la Serenissima occupò gran parte della Morea ed alcune isole dell’Egeo. Donde la controffensiva ottomana[23] volta a stornare la minaccia portata dai Veneziani, alla stessa Costantinopoli, con la conquista delle isole di Lemno e Tenedo, e il consequenziale blocco dei Dardanelli. Poi, entra in scena per la prima volta quella che il Cambini chiama Valacchia, intendendo naturalmente la Moldavia[24].

I Genovesi temono che gli Ottomani vogliano attaccare Caffa[25], in Crimea, ed infatti Mehmet II rivolge la flotta verso il Mar Nero ed invia in Valacchia un contingente di cavalieri che poi indirizza su Caffa (estate 1475). Il sultano, infatti: “rivolto ad un tratto l’armata verso il mare maggiore, et fattovi cavalcare buon numero di genti erano ite ad soccorrere in Valacchia, ad uno tanto medesimo ordino [sic] che si dovessimo appresentare alla città di Capha, dove condotti, et assediatola per mare et per terra, piantatovi subito l’artiglierie la cominciò ad tormentare […]”. Caffa cade “sotto la iurisditione de’ Turchi, et Maumeth andando drieto al proposito fatto di scacciare in tutto li Christiani di Grecia, messo insieme uno esercito di cento mila huomini li mandò in Albania ad assediare la terra di Scutri [sc. Scutari] in quel tempo posseduta da’ Vinitiani”[26]. Venezia, però, non può indurre Sisto IV[27] a por fine alla guerra contro Firenze, nella quale anch’essa è coinvolta con gran dispendio di uomini e di mezzi; quindi addiviene ad una pace con gli Ottomani[28]. Mehmet II, da parte sua, sospesa ogni attività bellica contro Venezia, invia il suo esercito in Ungheria, egli infatti: “fe’ scorrere parte delle genti di terra in Ungheria […]”[29]; e probabilmente, con questa laconica citazione, il Cambini allude anche alla campagna che gli Ottomani intrapresero nel 1476, in Moldavia, con un’azione a tenaglia che prevedeva la penetrazione della cavalleria tartara da nord: un’imponente azione di forza, durante la quale Stefano il Grande inizialmente non poté fare altro che ritirarsi, evitando lo scontro frontale, e che infine culminò nella sconfitta di Valea Albã (luglio 1476). Niente si dice, nelle pagine precedenti, della vittoria sugli Ottomani guidati dal Beylerbey della Romelia, Solimano Hadâmbul, conseguita da Stefano a Podul Înalt (Ponte Alto), presso Vaslui, il 10 gennaio 1475[30]. Dopo una lunga digressione sull’assedio condotto dagli Ottomani a Rodi[31], la trattazione passa all’assedio di Otranto (luglio-agosto 1480), poiché fin qui si

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è spinta una flotta ottomana che pure, scrive il Cambini, era stata inviata alla conquista delle isole Ionie. Durante l’assedio Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli (1458-1494), abbandonata la guerra contro Firenze, che era condotta dal figlio, duca di Calabria[32], trasferisce la corte a Barletta ed ottiene aiuti dagli altri principi cristiani: in particolare ottocento cavalieri dall’Ungheria di Mattia Corvino[33] ed alcune navi da Spagna e Portogallo[34].

Piuttosto scarsi, dunque, nel secondo libro del Cambini gli accenni alla Moldavia e ai suoi rapporti con Mehmet II. La morte di quest’ultimo, avvenuta il 3 maggio 1481, dà inizio al Terzo libro[35]. Dalla lotta che oppone i due fratelli: Bayezid, appoggiato dai Giannizzeri, e Ğem alleato dei Turcomanni, di parte della nobiltà anatolica avversa ai devºirme e, in un secondo tempo, dei Mamelucchi d’Egitto, risulta vittorioso il primo. Bayezid II, infatti, dopo aver fatto togliere l’assedio ad Otranto, debella il fratello in Asia e si volge alla guerra col Caromanno, quindi, ucciso il Caramanide detto Abraham, nell’assedio di Tarso, e conquistata la Cilicia, l’Armenia inferiore e parte della Cappadocia, se ne torna in Adrianopoli, giungendo alla pace anche con il Sultano d’Egitto e di Siria[36].

Bayezid II, a questo punto, e qui si apre una larga parte dedicata alle lotte con la Moldavia, pur avendo l’intenzione di dedicarsi al consolidamento pacifico dei possedimenti ereditati dal padre, vuol cogliere l’occasione di impadronirsi dell’isola di Corcira. Ma, scrive il Cambini, per non insospettire i Veneziani, finge di rivolgersi in direzione contraria, inviando l’esercito contro la Moldavia e la flotta alla conquista di Moncastro, colonia genovese: “[…] data fama, per non mettere sospetto ne’ Vinitiani, di volere fare l’impresa contro a’ Valacchi, et Amoncastro [sic], cominciò con grande fretta ad preparare l’armata di mare […]”[37]. Tuttavia, essendo sull’avviso i

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Veneziani[38], gli Ottomani si decidono senz’altro per la guerra contro Stefano il Grande; Bayezid II infatti, circa l’armata di mare: “determinò seguitare come haveva dato opinione di condurla nel mare maggiore, et inviatola ad quella volta, impersona con le genti terrestri sadviò per la via della Burgaria alla volta del Valaccho il quale habita nella parte inferiore verso il Ponto Eusino […]”[39]. Qui il Cambini allude certamente all’attacco portato dagli Ottomani nell’estate del 1484 ai porti di Città Bianca[40], importanti centri commerciali e strategici della Moldavia. Vi è chi ha ritenuto, erroneamente, che in questo caso Bayezid II intendesse risolvere il problema dei corsari che occupavano il delta del Danubio e rendevano difficile il controllo delle coste del Mar Nero da parte della flotta ottomana. Si pensa anche che Stefano il Grande, approfittando del conflitto fra Bayezid e Ğem, attraversasse il Danubio per scorrere la Valacchia e costringesse Bayezid II ad un’invasione della Moldavia. Scrive comunque il Cambini a questo proposito:

 

“[…] il Signore del paese, conosciuto le forze sue non essere abbastante ad difenderlo contro a uno tanto impeto, determinò tentare se, per via dello accordo, si poteva salvar, confidatosi assai nella clementia et bontà di Baiasith, della quale per tutti li paesi vicini sendo sparta fama, haveva ripieno li animi de’ popoli ad sperare di lui bene, et mandato suoi oratori con grande segno di humiltà ad domandare la pace, et uditoli Baiasith, benignamente senza dificultà s’indusse ad concedergnene, et fatto di patto che li dovessi pagare l’anno certa quantità di danari in segno di tributo, lo ricevette nella protetione sua, et sanza soprastare, passato il Danubio et messose innanci, condusse lo essercito, sendovi in questi dì, comparita l’armata di mare, nel cospetto della terra di Moncastro, la quale è posta su lito del mare vicino alla foce dove il fiume Nester mette nel mare maggiore […]”[41].

 

Segue dunque, per quattro pagine, la descrizione minuziosa dell’assedio e della conquista della città, presa di mira dall’artiglieria ottomana, alternandosi i colonnelli al comando allo scopo di non interrompere mai il bombardamento. Ma, a detta dell’autore fiorentino, i cittadini resistono strenuamente, trincerandosi fra le macerie delle mura, laddove si sono aperti dei varchi, e facendo grande strage fra le truppe degli Ottomani. Tuttavia, scrive il Cambini, “li difensori venivano ad ricevere molto maggiore detrimento de’ pochi che perdevano, che non davano di danno de’ molti che facevano morire de’ nimici”[42], giacché gli Ottomani sostituivano i molti che erano morti o feriti con truppe fresche, mentre i pur pochi che cadevano fra gli assediati non si potevano rimpiazzare. Comunque, prima di sferrare l’attacco finale Bayezid II, per non logorare eccessivamente il proprio esercito, concede una notte di tregua, quindi fa sapere che, col sorgere del sole, scatenerà l’esercito

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senza posa, notte e giorno, fino alla conquista della città, avendo concesso ai propri soldati il diritto di saccheggiarla, una volta che l’abbiano presa, e di uccidere tutti gli abitanti superstiti senza rispettare né età, né sesso. Se invece la città si consegnasse, Bayezid II concederebbe ai superstiti la libertà di restare o di andarsene, cosa che gli assediati, dopo una lunga consultazione, decidono di fare. Bayezid II, dunque, mantiene la parola, curando inviolabilmente che nessuno riceva danno e che quanti vogliano lasciare la città possano “cavare tutte le cose loro”. Quindi, lasciata ben presidiata la città e conquistati i restanti porti principali sul Mar Nero, se ne torna ad Adrianopoli.

Ecco ciò che scrive il Cambini circa questo episodio:

 

“[…] determinò [sc. Bayezid II] seguitare come haveva dato opinione di condurla nel mare maggiore, et inviatola ad quella volta, impersona [sic] con le genti terrestri sadviò [sic] per la via della [p. 47] Burgaria alla volta del Valacho il quale habita nella parte inferiore verso il Ponto Eusino, et intrato ne’ paesi suoi scorsone, et depredato gran parte, il Signore del paese [sc. Stefano il Grande], conosciuto le forze sue non essere abbastante ad difenderlo contro a uno tanto impeto, determinò tentare se, per via dello accordo, si poteva salvar, confidatosi assai nella clementia et bontà di Baiasith, della quale per tutti li paesi vicini sendo sparta fama, haveva ripieno li animi de’ popoli ad sperare di lui bene, et mandato suoi oratori con grande segno di humiltà ad domandare la pace, et uditoli Baiasith, benignamente senza dificultà s’indusse ad concedergnene, et fatto di patto che li dovessi pagare l’anno certa quantità di danari in segno di tributo, lo ricevette nella protetione sua, et sanza soprastare, passato il Danubio et messose innanci, condusse lo essercito, sendovi in questi dì, comparita l’armata di mare, nel cospetto della terra di Moncastro, la quale è posta su lito del mare vicino alla foce dove il fiume Nester[43] mette nel mare maggiore; il luogo è molto forte di sito et di munitione artificiale, et di grandissima importanza per le commodità del paese, della fiumara et del mare, et per tutta la provincia d’intorno di grande stima et reputatione, la quale acquistò a tempi massime che Sultan Maumeth [sc. Mehmet II], il quale andatovi similmente ad campo, combattutolo per spatio d’uno mese et non l’havendo potuto espugnare, cacciato dal rigore della freddura, fu necessitato levarsene, fatto Baiasith scorrere et depredare tutta la campagna, determinò, non si movendo quelli di drento, fare advicinare l’armata di mare et ad un tratto per acqua et per terra lo circondò con la obsidione, stringendolo in modo che non vi si poteva mettere o cavare cosa alcuna, et veduto li terrazani obstinati ad volerlo difendere, preparate l’artiglierie, cominciò da più bande ad battere le mura, [p. 47v] et havendo continuato il tormentarlo per molti dì, ne haveva di già messo in terra tante che iudicava le genti sue poter intrare drento a loro posta, et però ordinato i colonnelli che nel combattere succedessimo l’uno a l’altro, la mattina seguente, come apparì l’aurora, s’appresentorono ordinate alle mura. Eransi li huomini di drento nella rovina delle mura egregiamente riparati di argini et fossi profondissimi in modo che, presentate nello intrare per la rottura le genti Turchesche, subito furono con loro alle mani, et ributtandoli con grande impeto, usando in loro difesa saetumi [sic], fuochi, dardi, et sassi, con tanto animo si portavano che, morti et feriti di quelli di fuora grande numero, più volte gli rispinsono fuora della terra, ma abbondando li inimici di huomini, facilmente si rifacevano, venuto

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nuove genti nella battaglia, non concedevano alcuno spatio di riposo alli assediati, de’ quali, sendone morti et feriti, né havendo da supplire in luogo di quelli che mancavano, diminuendo al continuo, li difensori venivano ad ricevere molto maggiore detrimento de’ pochi che perdevano che non davano di danno de’ molti che facevano morire de’ nimici. Et Baiasith havendo contenuto li suoi buono spatio del dì ad combattere, fatto sonare ad raccolta et staccato la battaglia, gli ricondusse in campo, con animo che la mattina seguente si ordinassi in modo l’essercito che, partitolo in molti colonnelli, li quali nel combattere succedessino in modo l’uno all’altro che potessino, rinfrescando al continuo nuovi colonnelli, continuare sanza intermissione la battaglia, dì et notte tanto havessino spianati ripari et consumato li difensori, et con questo proposito licenziato le genti, fe’ intendere loro che, posati la notte, l’altro giorno prima che il sole apparisse, si trovassino alli ordini loro per tornare di nuova [sic] ad combattere con animo di lasciarvi la vita o guadagnare [p. 48] la terra prima se ne staccassno, veduto i terrazzani li preparamenti de’ nimici, non mancato loro animo, non obstante conoscessino il pericolo nel quale si trovavano, sendo indeboliti molto per li feriti et morti, riparato i luoghi che ne havevano di bisogno, si prepararono con tutte le forze che restavano loro alla difesa. Venuto il dì seguente Baiasith, ricondotto tutte le genti ordinate alla terra con strepito grandissimo, di suoni et di grida et tumulto delle sue genti, le quali indubitatamente si promettevano la vittoria, si appresentarono alle mura in maniera che non restava non dare drento, Baiasith desiderando di salvare, potendo, li huomini et la terra, determinò fare pruova se, conosciuto il pericolo, potessi d’accordo indurli ad levarsi dalla obstinatione loro, et fatto cenno volere loro parlare, mandò innanci uno suo mandato ad fare loro intendere come venivano con proposito fermo di non staccare la battaglia dì et notte, fino non havessino guadagnato la terra, et se aspettavano de essere forzati, denuntiava loro come haveva conceduto la terra in preda, né perdonato, né a età né a sesso, tutti vi sarebbano drento fatti morire, ma quando si volessino dare, sarebbe per riceverli salvo l’havere et le persone, et messili in libertà, sarebbe in loro arbitrio lo stare o il partirsene; udito quelli di drento l’offerta del Signore, né veggendo via di potersi salvare, non sendo restati tanti che fussino bastanti ad difendere li ripari, presono tempo per uno piccolo spatio ad rispondere, et ristretti insieme li capi, dopo alcune dispute determinorono accettare le conditioni sute offerte, confidando massime per la buona opinione che havevano di Baiasith, che avessi ad essere osservato loro la fede, fatto la deliberatione, mandorono loro mandati ad dare la terra, et suti accettati con [p. 48v] buona gratia da Baiasith, curò inviolabilmente che non fossino dannificati in cosa alcuna, dato licentia a quelli che sene volessino partire che, sanza impedimento, ne potessino cavare tutte le cose loro, et lasciato bene guardato Moncastro, sendo assicurato di non potere da quella banda essere offeso, et havendo ridotto in potere suo tutti i liti del Mare Pontico, assicurò in modo quello che contro alla volontà sua non vi si poteva navigare, havendo in mano tutti li porti et le foci delle fiumare che in quello mettono, et espedito l’impresa, dato volta adrieto, ricondusse l’essercito in Romania, dove distribuitolo alle stanze, si fermò con la corte in Andrinopoli”[44].

 

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Qui si conclude ogni accenno del Cambini alla Moldavia di Stefano il Grande, e assai spazio è concesso alla presa dell’ex colonia genovese di Moncastro, ossia ad un episodio attinente soprattutto alle gesta di Bayezid II. Ma anche ammettendo la scarsa dimestichezza dello scrittore fiorentino con la Moldavia ed il fatto che egli si occupa essenzialmente di storia ottomana, per motivare quella che in modo provocatorio abbiamo chiamato la “censura” del Cambini reputiamo che, da un lato, data anche la fede ortodossa di Stefano il Grande, detto talvolta nelle fonti occidentali “scismatico” o “greco”, giochi un ruolo fondamentale, in questo caso come in altri, la volontà di mettere in primo piano le gesta del re d’Ungheria, Mattia Corvino, oppure il ruolo svolto dai governanti della Polonia o dell’Albania. D’altro canto, è possibile che il Cambini abbia scritto la sua opera, almeno per quanto riguarda la parte in cui sono inclusi gli episodi moldavi[45], al tempo in cui era uomo politico di primo piano e ben informato nella Firenze di Lorenzo de’ Medici (probabilmente nel periodo delle sue prime missioni diplomatiche, a partire dal 1482), e che dunque abbia avuto ben presenti, scrivendo, le alleanze strette dalla città in quel periodo. Ovvero si può ipotizzare che, almeno per quelle parti, il punto di vista politico del “prudens moderatusque” Cambini, a causa del materiale e delle fonti di ogni genere da lui usate per compilare il suo Commentario, risentisse anche in seguito, quando visse ritirato dalla vita pubblica (1498-1527), del contenzioso internazionale tipico degli anni in cui, a Firenze, si tentava una difficile gestazione, e poi gestione, dell’asse politico con Napoli e Milano.

Sebbene, già dopo la morte di Filippo Maria Visconti, duca di Milano (agosto 1447)[46], fosse evidente che il pericolo principale, anche per Firenze, era rappresentato

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dalla politica espansionistica della Repubblica veneziana, e perciò Cosimo de’ Medici, da un lato, appoggiò Francesco Sforza, dall’altro, rinunciò ad ingerirsi nella crisi della successione napoletana, la politica di strutturazione della triplice Firenze–Milano–Napoli registrò forti contrasti nella città toscana perfino da parte dell’oligarchia filo-medicea, sia con Cosimo (fino al 1464), sia negli anni in cui si trovò al potere Piero il Gottoso (fino al 1469), padre di Lorenzo. Del resto, la stessa storia della penisola italiana, negli anni fra il 1454 e il 1494, mostra che la Lega italica, istituita dopo la pace di Lodi (1454), non servì allo scopo, né quando Ferdinando d’Aragona dovette affrontare la guerra contro Giovanni d’Angiò[47], conclusasi vittoriosamente per Ferdinando, dopo alterne vicende, con la battaglia di Troia in Puglia (1462), né quando Pio II emanò la bolla Vocavit me e bandì la crociata nella dieta di Mantova (1459), né quando Firenze si trovò contrapposta a Sisto IV in seguito alla congiura dei Pazzi (1478), né quando Mehmet II attaccò Otranto (1480). E da questo punto di vista non funzionò neppure l’asse politico fra Firenze, Milano e Napoli, se non nel senso di preservare il territorio italiano da ogni tentativo espansionistico di Venezia, oltre che il Regno di Napoli dalle pretese angioine.

Comunque, dopo la congiura dei Pazzi, Lorenzo si trovò isolato rispetto alle potenze italiane che si erano alleate nella crociata contro gli Ottomani voluta da Pio II, ossia il Papato, Venezia e il re di Napoli, cui, naturalmente, si aggiungevano l’Ungheria e la stessa Moldavia. Il pontefice aveva appoggiato la congiura e Ferdinando scese in campo contro Firenze, mentre a Milano, alla fine del 1479, era prevalso con l’aiuto aragonese Ludovico il Moro. Ma Lorenzo, con abile mossa, risolse la crisi nel 1480 accordandosi con Ferdinando; ed infatti la supremazia dei Medici, da Cosimo a Lorenzo, si era basata e si basava principalmente sulle amicizie e sulle relazioni che essi sapevano intrattenere con i principi italiani. Ed in genere fu l’appoggio di Milano ad essere, anche per Lorenzo, di vitale importanza. Ad ogni modo il prestigio del Magnifico si accrebbe notevolmente a Firenze a seguito dei successi diplomatici da lui conseguiti e soprattutto, in questo frangente, per come egli risolse la crisi scoppiata dopo la congiura dei Pazzi[48]. D’altro canto gli stati coalizzati nella crociata antiottomana non erano certo solidali fra loro, né quelli italiani, come già si è visto, né quelli stranieri. Lorenzo, da parte sua, come testimonia

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anche Theodoro Spandugino Cantacuzeno, intratteneva buoni rapporti sia con Mehmet II[49], sia con l’Ungheria, la quale, pur aderendo alla crociata come Stefano il Grande, spesso si trovava in contrasto con la Moldavia[50].

Quanto poi a Mattia Corvino e ai sui rapporti con la potenze italiane, il re ungherese, dopo la morte di Caterina Podebrady, essendosi risposato il 22 dicembre 1474 con Beatrice d’Aragona, figlia di Ferdinando, si trovò allineato alla politica del re di Napoli

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e dalla parte di Sisto IV; quindi, attraverso gli Aragonesi, venne in contatto con altre città dell’Italia, ad esempio la Ferrara degli Estensi. L’esercito di Mattia portò aiuto al suocero durante l’assedio di Otranto e poi negli anni 1486 e 1488 contro il papa Innocenzo VIII[51] e contro Venezia, giacché l’alleanza nata nel 1480 fra Firenze, Milano e Napoli aveva avviato trattative anche con l’Ungheria, per ottenere l’appoggio di Mattia contro il pontefice e la Serenissima. In precedenza, il re ungherese aveva sempre mantenuto buoni rapporti con la Santa Sede, sfruttando al meglio il desiderio dei Papi di intraprendere la lotta contro gli Ottomani, e dopo il fallimento dell’imperatore Federico III[52] fu Mattia ad essere ritenuto il defensor ecclesiae. Ma Innocenzo VIII non volle accontentare il re ungherese nella sua pretesa di impossessarsi di Ğem, lo sconfitto fratello di Bayezid II. Ğem, con l’aiuto di Venezia, la quale temeva che Mattia potesse servirsene, prima finì nelle mani del re di Francia, Carlo VIII[53], poi fu riconsegnato al pontefice. Ma un motivo di screzio fra Mattia e Innocenzo fu anche il caso del porto di Ancona, città che vide nel re ungherese un mezzo per emanciparsi dal controllo politico dello stato pontificio e da quello commerciale di Venezia.

Inizialmente i rapporti con Venezia erano stati per Mattia strettissimi, a causa della comune lotta contro gli Ottomani e contro l’imperatore Federico. Infatti, nel 1463, Venezia e il re ungherese avevano attaccato gli Ottomani contemporaneamente, la prima nel Peloponneso, il secondo in Bosnia; ma proprio i successi di Mattia in Bosnia furono motivo dei primi screzi: Venezia temeva di perdere la Dalmazia e la situazione peggiorò quando, intervenendo nella lotta di successione della famiglia Frangipane[54], Mattia occupò il porto di Zengg, di cui Venezia richiese la restituzione. Inoltre, nel 1474, il matrimonio con Beatrice d’Aragona rese Mattia ancor più pericoloso agli occhi dei veneziani. Altri dissapori sorsero, sempre a causa dei Frangipane, nel caso dell’isola di Veglia, quando Giovanni Frangipane chiese, nel 1479, l’aiuto dei veneziani contro le truppe ungheresi di Biago Magyar; inoltre Mattia fu messo in seria difficoltà a causa del trattato di pace ottomano-veneziano, a seguito del quale Mehmet II, nell’ottobre dello stesso anno, fu libero di invadere con le sue truppe i territori ungheresi. Ma, nonostante i dissapori con la Serenissima e la parentela col re di Napoli, Mattia non volle aderire alla lega contro il pontefice e Venezia, e nel 1482, quando Venezia attaccò Ferrara, fu sordo alle richieste del re di Napoli. In realtà la politica di Mattia Corvino era essenzialmente orientata in

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direzione dell’imperatore Federico, e gli aiuti che egli cercava in Italia, presso Napoli e Milano, erano volti in questa direzione[55].

Se dunque tiriamo le fila del quadro fin qui delineato, ci pare di poter sostenere che la politica di Firenze, con la continuità espressa nel frustrare le mire espansionistiche di Venezia, almeno fin dai tempi di Cosimo, ma soprattutto a seguito dei rapporti intessuti da Lorenzo dopo la congiura dei Pazzi e per il consolidamento dell’asse Firenze–Milano–Napoli, abbia influenzato il Cambini, fiero sostenitore del Magnifico e della sua politica negli anni 1480-1492, per la composizione dell’opera storiografica sugli Ottomani e fors’anche nella scelta di un simile soggetto. Ed inoltre riteniamo che in quest’ottica, sul grande sfondo delle lotte fra Venezia, Mattia Corvino e gli Ottomani, il punto di vista adottato dal Cambini penalizzasse chi si trovava in disaccordo col re d’Ungheria, ossia quello Stefano il Grande di Moldavia che negli anni ottanta del XV secolo, dopo la presa di Chilia e Città Bianca da parte di Bayezid II (1484), tentò di riconquistarle con l’aiuto del re polacco Casimiro, e che si riavvicinò all’Ungheria solo con l’inasprirsi della rivalità polacco-magiara e soprattutto, ormai dopo la morte di Mattia, a seguito della guerra che la Moldavia dovette affrontare contro Giovanni Alberto, successore di Casimiro[56].

Ma proviamo a prendere in considerazione un’altra fonte, l’opera di Theodoro Spandugino Cantacuzeno[57], il quale cita, in modo succinto, almeno una vittoria di Stefano

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il Grande, da lui chiamato Valacco o Carabogdano[58], e meglio delinea le ultime fasi della vicenda politico-militare del principe moldavo, soprattutto nei rapporti intrattenuti con la Polonia di Giovanni Alberto.

Ed iniziamo, anche in questo caso, con una breve presentazione dell’autore.

 

3. Breve profilo biografico di Theodoro Spandugino Cantacuzeno

La famiglia greca Spandounis, per quanto di origini molto antiche, è menzionata per la prima volta nel corso del XV secolo, periodo in cui esprime letterati e personaggi di rilievo dediti ad attività politiche e militari. Il nostro Theodoro, figlio di Matteo Spandounis, risulta imparentato con le famiglie dei Diplovatacis, dei Lascaris[59] e dei Paleologi. Può vantare, inoltre, sia la discendenza dalla famiglia dell’imperatore Giovanni Cantacuzeno[60], che la parentela con la stessa famiglia imperiale degli Asburgo e con i principi di Serbia e Bosnia.

Theodoro stesso si dice fanciullo intorno al 1465[61]. Dieci anni dopo la madre Eudocia, figlia di un Theodoro Cantacuzeno omonimo del nostro, si stabilì a Venezia con

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la parente Anna Notaras[62], figlia del celebre ammiraglio Loucas, promessa per un certo periodo all’imperatore Costantino XIII Paleologo[63] e nipote di Demetrio Cantacuzeno, figlio dell’imperatore Giovanni. Anna, come tanti altri fuoriusciti greci, era giunta in Italia dopo la caduta di Costantinopoli e dallo stesso anno 1475 risiedeva a Venezia provenendo con Eudocia da Roma. Negli anni 1472-1475, aveva tentato un accordo con la Repubblica di Siena per ottenere in concessione il castello di Montacuto, in quella Toscana in cui, come a Venezia, trovavano rifugio molti altri greci scampati all’invasione ottomana. Con decreto del 18 giugno 1475, nel quale per la prima volta Eudocia è detta moglie di Matteo: “[…] domine Eudochie Cantacusini, uxoris egregii viri Mathei Spandonini […]”, il Consiglio dei Dieci concesse eccezionalmente, ad Anna ed Eudocia, il permesso di celebrare messa in lingua greca nella loro casa, a condizione che altri greci non assistessero al rito. Il privilegio venne poi prorogato negli anni 1480 e 1489[64]. Ai finanziamenti e al favore delle due donne si deve anche la fondazione della prima stamperia greca a Venezia, per merito del cretese Marco Musuro, la cui prima prova, l’Etymologikon mega[65], venne dedicata proprio ad Anna. Le due donne, inoltre, tenevano rapporti, anche proficui per la diplomazia veneziana, con i parenti stabiliti presso la corte ottomana, ed è probabile che in queste occasioni facessero da intermediari proprio Matteo ed il figlio Theodoro. Questo stesso, nella sua opera, ci ha lasciato notizie su Irene Cantacuzeno, moglie di Giorgio Brankoviæ, despota di Serbia, e sorella di Giorgio Paleologo Cantacuzeno († 1459), che si era distinto al servizio dell’ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino Paleologo, e che fu bisnonno di Theodoro per parte di madre[66]. Irene e Giorgio di Serbia ebbero due figlie, Caterina e Maria, quest’ultima andata in sposa al sultano Murad II (1421-1451). È dunque probabile che Matteo godesse della protezione della sultana quando, nel 1465, visitò Gallipoli col figlio Theodoro, che in questa occasione poté vedere con i propri occhi, ancora

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fanciullo, i prigionieri peloponnesiaci catturati a seguito del disastro di Kalàmata[67]. È probabile anche che Theodoro apprendesse dalla zia sultana i primi rudimenti della lingua turca e le tante notizie relative a Mehmet II. A Maria, Mehmet aveva assicurato nel 1458 il possesso del monastero di S. Sophia a Tessaloniki, città nella quale era assai in vista un uomo d’affari della famiglia Spandounes, Loukas († 1481); per cui è probabile che anche Matteo Spandounes e poi suo figlio Theodoro avessero proprietà e interessi da amministrare in quella città[68]. Insieme con Maria era alla corte ottomana anche la sorella Caterina, vedova di Ulrico, conte di Cilli[69] e fratello dell’imperatore Federico III[70]. Nel 1472, Caterina si servì del giovane Theodoro per una missione presso la Repubblica veneziana circa l’acquisizione della fortezza di Belgrado nel Friuli. Il 9 dicembre 1488, la suddetta fortezza risulta ceduta da Caterina a Matteo Spandounis e ai suoi eredi: “Matheo Spandonino equiti et comiti palatino, ob amorem nepotis sue [sc. Eudocia, nipote di Caterina], uxoris dicti Mathei[71]. La donazione di Belgrado si ebbe certamente col permesso di Federico III d’Asburgo. Matteo, infatti, dopo essere stato uno dei cavalieri greci detti a Venezia stradioti, si era posto al servizio dell’imperatore e per i suoi meriti aveva ottenuto nel 1454 il titolo di cavaliere e conte palatino, con un feudo in Grecia, in partibus infidelium, non lontano da Naupatto, in cui erano incluse la città di Loidoriki e l’isola di Trizonia

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(della Tridogna, come la chiama Theodoro)[72]. Questa probabilmente era la zona d’origine della famiglia Spandounes, giacché l’isola veniva anche detta Spandonìsi (Σπανδωνησι) e il distretto, dal 1446, aveva preso il nome di Cantacuzinopolis. Matteo morì nel 1511 lasciando due figli, Theodoro ed Alessandro, ed una figlia andata in moglie a Michele Trevisan[73].

Prima del 1499 e dell’inizio della guerra intrapresa da Bayezid II contro Venezia, Theodoro si trovava certamente in Occidente. Tuttavia, dopo la pace del 1502, egli stesso ci informa[74] di essere tornato a Costantinopoli per sostenere la domanda d’indennità presentata dal fratello Alessandro, morto dopo essere andato incontro ad un tracollo finanziario. A seguito di questi fatti, Theodoro decise di dedicarsi alla composizione della sua opera storiografica, parte della quale è andata perduta. Mentre componeva, il nostro Theodoro aveva sotto gli occhi i libri di Leonico Calcocondila, da lui citati: “Laonico Atheniense, che fu secretario di Amorath II [Mourad II]”[75]; libri che trattano degli anni 1298-1463, con digressioni che giungono fino al periodo 1484-1487. Mentre, per quanto riguarda la storia di Critobulo, il Sathas la ritiene una fonte determinante, ma il Nicol le nega questo ruolo. Di altre fonti greche riguardanti la caduta di Costantinopoli (1453) e il regno di Mehmet II non vi è traccia, secondo il Nicol, anche se il Cantacuzeno a nostro avviso avrebbe potuto tener presente, oltre a Critobulo, anche Giorgio Sphrantzes, almeno per l’episodio del fiorentino Bernardo Bandini[76]. Tuttavia, oltre alle testimonianze dirette,

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orali o scritte, sue e dei suoi familiari, il Cantacuzeno più volte, e fin dall’incipit della sua opera: “Havendo io con ogni diligentia et sollecitudine fatto cercare li hystoriographi de Turchi che trattano della origine dela potentissima casa de Ottomani […]”, si appella anche agli hystoriographi e scrittori turchi o hystorie e annali de Turchi[77], ma non possiamo stabilire se abbia letto gli annalisti turchi oggi sopravvissuti: Mehmet Neshri, Tursun Beg e Ibn Kemal[78]. Per quanto riguarda le precedenti storie degli Ottomani già prodotte in Italia, il Nicol si sofferma soprattutto su quelle di Nicola Sagundino e Gian Maria Angiolello[79]. Da questi autori, però, non è possibile stabilire una dipendenza del Cantacuzeno, ed inoltre, per quanto riguarda il Sagundino, avendo egli scritto la sua opera nel 1456, è inutile ricercarvi un qualsiasi accenno a Stefano il Grande. L’opera dell’Angiolello, invece, che non fu inclusa dal Sansovino nella sua Historia, risulta di grande interesse per la storia della Moldavia, giacché l’autore partecipò alla campagna ottomana del 1476 contro Stefano il Grande. Dalle eventuali fonti del Cantacuzeno il Nicol esclude Paolo Giovio, che cominciò a pubblicare a Roma dal 1531, per quanto non neghi che il Cantacuzeno avrebbe avuto il tempo di conoscere l’opera del vescovo di Nocera, mentre non fa parola del Cambini. Circa le fonti usate da quest’ultimo autore, che, per inciso, potrebbe aver composto parti della sua opera già qualche anno prima del 1498 e del ritiro dalla vita pubblica, non si possono escludere in generale le opere sugli Ottomani prodotte in Italia prima di lui, mentre riteniamo che vadano escluse senz’altro le fonti

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turche e greche che, forse, il Cantacuzeno ebbe sotto gli occhi[80]. Tornando al Cantacuzeno, l’unico autore italiano di cui egli faccia espressa menzione è Marino Scodrense, ossia Marinus Barletius, che scrisse una vita di Skanderbeg e un resoconto dell’assedio di Scutari del 1474[81]. Infine il Nicol include nel novero delle possibili fonti del Cantacuzeno: Costantino Mihailoviæ di Ostroviça, Giorgio di Ungheria e Felix Petanèiæ[82].

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Fino al 1509, Theodoro Cantacuzeno risedette a Venezia per occuparsi della liquidazione dell’impresa commerciale del fratello. In quell’anno poi, a detta del Sanudo, si trovò esposto all’ira del Consiglio dei Dieci. Dopo il trattato di Cambrai, infatti, nonostante il divieto di tenere relazioni col personale dell’ambasciata francese, Theodoro aveva commesso l’imprudenza di continuare i rapporti con Giano Lascaris, suo parente ed amico, che era stato nominato nel 1507, per la seconda volta, ambasciatore di re Luigi XII presso la Serenissima Repubblica di Venezia[83]. Per questi motivi Theodoro, il 25 aprile 1509, fu condannato alla deportazione nella fortezza di Arbe in Dalmazia (oggi Rab, in territorio croato), pena commutata più tardi nell’esilio. In questa occasione è probabile che il nostro autore si recasse in Francia, dove, su presentazione del Lascaris, avrebbe potuto facilmente introdursi a corte[84]. Dopo la Francia, Theodoro si trasferì a Roma aderendo, come altri greci, al progetto della crociata voluta da Leone X. Quindi, dopo un altro breve soggiorno in Francia, nel 1516 fu di nuovo a Venezia, in compagnia dell’ambasciatore francese De la Vernéde, con lettere di Luigi per reclamare il castello di Belgrado, allora ambìto dai veneziani[85]. Da Venezia, dove non sappiamo quale fosse la risposta del Consiglio dei Dieci, ma possiamo bene immaginarcela, Theodoro tornò a Roma per sostenere il piano di Giano Lascaris e la crociata contro gli Ottomani. Tuttavia l’avvento di Adriano VI[86] mandò in fumo il progetto e le speranze dei fuoriusciti greci, per cui pare che Theodoro prendesse la via di Vienna per trovare, in quella corte, chi potesse aiutarlo a recuperare il castello di Belgrado. La descrizione dettagliata della battaglia di Mohács (1526) fa ritenere al Sathas[87] che il nostro Theodoro ne sia stato testimone oculare, se non addirittura impegnato in prima persona nelle operazioni, così come potrebbe essere accaduto nel caso dell’assedio di Vienna (1532). Dopo il 1538 si perdono le tracce del nostro scrittore, ma dal Sanudo[88] sappiamo che Manuele, figlio di Alessandro, si stabilì definitivamente a Costantinopoli, dove la dinastia degli Spandounis si è perpetuata fino ai giorni nostri.

Per la sua opera, Theodoro attese a più redazioni[89]. Ma, a tutt’oggi, non esiste uno studio che analizzi la storia della tradizione del testo di cui ci stiamo interessando. Al momento si può solo dire che, dell’opera del Cantacuzeno, una prima redazione è quella conservata nel manoscritto Italiano H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier (sezione medicina): una sorta di “promemoria” dedicato, poco dopo il 1513, al pontefice Leone X. In questa occasione un secondo esemplare fu inviato dal Cantacuzeno a Gian Matteo Giberti, poi segretario di Clemente VII[90] e vescovo di Verona (1524). Un’altra

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redazione, al momento la più lunga e la più completa, costituisce un chiaro ed ampio sviluppo dei brevi cenni contenuti nella versione presentata a Leone X. Questa seconda redazione è quella pubblicata dal Sathas e pervenuta nel codice della Biblioteca Nazionale di Parigi (fonds italien 881): l’esemplare stesso offerto nel 1538 ad Enrico II, allora Delfino di Francia[91]. Dell’opera del Cantacuzeno si ebbero anche traduzioni in francese riscontrabili in quattro manoscritti: uno della Biblioteca del Museo Condé a Chantilly (XIV H 36), intitolato: Petit Traité de Theodore […] Cantacuzin, Constantinpolitain, de l’origine des princes ou empereurs des Turcz, ordre de leur court et coustumes de la Nation e datato probabilmente al 1512-1515, e tre della Biblioteca Nazionale di Parigi (fonds français 5588, 5640, 14681). La traduzione fu effettuata nel 1519, almeno per il primo ed il terzo manoscritto parigino, dal signor Balarin de Raconis per Galiot de Genouillac, gran maestro dell’artiglieria, e reca la dedica a Luigi XII[92]. Dedica da cui apprendiamo che l’originale italiano fu offerto al re dallo stesso Theodoro, giunto in Francia dopo l’esilio comminatogli a Venezia nel 1509[93]. Infine, nella versione stampata nell’Historia di F. Sansovino, Theodoro afferma di aver aggiunto alla sua opera storiografica, su invito del Card. Farnese[94] a Roma, una parte relativa alle guerre condotte da Šāh Ismā‛īl contro gli Ottomani: a mia conoscenza, il solo cod. Parigino fonds italien 881 del 1538 presenta,

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ai ff. 165-177 (in C. N. Sathas, op. cit., pp. 252-260), una terza parte dedicata a “Sach Ismael e Sach Tamas suo figliolo, vulgarmente nomati Sophi”[95].

La redazione servita di base alle due edizioni a stampa, di Lucca e di Firenze già citate, è probabilmente intermedia fra quella primitiva, offerta a Leone X, e quella parigina del 1538, per quanto, nello sviluppo dell’opera, le due edizioni a stampa siano assai più vicine alla seconda. Tuttavia l’edizione a stampa di Firenze, benché testimoni la medesima redazione seguita dall’edizione di Lucca, se ne discosta tanto da costituire una revisione profonda dell’opera dal punto di vista della lingua e dello stile, non senza implicazioni per il contenuto, come vedremo in seguito; mentre, come si è detto, l’edizione lucchese, ponendosi in una fase redazionale che manca delle stesse parti dell’edizione fiorentina, si avvicina già a quella che sarà la lettera della redazione più completa, testimoniata dal codice parigino del 1538. Pertanto è lecito dire che l’edizione di Lucca conserva più di quella fiorentina il testo composto in questa fase dall’autore, e che dunque qualcuno, a Firenze, è intervenuto pesantemente, su un testo simile a quello lucchese, al fine di rimediare alle mancanze del Cantacuzeno in fatto di stile[96]. Le tre edizioni a stampa, comunque, compresa quella del Sansovino, vennero alla luce dopo la morte di Theodoro e mostrano in generale assai scarsa attenzione, mentre il codice di Parigi fonds italien 881, pubblicato dal Sathas, oltre ad offrire alcune parti sconosciute alle edizioni a stampa, permette rispetto ad esse correzioni di errori grossolani e getta luce sulle opere del Cantacuzeno ritenute in passato anonime[97].

 

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4. Stefano il Grande nell’opera di Theodoro Spandugino Cantacuzeno

Il Cantacuzeno, nel Primo libro della sua opera, dopo aver trattato della conquista della Bosnia da parte degli Ottomani e dell’assedio di Belgrado, che si concluse con la rotta dell’esercito turco e col ferimento dello stesso Mehmet II (1463-1464)[98], passa a trattare della campagna che questi intraprese nel 1465 contro la Valacchia e la Moldavia:

 

“[…] Non perterrito però per questo Mehemet [sc. Mehmet II], lo anno seguente, andò a campo alle fortissime città del Carabogdan, cioè Chieli et Moncastro, et [f. 37] non possendole ottenere lassò lo assedio, perché el Carabogdan se li fece tributario, et similmente el signor dell’altra Valacchia[99] tolse a pagare più del doppio che non pagava Carabogdan, et si obligò anchora andar a basciare lo pede dello imperatore Turco ogni duoi [sic] anni, una volta personalmente, et tener el più parente propinguo [sic] per stagio [sic] in la corte del ditto signor Turco. Carabogdan sempre fu in grande esistimatione [sic] apresso li Turchi, et questo

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perché andando Mehemet a metter el campo a Chieli et Moncastro, bastò l’animo a Carabogdan con manco di XX milia combattanti [sic] ad assaltare avanti giorno lo esercito di Turchi, ove personalmente si trovava lo imperator Mehemet; nel qual esercito fece uno incredibile macello de’ Turchi, et sopravenendo lo giorno, benché havesse vittoria, per esser tanta infinità di Turchi, non possendo sostenere tanto impeto, si mise in fuga et salvossi con la maggior parte delli suoi. Questo ha grande exemptione [sic] imperoché non è tenuto dar ostaggi, né andare personalmente a basare [sic] il piedi [sic] dello imperator de’ Turchi”[100].

 

Dal confronto fra il testo dell’opera conservato nel cod. Parigino fonds italien 881, le due edizioni a stampa e la prima redazione dedicata a Leone X, emergono elementi interessanti. Innanzitutto, il primo accenno del codice parigino alle città di Chilia e Moncastro (Città Bianca) (il medesimo nell’edizione lucchese con lievissime differenze): “Non perterrito però per questo Mehemet, lo anno seguente, andò a campo alle fortissime città del Carabogdan, cioè Chieli et Moncastro, et non possendole ottenere lassò lo assedio, perché el Carabogdan se li fece tributario”, nell’edizione fiorentina non compare, ma trova luogo una versione più generica ed imperfetta: “Né per questo Maometto si spaventò punto, anzi fatto più coraggioso, l’anno seguente se n’andò all’assedio della fortissima città del Carabogdano, la qual prendendo la fece tributaria”, in cui non si menziona il fallimento del sultano nell’assedio delle due città ed è, addirittura, la capitale stessa della Moldavia ad essere espugnata dall’esercito ottomano. Tale rielaborazione, dovuta forse ad esigenze ideologiche, di semplificazione o di altro genere, fra cui si notano anche miglioramenti

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stilistici, non mi pare dovuta alla mano del Cantacuzeno, come dimostra il confronto, oltre che con l’edizione di Lucca, anche con la prima redazione dell’opera, che riporta nel manoscritto di Montpellier: “[Mehmet II] Fo a campo in persona a Cheli et Moncastro, terre del principe de Valacchia, quale non potendo expugnar abbandonò l’impresa”, in cui il fallimento di Mehmet II è menzionato. Tale rielaborazione, quindi, è da ritenere successiva alla morte del Cantacuzeno, ossia imputabile a chi in Toscana elaborò il testo dell’edizione a stampa, evidentemente il piacentino Ludovico Domenichi: almeno per l’edizione fiorentina, nella quale traspaiono tutte quelle caratteristiche che hanno segnato la vita e l’attività di questo personaggio. Il Domenichi infatti fu poligrafo, traduttore ed autore di revisioni linguistiche, ma anche plagiario e spregiudicato rifacitore di opere altrui, tanto che il fiorentino Anton Francesco Doni, in precedenza suo amico, ne criticò poi acerbamente: “l’arroganza di metter mano nelle opere dei Dotti, a titolo di volerle rassettare, correggere, accrescere e minuire […] senza vergognarsi”[101]. Fu il Domenichi che probabilmente, come aveva fatto nel caso del Boiardo o del Firenzuola, si ritenne in diritto, forse partendo dal testo dell’edizione di Lucca, forse in accordo col Busdraghi, di porre rimedio alle insufficienze di un’opera i cui limiti linguistici erano già presenti all’autore, stando almeno a ciò che il Cantacuzeno stesso scrive nel congedare la redazione del 1538, proprio all’ultimo capoverso: “Et perché qualcuno vederà l’opera mia fallare in ortographia, dico […] non esser mia profession il scriver, né componer, Vostra Serenità [sc. Enrico, Delfino di Francia] veda il senso naturalmente della cosa star bene, et io […] haver descritto le cose essentiale […]”. Grazie ad episodi come questo, e ne vedremo altri in seguito, lo studioso che si limiti a consultare le edizioni a stampa dell’opera del Cantacuzeno, di solito quella fiorentina del 1551, essendo quella di Lucca più rara, deve fare i conti con diffusi fraintendimentti e con la mancanza di parti non ancora composte dall’autore; ma, soprattutto, soggiace ad una percezione distorta del modo in cui lo storico greco ha trattato i meriti di Mehmet II ed attribuisce al Cantacuzeno, oppure la esagera, una magnificazione tendenziosa che forse, in parte, è dovuta a chi, dopo la morte dell’autore, curò il testo a stampa[102].

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In ogni caso, tornando al passo dedicato ai primi scontri fra Stefano il Grande e Mehmet II, è possibile che il Cantacuzeno concentri nella redazione del 1538, come

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spesso fa, episodi svoltisi in più anni e riguardanti il tema generale dei rapporti fra la Moldavia e l’Impero Ottomano; e lo dimostra l’accenno in forma di “promemoria” inserito dall’autore nella prima redazione e poi sviluppato nelle redazioni successive: “[Mehmet II] poi che fece più guerre con Carabogdan principe de la Inferiore Valacchia: tandem lo fece tributario sì esso come lo principe de l’altra Valacchia”. Perciò ritengo che il Cantacuzeno abbia colto l’occasione di inserire, nelle redazioni successive, un’allusione alla più celebre vittoria di Stefano, quella di Vaslui (1475), giungendo a sovrapporre in quest’unico passo della redazione del 1538 due tentativi distinti, compiuti da Bayezid II, di conquistare Chilia e Città Bianca: quello del 1465, poco dopo la sottomissione della Valacchia, e quello del 1475, andati ambedue a vuoto; ma il secondo caso rientrerebbe nel piano più vasto concepito dagli Ottomani di spingersi fino in Crimea per conquistare Caffa, stringendola a tenaglia dalla terra e dal mare. Seguono, fra gli avvenimenti più importanti citati dal Cantacuzeno, l’alleanza fra Venezia e i Turcomanni di Uzun Hasan, che finirà sconfitto dall’esercito ottomano (Otluk Beli, presso Erzurum, 11 agosto 1472), l’assedio di Rodi da parte di Messit[103], della famiglia dei Paleologi, col soccorso

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all’isola portato dalla Francia, la guerra in Albania e il ruolo svolto da Skanderbeg († 1468)[104].

Quindi, nelle pagine seguenti, il Cantacuzeno accenna una seconda volta alla Moldavia di Stefano il Grande:

 

“È da sapere che subito che questo Baiazit [Bayezid II] hebbe cacciato et rotto il fratello [sc. Ğem], mosse guerra a Carabogdan, prencipe di Valacchia, et tolse Cheli et Moncastro, terre fortissime, alle quale [sic] Mehemet suo padre era stato a campo et non le havea possute ottenere, et per tal impresa, vittoria et expugnatione dé grandissimo timore universalmente a tutti li christiani. Questo Baiasit [sic] mosse anchora guerra al Soldano, et appresso de Addena et di Tarso[105] hebbe detto Baiasit in tre anni tre grandissime rotte, in lequale [sic] secondo vien existimato, furono morto più di cento venti mila Turchi. Et da poi essendo altercatione tra il re di Polonia et Carabogdan, facilmente detto Carabogdan dette il passo alli Turchi. Parvi che li [p. 172] peccati di Christiani stroppava [sic] li occhi alli principi di Christiani, che quando haveano differentia et guerra tra loro, sempre una delle parte [sic] conduceva uno della casa de’ Ottomani per prevalersi contra lo inimico loro, et non si avedeano i poveretti che questa era la ruina loro manifesta; e par’ che i cieli dal principio che questa casa de’ Ottomani cominciò a signoreggiare alli Turchi infino al giorno presente, per via di qualche discordia de’ principi christiani li ha di continuo esaltati et ampliati.

Baiasit adunque mandò uno capitano nomato Marco Zogli[106] [sic] con grande essercito, et massimamente de’ Achinzi[107], et corse per la Polonia [sc. i territori moldavi

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al confine con la Polonia], et trovandola improvista, menorolo [sic] fuori di quella da quaranta milia cristiani prigioni, et puoi l’anno seguente essendosi pacificati il re di Polonia et il principe di Valacchia Carabogdan, Baiasit mandò un’altra volta Marco Zogli con ben venti milia Achinzi, ma essendo avisati li Polachi si trassero alle terre più forte [sic] con le vittoarie [sic], immodoché entrando li Turchi dentro et non trovando che mangiar, discorrendo per la campagna per fame et freddo grandissimo che in quel tempo era, quasi [f. 48] tutti quelli Turchi morirono. Occupò di poi Baiasit il stato del signor Vlatheo, figliolo del duca di San Saba [Vlatko, secondogenito di Stjepan Vukèiæ (1435-1466)], qual Vlatheo morì poi nella città di Arbe in Dalmatia, come di sopra dissi”[108].

 

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Il Cantacuzeno, dunque, dopo aver trattato delle lotte fra Bayezid II ed il fratello Ğem, che abbiamo già menzionato e che si conclusero nel 1482, allude alla presa delle città di Chilia e Città Bianca (1484), cui il Cambini dedica largo spazio. Incidentalmente, poi, lo scrittore greco accenna alle campagne intraprese da Bayezid II sui confini orientali dell’Impero. Quindi, come in precedenza, coglie l’occasione di svolgere nel contempo episodi riguardanti un medesimo argomento, cioè i rapporti fra la Moldavia e l’Impero Ottomano, che però si sono svolti in un arco più ampio di anni; passa perciò a trattare dei contrasti sorti nel 1497 fra la Moldavia e il re di Polonia, Giovanni Alberto, a seguito dei quali Stefano il Grande concesse agli Ottomani il passaggio attraverso il suo paese, di modo che Bayezid II potesse mettere a ferro e fuoco il territorio polacco (1497-1498). In quest’occasione, Stefano si riavvicinò all’Ungheria e rinsaldò i rapporti con il granduca di Mosca Ivan III e con il khan dei Tartari di Crimea, Mengli Ghirai (1469-1475 e 1478-1515). L’anno seguente, ossia 1498-1499, avendo Stefano conseguita la pace con la Polonia, Bayezid II inviò nuovamente l’esercito in Moldavia non trovandovi resistenza, dal momento che i moldavi si erano ritirati in fortezze inaccessibili.

Anche in questo passo, comunque, il confronto fra le tre redazioni, quella testimoniata dal cod. Parigino fonds italien 881, pubblicato dal Sathas, quella servita di base alle due edizioni a stampa, e quella inviata nella primitiva forma a Leone X, autorizza interessanti osservazioni. Ad esempio, in questo punto il Cantacuzeno (e le tre redazioni concordano) conferma il fallimento di Mehmet II nell’assedio delle città di Chilia e Città Bianca, fallimento sul quale l’edizione a stampa fiorentina in precedenza aveva sorvolato, forse per eliminare una ripetizione. Quindi, dopo il fraintendimento mostrato dall’edizione fiorentina: “appresso a Dolina et a Tarso” per la lezione corretta di tutti gli altri testimoni (AddenaTarso), in entrambe le edizioni a stampa e nella prima redazione manca il passo cui il Cantacuzeno, nel manoscritto offerto al futuro re di Francia, affida le sue riflessioni circa le discordie degli stati cristiani e i vantaggi che questi accordano all’espansione dell’Impero Ottomano, ossia: “Parvi che li peccati di Christiani stroppava li occhi alli principi di Christiani, che quando haveano differentia et guerra tra loro, sempre una delle parte conduceva uno della casa de’ Ottomani per prevalersi contra lo inimico loro, et non si avedeano i poveretti che questa era la ruina loro manifesta; e par’ che i cieli dal principio che questa casa de’ Ottomani cominciò a signoreggiare alli Turchi infino al giorno presente, per via di qualche discordia de’ principi christiani li ha di continuo esaltati et ampliati”. Un’omissione che potrebbe essersi verificata per volontà di chi ha elaborato l’edizione a stampa, e non solamente per semplificare o abbellire il testo; oppure, più verosimilmente, un’aggiunta inserita dal Cantacuzeno in seguito, forse al momento di offrire il suo esemplare al Delfino di Francia, come dimostrerebbe la mancanza di quel passo nella prima redazione e nell’edizione a stampa di Lucca. Ad ogni modo, è interessante notare, qui, come il Cantacuzeno abbia sentito l’esigenza di inserire questo passo subito dopo il punto in cui aveva ricordato la decisione di Stefano di concedere, per inimicizia verso i Polacchi, il passaggio agli Ottomani. Ancora, l’edizione fiorentina fraintende il

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nome del capitano inviato da Bayezid II in Moldavia, da “Marco Zogli” dei manoscritti e “Marchossogli” dell’edizione a stampa di Lucca, in “Marcofodi”, anche se poi lo nomina una seconda volta come “Marcosogli” e dà l’idea di considerarlo una persona diversa[109]; quindi la sola edizione fiorentina una prima volta omette l’accenno agli “Achinzi” (presente fin dalla prima redazione), probabilmente per eliminare una parola sconosciuta e per di più ininfluente, mentre poi banalizza l’ennesimo accenno a quella categoria di cavalieri col più generico: “soldati”. Infine l’edizione di Firenze appone una chiusa a questo passo che può essere fuorviante circa l’attendibilità del Cantacuzeno: “Nondimeno Baiazete oppresse poi lo stato del Signor Valacheo [sic; il corsivo è mio] figliuolo del Duca di Santa Sabba. Costui non andò molto tempo che si morì nella città d’Arbe”. Il confronto col testo del codice parigino, giacché il passo manca nella prima redazione, scioglie ogni dubbio: “Occupò di poi Baiasit il stato del signor Vlatheo [sc. Vlatko Vukèiæ, duca di Erzegovina; il corsivo è mio], figliolo del duca di San Saba, qual Vlatheo morì poi nella città di Arbe in Dalmatia, come di sopra dissi”. Ed anche nell’edizione a stampa di Lucca (p. [62]) il nome del duca è “Vlatcho”.In realtà il Cantacuzeno appone a questo punto l’epilogo delle vicende di cui già si era occupato nelle pagine precedenti a proposito del Ducato di Bosnia[110]. Arbe, dunque, è l’odierna città di Rab, in Croazia, che Theodoro

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Spandugino Cantacuzeno conosceva bene per esservi stato deportato dai veneziani, prima che la pena gli fosse commutata in quella dell’esilio; così come conosceva bene le vicende del Ducato di Bosnia, giacché l’Anna, che egli cita a questo proposito, era figlia di quel Giorgio Paleologo Cantacuzeno di cui abbiamo già parlato, e pertanto sorella del padre di Eudocia. Anna, insieme col duca Ladislao sposato nel 1454 e con i figli, era fuggita a Venezia presso i parenti quando Mehmet II aveva invaso la Bosnia nel 1463. Da Venezia, poi, la famiglia del Duca si era spostata in Ungheria, dove Ladislao era morto nel 1489. Tirando le somme, dunque, la versione in più punti brevior dell’edizione fiorentina non presenta passi che accennano alla vita privata dello scrittore, assenti, oltre che nell’edizione di Lucca, anche nella prima redazione, e quindi probabilmente aggiunti in seguito dall’autore, oppure elimina volontariamente ripetizioni che, nel testo del codice parigino, rimandano da un passo all’altro, omissioni che rendono senz’altro più oscura l’esposizione dei fatti, in un punto in cui, per giunta, l’edizione a stampa di Firenze confonde un nome proprio: VlatheoVlatcho (Vlatko), con un etnonimo: Valacheo (Valacco)[111].

Se dunque consideriamo comparativamente le fonti fin qui analizzate, vediamo che il Cantacuzeno, almeno per quanto riguarda le vicende della Moldavia e soprattutto

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quelle verificatesi all’epoca di Bayezid II, pare meglio informato del Cambini. Questi in definitiva, come si è detto, tace su gran parte delle imprese di Stefano il Grande, per i motivi che abbiamo cercato di chiarire, e destina largo spazio solo alla presa della Città Bianca, un episodio riguardante in ispecial modo le gesta di Bayezid II. Il Cantacuzeno, da parte sua, fornisce più notizie riguardanti la Moldavia di Stefano il Grande, ed appare quindi meglio documentato anche grazie ai suoi rapporti di parentela, taciuti nelle versioni a stampa e da noi messi in evidenza, e grazie all’occasione che questi rapporti gli fornivano di assistere in prima persona agli eventi narrati, avendo la possibilità, in subordine, di sentir parlare di quei fatti direttamente dai protagonisti. Questa circostanza e le vicende biografiche dell’autore spiegano lo spirito di osservazione e la moderazione che gli sono stati riconosciuti[112], oltre alla scelta stessa del soggetto da lui affrontato: la storia e i costumi di quelli Ottomani presso i quali egli aveva, impiegati in ruoli essenziali, alcuni parenti anche stretti[113]. E ciò, del resto, può far ritenere che il Cantacuzeno, destreggiandosi, non sempre senza danno, fra Venezia e le corti di Francia, Vienna e Costantinopoli, fosse indotto per diversi motivi a ricercare un equilibrio nel disegno generale dell’opera, inquadrandovi i giudizi, anche sbilanciati, che di volta in volta faceva trasparire circa gli attori dei fatti narrati, ossia l’Impero Ottomano e le potenze cristiane. Emblematico è il caso delle vicende del Ducato di Bosnia, in cui appare evidente che lo scrittore rispecchia il punto di vista espresso da Anna Cantacuzena, quand’ella si trovò rifugiata a Venezia col marito ed i figli. E così sarà pure in altre circostanze. Comunque, anche a detta del Nicol: “Theodore’s patriotism is not in doubt, but it was a patriotism for the whole Christian world […] His religious persuasion inclined him more to the Roman church than to the Orthodoxy[114]. Ossia, non si può certo accusare il Cantacuzeno di inclinare per gli Ottomani, sebbene, aggiungiamo, la sua opera dimostri per essi una certa ammirazione, ma è anche vero che egli non guardò neppure alla sola Grecia ed aspirò ad una difesa per così dire globale del mondo cristiano, sia occidentale che orientale, anche se poi in concreto, come accadde

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ad altri greci fuoriusciti, da un lato ebbe rapporti molto stretti soprattutto con i Papi di Roma (in particolare Leone X, Clemente VII e Paolo III, escluso Adriano VI che tradì il progetto della crociata), dall’altro nutrì assai simpatia per l’umanesimo italiano, cui tanti greci come il Lascaris davano il loro prezioso apporto. E la sua amicizia col Lascaris lo portò in Francia e gli determinò l’accusa a Venezia di simpatizzare per quella corte[115]. Ma i suoi ammonimenti ai principi cristiani, che mancano, come abbiamo visto, nelle due edizioni a stampa e che stigmatizzano la divisione del mondo cristiano con l’indubbio vantaggio concesso agli Ottomani, dovevano piacere soprattutto alle gerarchie della Chiesa di Roma. In ogni caso, per quanto riguarda Stefano il Grande, il Cantacuzeno pare piuttosto onesto nel giudizio generale che esprime su di lui, e tuttavia, poiché probabilmente aggiunge questa parte in una tarda redazione apprendendola da fonti ottomane, resta alquanto nel vago e si dimostra impreciso sui particolari della vittoria moldava: “Carabogdan sempre fu in grande esistimatione apresso li Turchi, et questo perché andando Mehemet [II] a metter el campo a Chieli et Moncastro, bastò l’animo a Carabogdan con manco di XX milia combattanti ad assaltare avanti giorno lo esercito di Turchi, ove personalmente si trovava lo imperator Mehemet; nel qual esercito fece uno incredibile macello de’ Turchi, et sopravenendo lo giorno, benché havesse vittoria, per esser tanta infinità di Turchi, non possendo sostenere tanto impeto, si mise in fuga et salvossi con la maggior parte delli suoi. Questo ha grande exemptione imperoché non è tenuto dar ostaggi, né andare personalmente a basare il piedi dello imperator de’ Turchi”[116]. Se, dunque, teniamo in giusta considerazione anche il fatto che, a Vaslui, l’esercito moldavo ricevette l’aiuto del transilvano Biagio Magyar, e che Stefano il Grande non mancò certo di ringraziare per questo Mattia Corvino[117], senza voler togliere nulla all’impresa in sé del principe moldavo, riteniamo che, almeno nella percezione della storiografia italiana, per così dire di più ampio consumo[118], e stando alle testimonianze che abbiamo analizzato, il merito delle vittorie

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sugli Ottomani venisse attribuito, tout court, al defensor ecclesiae per eccellenza, ossia a Mattia Corvino, e che probabilmente le vittorie di Stefano per vari motivi non giungessero ad avere, o comunque non avessero più nella penisola italiana, a cavallo fra XV e XVI secolo, quella risonanza che alcuni in passato hanno voluto, ed escludo naturalmente da questo giudizio gli ambienti ben informati, almeno in età contemporanea al principato di Stefano, delle cancellerie e della diplomazia internazionale. E quella indubbia conoscenza della Moldavia che si cominciò ad avere, per merito delle gesta di Stefano, presso i governi e le cancellerie italiane non ebbe né tempo né modo per avere maggiore diffusione, come dimostrano le nostre testimonianze.

Tale assunto è dimostrato da un’altra delle opere storiografiche sugli Ottomani che, dagli anni Trenta del XVI secolo, goderono di una grande fortuna, vale a dire quell’ennesimo Commentario dedicato dal vescovo di Nocera, Paolo Giovio, all’imperatore Carlo V, nel quale manca ogni accenno, pur minimo, alle gesta di Stefano il Grande, mentre il paese da lui governato è menzionato di sfuggita, due o tre volte, senza che il Giovio ritenga di doversi soffermare sull’argomento[119]. E se un’eccezione senz’altro vi fu, pochissimo dopo Vaslui, ed alludo a quell’operetta di Martino Segono che ho già citato, essa non produsse quella risonanza che meritava presso un pubblico relativamente più vasto. Il Segono infatti, fra il 1479 e il 1480, nell’imminenza della spedizione navale di Kedük Ahmed Pascià contro Otranto, scrive: “Hic [apud Vasillum; ossia “presso Vaslui”], quadriennio iam elapso, Stephanus Moldaviae dominus Solimanum bassa et romaniae ducem sic prostravit ut ex triginta milibus Turcorum pauci admodum, qui forte velocioribus equis insederant, evaserint”[120], una chiara menzione di Stefano il Grande e della sua vittoria a Vaslui; e secondo A. Pertusi[121] il Segono, che scrisse probabilmente nella sua sede vescovile di Dulcigno, rimasta alla Serenissima anche dopo il trattato ottomano-veneziano del 25 gennaio 1479: “è da porre tra i migliori storiografi occidentali dell’origine e della potenza dei Turchi perché […] la sua memoria giunse certamente non soltanto sul tavolo del papa Sisto IV, ma anche su quello di Mattia Corvino. Ed è certo nell’archivio o nella biblioteca di Mattia che la trovò il Petanèiæ […]”. Fu un ventennio dopo, infatti, di ritorno da Rodi dov’era in missione per il re d’Ungheria Vladislao VII (1490-1516), che Felix Petanèiæ (Felix Ragusinus) inviò il suo trattattello, intitolato: Quibus itineribus Turci aggrediendi sunt, al successore di Mattia Corvino, saccheggiando letteralmente la memoria del Segono. L’opera del Petanèiæ, secondo il Pertusi, è da ritenersi certamente un “furtarello letterario” come dimostra, fra l’altro, il fatto che il Petanèiæ riprenda letteralmente dal Segono quella menzione della vittoria di Stefano il Grande a Vaslui or’ora citata. Tuttavia, se nel Segono si trovava specificato “quadriennio iam elapso” (giacché la vittoria di Stefano

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era stata conseguita nella seconda metà del mese di gennaio del 1475, mentre il Segono scriveva appunto circa quattro anni dopo), il Petanèiæ da parte sua, copiando il Segono a distanza di due decenni, rese vaga l’indicazione cronologica della fonte sostituendola con “denique”[122]. L’opera del Segono rimase circoscritta ad un ambito piuttosto ristretto, per così dire degli addetti ai lavori, mentre quella del Ragusino ebbe notevole fortuna, essendo ripubblicata sedici volte, fra il 1522 e il 1793, e tradotta in diverse lingue: tedesco, italiano, serbo e croato. Nel nostro caso, però, notiamo che quell’indicazione del Segono riguardante la vittoria di Stefano il Grande a Vaslui, forse perché il Petanèiæ ricalcandola la poneva in un’epoca recente ma imprecisata, non fu ripresa in seguito da altri e, senza voler ripercorrere le tappe dei primi studi in Occidente sull’origine e la potenza degli Ottomani, già così ben delineate dal Pertusi, anche in quelle prime opere gli autori si soffermarono più volentieri su personaggi come Giorgio Castriota Skanderbeg, il voivoda di Transilvania Giovanni Húnyadi (Ioan/Iancu di Hunedoara) (1439-1456) e suo figlio Mattia Corvino, e se anche in qualche opera si fece mai menzione più o meno precisa di Stefano e delle sue vittorie contro gli Ottomani, ne rimase poi una lontana eco nel Cantacuzeno[123].

 

 

 

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[1] Cfr. Anton Francesco Doni, La Libraria del Doni fiorentino …, Vinegia 1580, p. 65v; Bibliotheca Instituta et Collecta, primum a Conrado Gesnero …, Tiguri 1583, s. v. Andreas Cambinus, p. 42; Michele Poccianti, Catalogus Scriptorum Florentinorum omnis generis …, Florentiae 1589, p. 110; Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini …, Ferrara 1722, s. v. Andrea Cambini, pp. 33-34; Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca Volante …, 4 tt., Vinegia 1734-1747, s. v. Cambini Andrea, t. II, p. 35 (Scanzia XII); Angelo Maria Bandini, Specimen Literaturae Florentinae saeculi XV …, vol. I, Florentiae 1747, p. 201; Mirella Giansante, Cambini Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XVII, Roma 1974, pp. 132-134.

[2] Cfr. Cristoforo Landino, Comento sopra la Comedia (Edizione Nazionale dei Commenti Danteschi), a cura di Paolo Procaccioli, 4 tt., Roma 2001, t. I, pp. 310-311 (Inferno I, 61-63).

[3] Cfr. Arnaldo della Torre, Storia dell’Accademia Platonica di Firenze, Firenze 1902.

[4] Cfr. Marsilio Ficino, Opera Omnia (“Monumenta Politica et Philosophica rariora” ex optimis editionibus phototypice espressa, curante Luigi Firpo, Series I, Numerus 7-8), 2 voll., Torino 1983, vol. I, p. 680 (Marsilio Ficino, Opera, Basileae 1576, p. 650): “Marsilius Ficinus Andreae Cambino suo, S. D. Sunt Andrea multi mortalium usque adeo cupidi, ut multa diversaque quotidie, immo et innumerabilia tanquam insatiabiles cupiant. Cambinus meus, utpote qui prudens moderatusque [il corsivo è mio] est nihil, ut arbitror, aliud optat praeter salutem animi, ac bonam corporis valetudinem. Salve igitur simul et Vale”. Rimangono almeno altre tre lettere indirizzate dal Ficino al Cambini (M. Ficino, Opera Omnia cit., p. 701, p. 773, p. 928; M. Ficino, Opera cit., p. 671, p. 743, pp. 898-899): la prima testimonia un rapporto epistolare e di confidenza fra i due personaggi: “Cum in foro una cum praeclaro viro Francesco Casato nostro deambularem, reddita mihi est elegans Epistola tua […]. Igitur Cambinus noster, utpote qui iam abunde religiosus evaserit, librum nostrum divina tractantem, quasi speculum appetit, in quo religionem suam tanquam speciem propriam speculetur. Mittam hoc meum cum primum potero speculum […]”. La seconda sviluppa brevemente il tema: Gravis quidem videtur iactura pecuniarum, hominum vero gravissima. La terza, datata giugno 1489, ha per oggetto il parto letterario di un amico del Cambini: tre orazioni che quest’ultimo ha passato al Ficino perché il filosofo le legga e che per il Ficino son state fonte di grande diletto: “[…] Dedisti enim tres nobis orationes Francisci Puccij necessarij tui legendas, quarum lectio me adeo delectavit, ut vix […] voluptatem hanc exprimere valeam”.

[5] Lorenzo de’ Medici (1449-1492), figlio di Piero detto il Gottoso (1414 o 1416 – settembre 1469) e di Lucrezia Tornabuoni (1425-1482), nonché nipote di Cosimo il Vecchio (1389-1464) che aveva fondato nel 1434 la signoria dei Medici in Firenze, alla morte del padre venne proclamato “principe dello Stato” insieme col fratello Giuliano (1453-1478). Questi venne ucciso, nel corso di una congiura, da Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini, il 26 aprile 1478 in Santa Maria del Fiore. Cfr. Niccolò Valori, Vita del Magnifico Lorenzo de’ Medici il Vecchio, Firenze 1568; Alfred von Reumont, Lorenzo de’ Medici il Magnifico, vol. II, Londra 1876, p. 455; Nicolai Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici (1434-1494), Firenze 1971 (trad. ital. di Idem, The Government of Florence under the Medici, 1434 to 1494, Oxford 1966), pp. 213-276.

[6] Ercole I d’Este (1431-1505) resse il ducato di Ferrara, Modena e Reggio a partire dall’anno 1471.

[7] Cfr. Iacobi Gaddii, De Scriptoribus non Ecclesiasticis, Graecis, Latinis, Italicis …, Florentiae 1648, p. 69: il Cambini aggiunse un XXXI libro, usufruendo forse del materiale raccolto da Gaspare Biondi. Anche questa traduzione rimase inedita ed è conservata a Firenze nelle Biblioteche Nazionale Centrale (cod. II, III, 59) e Laurenziana (cod. Laur. Ashbur. 541). Nell’opera di Biondo Flavio il Cambini poteva leggere una delle prime esortazioni (1453-1454) ad arginare la straripante espansione dei Turchi; una delle prime di una serie che nell’arco di settant’anni produsse anche progetti di crociate e che parte dal primo tentativo di Francesco Filelfo (1444), passa per Poggio Bracciolini (1455), il Card. Bessarione (1470), Giovanni Gemisto (1516), Marco Musuro (1517) e giunge a Giano Lascaris (1516, 1525), amico e parente di Theodoro Spandugino Cantacuzeno. Cfr. Agostino Pertusi, I primi studi in Occidente sull’origine e la potenza dei Turchi, in “Studi Veneziani”, XII, 1970, pp. 465-552, in part. p. 466.

[8] Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo e Clarice Orsini (1475-1521), papa Leone X dall’11 marzo 1513 al 1° dicembre 1521.

[9] Giovanni II Bentivoglio (1443-1508) prese il potere nel 1462.

[10] Galeotto Manfredi nel 1468 successe al padre Astorre II nella signoria di Faenza. Fu assassinato con la complicità della moglie Francesca Bentivoglio e del suocero Giovanni II. Il figlio di Galeotto, Astorre III, finì strozzato a Roma nel 1502 per volontà di Cesare Borgia, che così inglobò Faenza nel nascente ducato di Romagna. Cfr. Antonio Messeri, Galeotto Manfredi signore di Faenza, Faenza 1904.

[11] Cfr. Angelo Fabroni, Laurentii Medicis Magnifici Vita, vol. I, Pisa 1784, p. 197.

[12] Piero de’ Medici (1472-1503), figlio di Lorenzo e Clarice Orsini, quindi fratello del Card. Giovanni, subentrò al padre ne1492, ma fu cacciato dalla cittadinanza il 9 novembre 1494; tentò di rientrare a Firenze negli anni successivi, con colpi di mano che risultarono sempre vani (1497, 1498, 1501, 1502).

[13] Teorico della crittografia e collaboratore di Cicco Simonetta, capo della cancelleria milanese, il Tranchedino vergò parte del cod. Vind. 2398 (databile alla fine degli anni Settanta del XV secolo), una collezione di scritture cifrate appartenute a Philip Edward Fugger. Cfr. Francesco Tranchedino, Diplomatische Geheimschriften (Codex Vindobonensis 2398), commenti di W. Höflechner, Graz 1970.

[14] Ludovico Maria Sforza, detto il Moro (Vigevano, 1452 – Loches, Francia, 1508), figlio quartogenito di Francesco I Sforza e di Bianca Maria Visconti, fratello di Ippolita andata in sposa al duca di Calabria, divenne nel 1479 duca di Bari, quindi ottenne la reggenza su Milano al posto della cognata, duchessa Bona di Savoia. Nello stesso mese di aprile 1498, in cui a Firenze cadeva il governo del Savonarola, in Francia Luigi XII succedeva a Carlo VIII, assumendo anche i titoli di duca di Milano e re delle Due Sicilie, quindi nell’agosto dell’anno successivo dava inizio all’offensiva contro Ludovico il Moro. Questi, dapprima fuggito in Germania e poi tornato per breve tempo a Milano, finì i suoi giorni prigioniero in Francia.

[15] Cfr. Pasquale Villari, La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, 2 voll., Firenze 1930, vol. II, passim, in particolare p. 169 e pp. CII-CIII; si vedano anche: Giovanni Cambi, Istorie, in Delizie degli Eruditi Toscani, vol. XXI, Firenze 1785, p. 32, pp. 119-121, pp. 130 ss.; Jacopo Nardi, Istoria della città di Firenze, vol. I, Firenze 1842, p. 152; Attilio Portioli, Nuovi documenti su Girolamo Savonarola, in “Archivio Storico Lombardo”, I, 1874, p. 341; Luca Landucci, Diario fiorentino dal 1450 al 1516, Firenze 1883, p. 171; Ricordanze di Bartolomeo Masi, calderaio fiorentino, dal 1478 al 1526, per la prima volta pubblicate da Giuseppe Odoardo Corazzini, Firenze 1906, p. 39; Giovanni Battista Picotti, La giovinezza di Leone X, Milano 1928, ad indicem; Giuseppe Schnitzer, Savonarola, Milano 1931, ad indicem.

[16] L’opera ebbe almeno altre due edizioni: Libro d’Andrea Cambini della origine de Turchi, et imperio delli Ottomani, Firenze, per Benedetto di Gionta, 1537; e Commentario de Andrea Cambini fiorentino, della origine de Turchi, et imperio della Casa ottomana, s. l. [Firenze] 1538, da me consultato.

[17] Il Commentario de le cose de Turchi di Paulo Iovio, Vescovo di Nocera, a Carlo Quinto Imperadore Augusto, era uscito a Venezia in prima edizione nel 1531, e poi in traduzione latina col titolo: De rebus gestis et vitiis imperatorum Turcarum, Wittemberg 1537. Nel 1560-1561, Francesco Sansovino utilizzò parte dell’opera del Cambini per la sua Historia Universale dell’origine, guerre, et imperio de Turchi …, Venezia 1554, pp. 141-181. In ambito romeno il Cambini fu conosciuto, inizialmente, tramite l’Historia del Sansovino, che fu consultata da Nicolae Bãlcescu, Puterea armatã ºi arta militarã la români, in “Magazinulŭ istoricu pentru Daciia”, II, 1846, pp. 60-63 (per la parte riguardante Bayezid II). Bãlcescu fu ripreso da Bogdan Petriceicu Haºdeu, Libro della origine de’ Turchi et imperio delli Ottomani, in “Arhiva istoricã a României”, I, no. 2, 1865, pp. 55-59, che però, avendo consultato l’opera del Cambini nell’edizione del 1537, aggiunse altri passi in traduzione romena. Cfr. Stephen the Great prince of Moldavia (1457-1504). Historical Bibliography, a cura di ªtefan Andreescu, Tatiana Cojocaru, Ovidiu Cristea, Mariana Mihãilescu, Anca Popescu e Adrian Tertecel, Bucarest 2004, p. 32. Dal canto suo, Nicolae Iorga, Studii istorice asupra Chiliei ºi Cetãþii Albe, Bucarest 1899, pp. 156-157, ignorò l’apporto di Haºdeu e si rifece solo all’opera del Sansovino. Infine, Ionel Cândea, Cucerirea Cetãþii Albe de cãtre turci la 1484 într-un izvor italian mai puþin cunoscut, in “Studii ºi materiale de istorie medie”, XVII, 1999, pp. 27-31, che qui ringrazio insieme con l’amico Cristian Luca, riprende i lavori dei tre studiosi precedenti, inquadrando nel contesto geopolitico dell’epoca l’episodio della caduta della Città Bianca, che trasformò il Mar Nero in un “lago” ottomano.

[18] Per gli avvenimenti storici di cui ci occuperemo di qui in avanti, sia nel caso del Cambini, sia per il Cantacuzeno si vedano: Joseph von Hammer–Purgstall, Histoire de l’Empire ottoman. Depuis son origine jusqu’à nos jours, tome troisième: Depuis la prise de Constantinople par Mohammed II jusqu’à la mort du prince Djem, frère de Bayezid II, 1453-1494; tome quatrième: Depuis la mort du prince Djem, frère de Bayezid II, jusqu’à la mort de Sélim I, 1494-1520, traduzione dal tedesco di J. J. Hellert, Parigi–Londra–S. Pietroburgo 1836; Philips M. Price, Storia della Turchia. Dall’Impero alla Repubblica, Bologna 1958 (trad. ital. di Idem, A History of Turkey. From Empire to Republic, Londra s. d.); Halil İnalcık, The Ottoman Empire. The Classical Age, 1300-1600, Londra 1973; Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975; Peter Frygies Sugar, Southeastern Europe under Ottoman rule, London 1977; Alessio Bombaci, Stanford J. Shaw, L’Impero Ottomano (Nuova Storia Universale dei Popoli e delle Civiltà, vol. VI, parte II), Torino 1981; Storia del popolo romeno, a cura di Andrei Oþetea, Roma 1981; Dimitri Kitsikis, L’Empire ottoman, Parigi 1985; Franco Gaeta, Il Rinascimento e la riforma (1378-1598), parte prima: Il nuovo assetto dell’Europa (Nuova Storia Universale dei Popoli e delle Civiltà, vol. IX, parte I), Torino 1986; Klára Hegyi, Vera Zimanyi, The Ottoman Empire, Budapest 1986; Giacomo E. Carretto, I Turchi del Mediterraneo. Dall’ultimo impero islamico alla nuova Turchia, Roma 1989; Bernard Lewis, Istanbul et la civilisation ottomane, Parigi 1990; Marie F. Viallon, Venise et la Porte Ottomane (1453-1566). Un siècle de relations vénéto-ottomanes de la prise de Constantinople à la mort de Soliman, Parigi 1995; A History of Romania, a cura di Kurt W. Treptow (The Center for Romanian Studies. The Romanian Cultural Foundation), Iaºi 1996; E. Kováks Péter, Mattia Corvino, Cosenza 2000.

[19] A. Cambini, Commentario … cit., pp. 32v-34.

[20] Enea Silvio Piccolomini (Corsignano, Siena, 1405 – Ancona, 1464), pontefice dal 19 agosto 1458 al 15 agosto 1464.

[21] Giorgio Castriota Skanderbeg (Gjergj Kastrioti Skenderbeu) nacque a Croia (Krujë) nel 1405 e morì ad Alessio (Lezha) nel 1468.

[22] Ossia: “quelli dalle pecore bianche”.

[23] Che il fiorentino fa iniziare solamente nel 1470, mentre gli Ottomani ricacciarono il nemico dall’Egeo fin dal 1464, anno in cui, nel mese di agosto, venne a mancare Pio II.

[24] A. Cambini, Commentario … cit., pp. 34-34v.

[25] L’antica colonia greca di Θεοδοσία (VII secolo a. C.), divenuta colonia genovese nel 1266. Oggi Feodosija in Ucraina.

[26] A. Cambini, Commentario … cit., p. 34v.

[27] Francesco della Rovere (Celle Ligure, Savona, 1414 – Roma, 1484), papa dal 9 agosto 1471 al 12 agosto 1484.

[28] A. Cambini, Commentario … cit., p. 35.

[29] Ibidem, p. 35v.

[30] Cfr. Eugen Denize, Românii între Leu ºi Semilunã: relaþiile turco-veneþiene ºi influenþa lor asupra spaþiului românesc (secolele XV-XVI), Târgoviºte 2004, pp. 105-107; Idem, ªtefan cel Mare. Dimensiunea internaþionalã a domniei, Târgoviºte 2004, pp. 68-71.

[31] A. Cambini, Commentario … cit., pp. 35v-36v; l’assedio, di solito, è posto alla fine del 1479, ma il Cambini lo fa iniziare: “adì XXI di maggio 1474”.

[32] Alfonso II, che successe al padre nel 1494, ma abdicò nello stesso anno in favore del figlio Ferdinando II, più benvoluto dalla popolazione.

[33] Mattia I Corvino (Kolozsvár/Cluj, 1440 – Vienna, 1490) regnò sull’Ungheria a partire dal 1458; nel settembre 1474 si sposò in seconde nozze con Beatrice d’Aragona, figlia del re di Napoli, divenendo perciò genero di Ferdinando.

[34] A. Cambini, Commentario … cit., pp. 37-38v; ambedue le spedizioni, comunque, quella contro Rodi e quella contro Otranto, si conclusero in un nulla di fatto quando giunse notizia della morte di Mehmet II.

[35] Ibidem, p. 39v.

[36] Ibidem, pp. 39v e ss. Il regno del Caramanide era già stato sottomesso dal padre di Bayezid, Mehmet II, nel 1471. Quanto a Ğem, dopo essersi dichiarato Sultano dell’Anatolia e dell’Oriente (28 maggio 1481), offrì a Bayezid II di regnare sull’Europa, ma questi, rifiutatosi di spartire l’Impero, sconfisse il fratello presso Yeniºehir (20 giugno 1481). Ğem tentò una seconda volta di spodestare Bayezid, e questa volta fu appoggiato dai Mamelucchi d’Egitto e dal loro sultano Kaitbey (1468-1496). La marcia del suo esercito iniziò dalla città di Aleppo (aprile 1482) e si concluse ad Ankara (8 giugno 1482) quando fu chiaro che l’aristocrazia turca dell’Anatolia si era riconciliata con Bayezid II, senza che questi però si inimicasse i devºirme, e che nessun appoggio sarebbe stato offerto a Ğem. Questi preferì fuggire, prima a Rodi, poi in Francia (1 settembre 1482), infine a Roma, presso Innocenzo VIII (1486). Quando poi Carlo VIII conquistò gran parte dell’Italia, compresa Roma (1495), Ğem fu catturato e destinato ancora alla Francia, ma prima di giungervi morì a Napoli (25 febbraio 1495) apparentemente di morte naturale.

[37] A. Cambini, Commentario … cit., p. 46v.

[38] Cfr. O. Cristea, Acest domn de la miazãnoapte…: ªtefan cel Mare în documente inedite veneþiene, premessa di ªerban Papacostea, Bucarest 2004, pp. 110-112 ss.

[39] A. Cambini, Commentario … cit., pp. 46v-47.

[40] Città Bianca, oggi Belgorod in Ucraina. Cfr. anche Nicoarã Beldiceanu, La conquête des cités marchandes de Kilia et de Cetatea Albã par Bayezid II, in “Süd-Ost Forschungen”, no. 23, 1964, pp. 36-90.

[41] A. Cambini, Commentario … cit., p. 47.

[42] Ibidem, p. 47v.

[43] Si tratta naturalmente del fiume Dnestr, che oggi sfocia nel Mar Nero in territorio ucraino.

[44] A. Cambini, Commentario … cit., pp. 46v-48v. In seguito ai fatti suddetti, Stefano il Grande fu costretto a riconoscere di nuovo la sovranità ottomana e a riprendere il pagamento del tributo, mentre i Tartari, alleati di Bayezid II, avevano saccheggiato la Bessarabia meridionale e conquistato l’intera costa nord-occidentale del Mar Nero, togliendola agli Jagelloni. L’opera del Cambini, dopo l’assedio di Città Bianca, passa a trattare della guerra contro Venezia iniziata da Bayezid II, quando, nel 1498, attaccò la Morea entrando nel Golfo di Patrasso e ponendo il campo nell’antica Naupatto (Lepanto).

[45] Compresi nella narrazione degli anni 1475-1484, pp. 34r-48v, cioè più di un quinto, anche se di poco, dell’intero Commentario; e ricordiamo che l’opera va dalle origini dell’Impero (fine del XIII secolo) ai primi anni del regno di Solimano il Magnifico (1520-1566, ma il Cambini è morto nel 1527). Questo lo schema dell’opera: I libro: pp. 2r-16v (dalle origini fino alla morte di Murad II, nel 1451); II l.: pp. 17r-39r (dedicato a Mehmet II, 1451-1481); III l.: pp. 39v-55v (dedicato a Bayezid II, 1481-1512); IV l.: pp. 56r-72r (dedicato a Selim I, 1512-1520, ma le pp. 71r-72r trattano dei primi anni del Solimano). E notiamo che il libro II riserva le pp. 34r-39r agli anni 1475-1481 e le pp. 17r-33v agli anni 1451-1470; mentre il l. III riserva ben diciassette pagine (pp. 39v-48v) ai soli anni 1481-1484 e le restanti quattordici (pp. 49r-55r) a tutti gli anni successivi, fino al 1512, e non si può dire che non fossero anni ricchi di eventi da prendere in considerazione. Inoltre, nella stessa p. 48v, il Cambini passa dall’anno 1484 all’anno 1498, ai prodromi della guerra veneto-ottomana, tralasciando gli episodi intermedi, ossia le campagne di Bayezid II in Moldavia e Polonia e alcuni episodi che preparavano la guerra suddetta già a partire dal 1496. Forse questa cesura testimonia una ripresa dell’opera, lasciata ferma negli anni in cui il Cambini si era dedicato alla traduzione delle Historiae di Biondo Flavio (conclusasi nel 1491), era stato Priore a Firenze (1485-1486) e quindi, dal 1488, era divenuto procuratore del futuro papa Leone X, ossia nel periodo compreso fra le prime missioni diplomatiche (1482-1483) e la disgrazia politica sua e del Savonarola (1498).

[46] Filippo Maria Visconti (Milano, 1392 – ivi, 1447), figlio di Gian Galeazzo e Caterina, duca dal 1412, fu l’ultimo dei Visconti a Milano; gli successe Francesco Sforza (S. Miniato, 1401 – Milano, 1466), figlio di Muzio Attendolo e di Lucia. Lo Sforza, che aveva ricevuto un’educazione prettamente militare, a Ferrara e a Napoli, e che aveva sposato Bianca Maria, figlia naturale di Filippo Maria Visconti, entrò il 27 febbraio 1450 in Milano, dopo l’instaurazione della repubblica ambrosiana appoggiata da Venezia, e si fece proclamare duca alleandosi subito dopo con Carlo VII, re di Francia, e con Cosimo de’ Medici.

[47] Giovanni d’Angiò (Toul, 1427 – Barcellona, 1470), figlio di Renato I d’Angiò, re di Napoli, fu Duca di Calabria e si recò col padre, nel 1438, a prendere possesso del Regno di Napoli. Divenuto governatore di Genova nel 1458 per conto della Francia, intraprese nel 1459, su invito dei baroni napoletani, una spedizione contro Ferdinando, presentandosi come erede legittimo di quel regno.

[48] Del resto la fuga da Firenze di Piero, figlio di Lorenzo, sarà la conseguenza della sua ostinata ed unilaterale adesione alla politica del re di Napoli a scapito di Milano e della Francia.

[49] Dopo la congiura dei Pazzi, Lorenzo aveva fatto giustiziare i congiurati, raggiungendo anche chi era riuscito a rifugiarsi all’estero. Fu il caso di Bernardo Bandini, giunto a Costantinopoli su una nave napoletana, di cui scrive Theodoro Spandugino Cantacuzeno (che cito secondo il testo del codice di Parigi, fonds italien 881, f. 39, pubblicato in Constantin N. Sathas, Documents inédits relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen âge, vol. IX, Parigi 1890, p. 165): “[…] tutti li homicida furono morti et justitiati, et nullo scampò eccetto uno che andò a Mehemet imperator de’ Turchi, quale si fece un salvacondutto, et stavasi in Costantinopoli, nomato Bernardo Bandini; ma dopo alquanti giorni fu mandato dal magnifico Lorenzo un huomo a Costantinopoli a Mehemet che li desse l’homicida nelle mani, et intendendo Mehemet il nephando [sic] et iniquo tradimento, fece pigliar lo homicida et assignollo in podestà del messo del magnifico Lorenzo, et così fu condotto detto Bernardo a Fiorenza, ove fu acerbissimamente justitiato [dicembre 1479], et restò il magnifico Lorenzo grandissimo amico et in grandissima esistimatione di Mehemet”. E Lorenzo, per celebrare l’amicizia con Mehmet II, commissionò a Bertoldo di Giovanni una medaglia con l’effigie del Gran Signore. Inoltre il Cantacuzeno (cod. Parigino fonds italien 881, f. 42, in C. N. Sathas, op. cit., p. 167) avvalora l’ipotesi che l’attacco portato ad Otranto da Mehmet II fosse suggerito da chi, in quel momento (estate 1480), era in guerra contro Ferdinando e Sisto IV: “In quel tempo essendo lo re di Napoli in controversie con lo magnifico Lorenzo di Medici et alcuni altri potentati trovò occasione Mehemet, persuaso da alcuni di loro [il corsivo è mio], et mandò il sopranominato Gidi Cadmath bassà [sc. Kedük Ahmed Pascià, che era stato staffiere di Mehmet II] con una armata maritima et assaltorono la città di Otranto in Italia […]”. In questo periodo Ferdinando, nonostante la pace firmata con Lorenzo (19 marzo 1480), invadeva alla fine di giugno il territorio di Siena, giungendo fino a Forlì. Naturalmente fu a causa dello sbarco ottomano che, come scrive anche il Cambini, il Duca di Calabria Alfonso, figlio di Ferdinando, venne richiamato dalla guerra contro Firenze e dirottato su Otranto. Poi, alla morte di Mehmet II, Kedük Ahmed Pascià se ne tornò a Costantinopoli lasciando Otranto ben munita; ma Lorenzo si era ormai riconciliato con Ferdinando. È possibile che, in quell’anno 1480, le città di Firenze e di Venezia si fossero riavvicinate temporaneamente ed avessero raggiunto un accordo segreto con l’Impero Ottomano per contrastare l’espansione del re di Napoli, come dimostrerebbe il fatto che il bailo veneziano a Costantinopoli, Battista Gritti, avrebbe comunicato al sultano il parere favorevole della città veneta circa il diritto degli Ottomani di occupare Brindisi, Taranto e Otranto, in quanto territori una volta appartenuti all’Impero bizantino. Si veda a questo proposito: Franz Babinger, Mahomet II le Conquérant et sous temps (1432-1491), tr. franc. di H. E. del Medico, Parigi 1954, p. 477; e Idem, Lorenzo de’ Medici e la Corte ottomana, in “Archivio Storico Italiano”, no. 121, 1963, pp. 305-361. Anche lo storico bizantino G. Sphrantzes, Chronicon minus (Cfr. Vasile Grecu, Georgios Sphrantzes. Memorii, 1401-1477 …, Bucarest 1966), si dilunga sulla questione di Bernardo Bandini per spiegare l’amicizia fra Lorenzo e Mehmet II.

[50] Un esempio è la spedizione ungherese contro la Moldavia conclusasi, nel dicembre 1467, con la vittoria di Stefano il Grande a Baia.

[51] Gian Battista Cybo, nato a Genova nel 1432, fu sommo pontefice dal 29 agosto 1484 al 25 luglio 1492. Per consolidare i rapporti con Firenze fece sposare il figlio Franceschetto con Maddalena de’ Medici.

[52] Federico III di Asburgo, detto il Pacifico (Innsbruck, 1415 – Linz, 1493), divenne imperatore nel 1440, fu incoronato a Roma nel 1452 ed aspirò invano alla corona d’Ungheria.

[53] Carlo VIII (Amboise 1470-1498), figlio di Luigi XI e Carlotta di Savoia, successe al padre a tredici anni, nel 1483, per cui il governo fu retto dalla sorella maggiore, Anna di Beaujeu, fino al 1491, anno in cui Carlo sposò Anna, duchessa di Bretagna, e iniziò il suo governo personale.

[54] La famiglia Frangipane di Veglia (Dalmazia) e del Friuli si voleva, erroneamente, che derivasse da un ramo dei Frangipane di Roma, che animarono la politica di quella città nei secoli XI-XIII e con Giovanni, signore di Astura (seconda metà del XIII secolo), fondarono un nuovo ramo a Napoli.

[55] Il Mattia mecenate intratteneva rapporti stretti in particolare con Firenze. Il fiorentino Chiementi Camicia arrivò a Buda dopo il matrimonio di Mattia con Beatrice, fu primo architetto nei lavori del palazzo reale e lasciò l’Ungheria solo dopo la morte del re; mentre, nel 1488, la gestione dei libri contabili veniva affidata a Bernardo Vespucci, mercante fiorentino. Mattia, poi, che pure non poté contare sui più grandi maestri del Rinascimento, avrebbe commissionato opere anche a Leonardo e a Filippo Lippi; comunque è vero che, per la costituzione della Biblioteca Corviniana, Mattia si servì dell’amicizia che lo legava all’umanista Francesco Bandini. Questi segnalava al re d’Ungheria i volumi più interessanti, e nel 1480 fondò un circolo neoplatonico alla corte di Buda. Tra gli umanisti ungheresi, il vescovo Nicola Báthori, che aveva studiato in Italia, fondò a Vác una scuola, invitandovi come professore Marsilio Ficino. Il Ficino, fra l’altro, scrisse il trattato: De vita coelitus comparanda ad Matthiam Corvinum, pubblicato nel 1489.

[56] Giovanni Alberto I, Jan Olbrecht (Cracovia, 1459 – Torún, 1501), figlio di Casimiro IV Iagellone, successe al padre nel 1492, ma prima, morto Mattia Corvino nell’aprile 1490, era stato eletto re d’Ungheria dalla nobiltà di quel paese.

[57] Cfr. C. N. Sathas, op. cit., Préface e pp. 138-261, che pubblica il testo del codice della Biblioteca Nazionale di Parigi fonds italien 881, intitolato: Theodoro Spandugnino, Patritio Constantinopolitano, de la origine deli Imperatori Ottomani, ordini dela corte, forma del guerreggiare loro, religione, rito et costumi dela natione, versione che di recente è stata tradotta in inglese da Donald Mac Gillivray Nicol, On the origins of the Ottoman emperors. Theodore Spandounes, Cambridge–Melbourne 1997 (segnalato in Stephen the Great cit., p. 46); N. Iorga, Despre Cantacuzini. Studii istorice basate în parte pe documentele inedite din Archiva d-lui G. Gr. Cantacuzino, Bucarest 1902; Idem, Byzance après Byzance, Bucarest 1971. Per la questione delle redazioni dell’opera del Cantacuzeno, si veda soprattutto Christiane Villain–Gandossi, La cronaca italiana di Teodoro Spandugino, in “Il Veltro. Rivista della civiltà italiana”, XXIII, nos. 2-4, 1979, pp. 151-171, ristampa in Eadem, La Méditerranée aux XIIe-XVIe siècles. Relations maritimes, diplomatiques et commerciales, Londra 1983, III, che pubblica il testo del ms. Italiano H 389 della Biblioteca Universitaria (sezione medicina) di Montpellier (solo 38 ff. su 96), intitolato: Del origine de Principi de Turchi, Ordine de la corte loro et Costumi de la Natione. A Leone X Papa (citato in M. F. Viallon, op. cit., p. 35, n. 4); Gianluca Masi, Cairo (24 agosto 1556), la carovana diretta alla Mecca e il “Mahmal” nel reportage di Pellegrino Brocardo. Elementi dell’esercito ottomano e loro schieramenti nelle fonti del XVI secolo, in “Quaderni della Casa Romena di Venezia”, no. 3, 2004, pp. 225-290. L’opera del Cantacuzeno ebbe, oltre a diverse redazioni manoscritte, due edizioni a stampa: Theodoro Spandugnino della casa regale de Cantacusini Patritio Constantinopolitano, delle historie, et origine de Principi de Turchi, ordine della corte, loro rito, et costumi. Opera nuovamente stampata, né fin qui missa in luce, In Lucca per Vincentio Busdrago a dì 17 di settembre MDL, cc. [VI+97], in 8°; e I Commentari di Theodoro Spandugino Cantacuscino Gentilhuomo Constantinopolitano, dell’origine de Principi Turchi, et de costumi di quella natione, Fiorenza appresso Lorenzo Torrentino impressor ducale MDLI, pp. [16] 202 [2], in 8°. Ma esiste anche la versione pubblicata nell’Historia di Francesco Sansovino. Per quanto mi riguarda, ho confrontato i testi dell’edizione fiorentina del 1551 (ma ho consultato anche l’edizione di Lucca, più rara, presso la Biblioteca Comunale “Renato Fucini” di Empoli, coll. 2-O-15-8203), e dei codd. Parigino fonds italien 881 e Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier (da me consultato anche su microfilm).

[58] La Moldavia, secondo l’uso ottomano, era detta Bogdania Nera dal fondatore del principato, Bogdan I.

[59] La parentela con Giano Lascaris è confermata da Marino Sanudo nei suoi Diarii. Cfr. Idem, I Diarii di Marin Sanudo (MCCCCXCVI-MDXXXIII) dall’autografo Marciano Ital. Cl. VII. 228-286 (=9215-9273), 58 voll., edizione a cura di Rinaldo Fulin, Federico Stefani, Nicolò Barozzi, Guglielmo Berchet e Marco Allegri, Venezia 1879-1902, vol. VIII, p. 126.

[60] Giovanni VI Cantacuzeno (ca. 1292-1383) nel 1341 si fece proclamare imperatore e collega di Giovanni V Paleologo (1332-1391); deposto nel 1354, si ritirò sul Monte Athos.

[61] Cfr. f. 34 del cod. Parigino fonds italien 881, in C. N. Sathas, op. cit., p. 161; e Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 52. L’edizione a stampa di Lucca, con differenze più o meno evidenti, è più vicina, nei punti in comune, alla lettera del codice parigino, anche se testimonia la medesima fase redazionale della stampa fiorentina. Quest’ultima si discosta da ambedue a causa di una revisione della lingua e dello stile di cui riparleremo. Nel manoscritto di Montpellier mancano tutte quelle indicazioni di tipo biografico, relative allo stesso Theodoro e ai suoi parenti, di cui daremo conto via via in questo capitolo.

[62] Cfr. M. Sanudo, Diarii … cit., vol. VII, col. 115.

[63] Ultimo dei Paleologi ed ultimo imperatore d’Oriente (1404-1453) a partire dal 1449. Morì in combattimento durante la difesa di Costantinopoli dagli Ottomani di Mehmet II.

[64] Il decreto del 1475 (Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci. Misti, XVIII, f. 113v; in C. N. Sathas, op. cit., pp. XXXVIII-XXXIX) fu annullato tre anni dopo, mentre, con decreto del 28 luglio 1479, il Consiglio dei Dieci estese la concessione a tutti i greci residenti a Venezia, ma il provvedimento non vide mai attuazione a causa dei pericoli che taluni vi scorsero per la religione cattolica. Il privilegio, dunque, rimase per le sole Anna e Eudocia, finché esse rimasero in vita (Anna Notaras morì ultracentenaria l’8 luglio 1507, mentre Eudocia era morta già prima del 1490) e finché, nell’anno 1511, fu concessa la costruzione della chiesa di S. Giorgio. Cfr. C. N. Sathas, op. cit., pp. XXXIV-XXXVII, XXXIX-XL.

[65] Cfr. Etymologicum magnum Graecum …, ed. Marcus Musurus, Venezia, Zacharias Caglierges, per Nicolaus Blastus e Anna Notaras, 8 luglio 1499.

[66] Un’altra sorella di Giorgio fu Elena, moglie di David Comneno (1458-1463), ultimo imperatore greco di Trebisonda, morta tragicamente nel 1463, insieme col marito, alla caduta della città sotto gli Ottomani.

[67] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, f. 34, in C. N. Sathas, op. cit., p. 161; e l’edizione fiorentina del 1551: Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 52.

[68] Per Loukas Spandounes si veda Charalampos Bouras, Το επιτύμβιο του Λουκα Σπανδούνη στη‑ βασιλικη‑ του ‛Αγίου Δημητρίου Θεσσαλονίκης, in “’Επιστημονικη ‘Επετηρις της Πολυτεχνικης Σχολης”, VI, 1973, pp. 1-63.

[69] Ulrico II, conte di Cilli (Slovacchia, 1406 – Belgrado, 1456) e figlio di Federico II, ingrandì i suoi possedimenti in Slavonia e Croazia, entrando in conflitto con Giovanni Hunyadi (Giovanni di Hunedoara), reggente d’Ungheria per conto di Ladislao, ancora minorenne. Ulrico, nel 1452, si fece consegnare da Federico III il tredicenne Ladislao, divenendo di fatto reggente di Boemia ed Ungheria. Quattro anni dopo, durante la guerra contro gli Ottomani, Ulrico fu ucciso a Belgrado da Ladislao Hunyadi. Ulrico aveva sposato Caterina nel 1434, avendone una figlia, Elisabetta, andata in sposa a Mattia Corvino.

[70] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, f. 21, f. 23, f. 30, f. 40, in C. N. Sathas, op. cit., p. 151 (per Elena, moglie di David Comneno, e per Irene, moglie di Giorgio di Serbia), pp. 152-153 (per Irene, Maria e Giorgio di Serbia), p. 158 (per Maria, Caterina e il conte di Cilli) e pp. 165-166 (per Maria); e Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 29, p. 33, p. 45, p. 54 (l’accenno a Maria presente nel f. 40 del codice parigino, pp. 165-166 del Sathas, è omesso in ambedue le edizioni a stampa). Per la sultana Maria, si veda: D. M. Nicol, The Byzantine Lady, Cambridge 1994, pp. 110-119. Per tutte queste notizie sui parenti di Theodoro, ed altri ne citeremo in seguito, si veda: Idem, The Byzantine Family of Kantakouzenos (Cantacuzenus), ca. 1100-1460. A Genealogical and Prosopographical Study (“Dumbarton Oaks Studies”, XI), Washington D. C. 1968, n. 89, n. 94, n. 102 e p. 212.

[71] Cfr. Iosephi Valentinelli, Regesta documentorum Germaniae historiam illustrantium, Monaco di Baviera 1864, p. 258, Sitzungsberichte der Bayerische Akademie der Wissenschaften, III, cl. IX Bd. II, p. 714.

[72] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, f. 40, in C. N. Sathas, op. cit., p. 166; e l’edizione fiorentina: Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 61.

[73] Cfr. Deno John Geanakoplos, Greek Scholars in Venice. Studies in the Dissemination of Greek Learning from Byzanthium to Western Europe, Cambridge 1962, pp. 55-56, in cui l’autore tratta del corpo dei cosiddetti estradioti o stratioti (dal greco stratiotes, soldati), una cavalleria leggera al soldo della Repubblica veneziana che veniva reclutata fra i Greci, mentre il comando supremo era affidato ad un nobile veneziano; Idem, Byzantine East and Latin West. Two Worlds of Christendom in Middle Ages and Renaissance. Studies in Ecclesiastical and Cultural History, Oxford 1966, pp. 119-123; D. M. Nicol, Venezia e Bisanzio, Milano 1990 (trad. ital. di Idem, Byzanthium and Venice. A Study in Diplomatic and Cultural Relations, Cambridge 1988), pp. 534-535 e n. 9, che cita, a sua volta, Idem, The Byzantine Family of Kantakouzenos cit., pp. XV-XVII e 230-233. C. N. Sathas, op. cit., pp. 1-131, pubblica numerosi documenti relativi al reclutamento, alla provvigione ed all’impiego di alcuni stratioti in Dalmazia e nelle isole di Zante, Corfù, Cefalonia e Candia, negli anni 1548-1570. Uno di essi era Iakobos Diassorinos, che scrisse a Filippo Melantone e a Filippo II, re di Spagna, per incitarli ad una crociata destinata a liberare la Grecia dagli Ottomani, e che era parente e compagno d’armi di Iakobos Basilikos, principe di Moldavia (Despot Vodã, Ioan Iacob Eraclid, 1561-1563), Cfr. Ibidem, p. XXVII.

[74] Nelle lettere dedicatorie: a Leone X (ms. Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier, f. 1r, in C.–V. Gandossi, op. cit., p. 157); a Enrico II (cod. Parigino fonds italien 881, f. 1, in C. N. Sathas, op. cit., p. 135).

[75] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, f. 177, in C. N. Sathas, op. cit., p. 261; la citazione manca sia nelle edizioni a stampa, sia nel codice di Montpellier.

[76] Cfr. C. N. Sathas, op. cit., pp. XVII-XVIII; D. M. Nicol, On the origins cit., p. XX; e per l’edizione di G. Sphrantzes, il già citato V. Grecu, op. cit., passim; si vedano anche: Din domnia lui Mahomed al 2-lea: anii 1451-1467. Critobul din Imbros, edizone a cura di V. Grecu, Bucarest 1963; Critobuli Imbriotae, Historiae, recensuit Diether Roderich Reinsch, Berolini, Novi Eboraci 1983 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae, 22); Laonici Chalcocondylae Atheniensis, De origine et rebus gestis Turcorum libri decem, nuper e Graeco in Latinum conversi: Conrado Clausero Tigurino interprete …, Basileae 1556; e l’edizione più recente, Laonici Chalcocondylae Historiarum Demonstrationes, ad fidem codicum emendavit annotationibusque criticis instruxit Eugenius Darko, 3 voll., Budapest 1922-1927; ma esistono anche l’edizione di Immanuel Bekker, in “Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae”, 1843; la trad. inglese con commento (ll. I-III) di Nicolaos Nicoloudis, in “Historical Monographs”, 16, 1996; e Idem, ‘Επιδράσεις των “’Αποδείξεων ‛Ιστορίων” του Λαονίκου Χαλκοκονδύλη στο εργο του Θ. Σπανδούνη, in Hellenic Historical Society: 14th Panhellenic Historical Conference, Tessaloniki 1994, pp. 135-142.

[77] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, ff. 4-6, ff. 11-12, f. 17, f. 23, f. 25, ff. 177-178, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 138-139, p. 143, p. 145, p. 148, pp. 153-154, pp. 260-261; e passim nelle due edizioni a stampa. Anche nel ms. Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier, f. 11r (in C.–V. Gandossi, op. cit., p. 161), compaiono citati gli historiographi de Turchi.

[78] Cfr. A. Bombaci, Storia della letteratura turca, Milano 1956.

[79] Cfr. D. M. Nicol, On the origins cit., pp. XXI-XXII, che si basa su A. Pertusi, I primi studi cit., pp. 480-482 (per l’Angiolello) e p. 471 (per il Sagundino). Ma per il Liber de familia Autumanorum id est Turchorum, o anche De origine et gestis Turcorum liber, che Nicola Sagundino scrisse nel 1456 per Enea Silvio Piccolomini e che fu pubblicato per la prima volta a Vienna nel 1551, si veda anche A. Pertusi, La caduta di Costantinopoli, 2 voll., Verona 1976, II, pp. 126-141; per l’Historia Turchesca dell’Angiolello, ripresa da Donato di Lezze (c. 1490-1514): Ion Ursu, Donado da Lezze, Historia Turchesca (1300-1514), Bucarest 1909; Idem, Uno sconosciuto storico veneziano del secolo XVI (Donato da Lezze), in “Nuovo Archivio Veneto”, no. 19, 1910, pp. 5-25.

[80] Quando il Cambini scrive (Idem, Commentario … cit., p. 1r): “La natione de Turchi, sono suti alcuni scrittori massime moderni, che per haverli veduti dominare i paesi, dove fu l’antica Troia, et alludendo etiandio al nome, hanno detto esser discesa da Theucri” e poi confuta questa teoria, si inserisce in un dibattito nel quale, da un lato, Bartolomeo di Giano, nella Epistula de crudelitate Turcarum in Christianos (P. G. 158, 1056 C, 1057 D, 1062 C), e Leonardo di Chio, nella Historia Constantinopolitanae urbis a Mehumete II captae (P. G. 159, 923 A, 925 D), avevano avvalorato l’origine dei Turchi dai Teucri, mentre dall’altro l’avevano negata Poggio Bracciolini (in Angelo Mai, Spicilegium Romanum, IX, Roma 1843, p. 642), Enea Silvio Piccolomini (Aeneae Sylvii Piccolominei Senensis, Opera …, Basileae 1571, p. 350, p. 384, p. 394) e Martino Segono (Tractatus de provisione Hydronti et de ordine militum Turci et eius origine, in cod. Ambr. Q. 116 sup., ff. 157v-159v), di cui riparleremo. Cfr. A. Pertusi, I primi studi cit., p. 478, pp. 480-482, p. 492, p. 497. Il Cambini e il Cantacuzeno potrebbero aver conosciuto anche la Recollecta di Jacopo de Promontorio, olim de Campis, del 1475 (Recollecta nella quale è annotata tutta la entrata del gran Turco, el suo nascimento, sue magnificentie, suo governo, suoi ordini et gesti, etc., che tratta degli anni 1345-1475 ed è pubblicata da F. Babinger, Die Aufzeichnungen des Genuesen Iacopo de Promontorio-de Campis über den Osmanenstaat um 1475, in “Sitzungsberichte des Bayerische Akademie der Wissenschaft. Philologie-historische Klasse”, Monaco di Baviera 1957, pp. 29-95; si veda anche: Idem, Maometto il Conquistatore e gli Umanisti d’Italia, in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, Firenze 1966, pp. 438-439), le Enneades di Marco Antonio Coccio detto Sabellico, storico ufficiale della Repubblica veneziana dal 1488 al 1506, anno della morte, o almeno la parte dedicata ai Turchi (Enneades Marci Antonii Sabellici ab orbe condito ad inclinationem Romani Imperii, Venetiis 1498; Secunda pars Enneadum Marci Antonii Sabellici ab inclinatione Romani Imperii uspue ad annum MDIIII, Venetiis 1504, pp. LXVIIIIv-LXXr), e Giovan Battista Cipelli (Egnatius), che inserì nella sua opera, scritta probabilmente fra il 1510 e il 1515, il De origine Turcarum (Ioannis Baptistae Egnati Veneti, De Caesaribus libri III a dictatore Caesare ad Constantinum Palaeologum, hinc a Carolo Magno ad Maximilianum Caesarem, Venetiis 1516, ff. non numerati; il De origine Turcarum è alle pp. 715-717 in Vitae Caesarum quarum scriptores hi: C. Svetonius Tranquillus …, Basileae 1545).

[81] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, f. 38, in C. N. Sathas, op. cit., p. 164; Marini Barletii, Historia de Vita et Gestis Scanderbegi Epirotarum Principis, Roma 1509 o 1510; e Marini Barletii, De obsidione Scodrensi ad Serenissimum Leonardum Laurentanum Aristocratiae Venetae principem, Venetiis 1504 (nell’Historia del Sansovino, pp. 300-321). La menzione del Barletius manca in ambedue le edizioni a stampa e nel codice di Montpellier.

[82] Cfr. Constantine of Ostroviça, Memoirs of a Janissary, traduzione a cura di B. Stolz, commenti storici e note a cura di S. Soucek, Ann Arbor 1975 (A. Pertusi, I primi studi cit., pp. 482-484); Giorgio di Ungheria, Tractatus de moribus condicionibus et nequicia Turcorum, Roma 1480. Le opere di questi due autori, come scrive il Pertusi, trattano per lo più di vicende personali, come nel genere del diario, e non in modo specifico dell’origine e della potenza degli Ottomani. Sul Petanèiæ ritorneremo alla fine del nostro contributo.

[83] Cfr. M. Sanudo, Diarii … cit., vol. VII, col. 175; Ibidem, vol. VIII, col. 126; Ibidem, vol. XXI, col. 514.

[84] Cfr. Gulielmi Budaei, Epistulae, Parigi 1575, p. 152.

[85] Cfr. M. Sanudo, Diarii … cit., vol. XXI, col. 514.

[86] Florensz Dedel di Utrecht, precettore di Carlo V, fu papa fra il 1522 e il 1523.

[87] Cfr. C. N. Sathas, op. cit., pp. XXII-XXIII.

[88] Cfr. M. Sanudo, Diarii … cit., XVII, p. 66; Ibidem, vol. XXIV, col. 1337.

[89] Cfr. C.–V. Gandossi, op. cit., pp. 152-155.

[90] Giulio de’ Medici (Firenze, 1478 – Roma, 1534), figlio illegittimo di Giuliano e cugino di Giovanni (Leone X), divenne papa il 19 novembre 1523. In un documento del gennaio 1537, Clemente VII definisce Theodoro: “dilecto filio, patritio Constantinopolitano, familiari et commissario nostro”. Cfr. Kenneth M. Setton, The Papacy and the Levant (1204-1571), 4 voll., Philadelphia 1976-1984, III vol., p. 411, n. 57.

[91] Enrico II di Valois (St. Germain-en-Laye, 1519 – Parigi, 1559), figlio di Francesco I, gli successe nel 1547. Per il cod. Parigino fonds italien 881 (olim 10266), membr., in 4°, ff. 360, si veda: Antonio Marsand, I Manoscritti italiani della Regia Biblioteca Parigina, Parigi 1835, pp. 461-462. Redazioni successive a quella del 1538 potrebbero essere testimoniate da due codici della Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia: Cic. 848 e Cic. 853.

[92] Luigi XII (Blois, 1462 – Parigi, 1515), figlio di Carlo di Orléan e di Maria di Cléves, ed erede al trono in quanto a capo del ramo collaterale dei Valois–Orléan, successe al cugino Carlo VIII il 7 aprile 1498.

[93] La traduzione francese fu pubblicata da Charles H. A. Schefer, Petit Traicté de l’origine des Turcqz par Théodore Spandouyn Cantacasin (sic), Parigi 1896, ma nel 1519 era già uscita anonima a Parigi la prima edizione a stampa: La généalogie du grant turc a present regnant … pour François Regnault. In seguito vi furono traduzioni in altre lingue, in spagnolo: Historia del originen de los emperadores turcos, por Teodoro Espanduino, traducida del toscano al castellano por Diego de Torremocha, Comendador de la Camara de los Privillegios de la Horden de Santiago, eseguita verso il 1520 e dedicata a Carlo V (manoscritto 789 della Biblioteca Nazionale di Madrid); in tedesco (probabilmente dalla redazione offerta a Leone X): Spanduinus Cantacusinus, Der Türkenheymligkeyt: ein New nutzlich büchlein von den Türcken Ursprung pollicey hofsytten und gebreuchen in und ausser den Zeitten des Kriegs mit vil andern warhafftigen lustigen anzeygenn … durch Casper vonn Ausses in eingemein teutsch gezogen, Bamberg 1523, di cui un esemplare è conservato a Bucarest, nella Biblioteca dell’Accademia Romena (coll. I 143, 105).

[94] Alessandro Farnese (Canino, Viterbo, 1468 – Roma, 1549) fu papa Paolo III a partire dal 13 ottobre 1534 e fino al 10 novembre 1549.

[95] Cfr. F. Sansovino, Historia … cit., pp. 107-131, pp. 132-140, pp. 182-207, in part. p. 140, in cui il Cantacuzeno scrive: “[…] quando a Dio piaccia di darmi quell’otio ch’io desidero, vedrà il mondo una compiuta historia delle cose di Persiani e del Soldano, che sarà meno utile che cara”. Il Safavide Ismā‛īl (1487-1524, Scià di Persia dal 1502), fuggito in Iran sotto la pressione degli Ottomani e dei Turcomanni di Uzun Hasan, potendo contare sull’appoggio di sette tribù turcomanne (che, a causa del loro copricapo, presero il nome di Kizilbaš, teste rosse), riuscì a conquistare tutto l’Iran, a far capitolare la città di Bagdad (1509) e ad annettersi gran parte dell’Iraq, nel quale favorì la diffusione dello Sciismo. In seguito cercò di estendere l’influenza safavide anche sull’Anatolia ottomana, inviando predicatori a diffondere fra i nomadi l’antico messaggio Sūfī. Bayezid II sottovalutò il pericolo, tanto che un tal Šāh-qulu, messosi a capo di una rivolta, giunse a conquistare gran parte dell’Anatolia centrale, sconfiggendo l’esercito ottomano presso Kayseri (agosto 1511), ma poi i ribelli si dispersero a causa della morte del loro capo.

[96] In seguito uscirono due edizioni a stampa anche a Lione, nel 1569-1570 e nel 1590-1591.

[97] In ambedue le edizioni a stampa, oltre a quelle parti che abbiamo già segnalato, mancano naturalmente le lettere dedicatorie: a Leone X (ms. Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier, ff. 1r-2v, in C.–V. Gandossi, op. cit., pp. 157-158) e ad Enrico II (cod. Parigino fonds italien 881, ff. 1-3, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 135-137). L’edizione di Lucca è dedicata dallo stampatore ad un non meglio identificato Luca Grilli, mentre l’edizione fiorentina reca la dedica di Ludovico Domenichi (1515-1564): “A dì primo di Settembre MDLI in Fiorenza”, a Camillo Vitelli, conte di Montone (Perugia) e condottiero, che nel 1554, dopo aver servito Francesco I in Francia, giunse in Toscana per militare sotto Cosimo I nella guerra contro Siena. Passato ai Senesi, il Vitelli, giacché la guerra volgeva al peggio, decise nel 1557 di tornare in Francia, ma durante il viaggio morì a soli ventinove anni. Cfr. Corrado Argegni, Enciclopedia Biografica e Bibliografica “Italiana”. Serie XIX. Condottieri, Capitani, Tribuni, vol. III, Milano 1937, p. 381, s. v. Vitelli Camillo. Ma soprattutto, nelle due edizioni a stampa, mancano completamente alcune parti che si possono leggere nel solo manoscritto parigino del 1538: ad esempio la parte finale (cod. Parigino fonds italien 881, ff. 177-178, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 260-261) in cui il Cantacuzeno dà conto del suo modo di procedere nella composizione, tanto per lo stile, per il quale si scusa, quanto per le scelte metodologiche e di merito (ma nell’edizione di Lucca, al termine dell’opera, compare una breve nota: “L’autore alli lettori”, in cui il Cantacuzeno si scusa soprattutto per la brevità e per l’omissione di alcuni episodi della storia ottomana che il lettore può ritenere determinanti; ma niente si dice nella nota circa lo stile e la lingua, come invece accade nella redazione del 1538, da cui, perciò, questa nota assai si discosta). Inoltre, ed è ciò che più conta, non vi è traccia, in ambedue le edizioni a stampa, di tutta quella sezione che inizia dal f. 72 del cod. Parigino fonds italien 881 (in C. N. Sathas, op. cit., pp. 189 e ss.) e che riguarda gli anni di regno del Solimano a partire dal 1526. È probabile dunque che le due edizioni a stampa, pur con le loro differenze, testimonino una redazione da collocare fra il 1523 e il 1526, giacché in ambedue è menzionato Clemente VII, che divenne papa proprio nel novembre del 1523. Per l’edizione fiorentina, però, è bene tener conto della personalità del dedicante, quel Ludovico Domenichi su cui ritorneremo. Cfr. Domenico Moreni, Annali della tipografia fiorentina di Lorenzo Torrentino, Firenze 1819, s. v. Domenichi Ludovico; Francesco Bonaini, Dell’imprigionamento per opinioni religiose di Renata d’Este e di Lodovico Domenichi, e degli uffici da essa fatti per la liberazione di lui, secondo i documenti dell’Archivio Centrale di Stato, in “Archivio Storico Italiano”, n. s., X, no. 20, 1859, III, IV, 2, pp. 268-282; Annali di Gabriel Giolito, Roma 1890-1895, s. v. Domenichi Ludovico; Abdelkader Salza, Intorno a Ludovico Domenichi, in “Rassegna bibliografica della letteratura italiana”, VII, 1899, pp. 204-209; Alessandro d’Alessandro, Prime ricerche su Ludovico Domenichi, in Le corti farnesiane di Parma e Piacenza (1545-1622), vol. II, Forme e istituzioni della produzione culturale, Roma 1978, pp. 171-208; Angela Piscini, Domenichi Ludovico, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 40, Roma 1991, pp. 595-600; Rudolph M. Bell, How to Do It: Guides to Good Living for Renaissance Italians, Chicago 1999, passim.

[98] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, ff. 35-36, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 162-163; e l’edizione fiorentina del 1551: Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., pp. 53-56 (nell’edizione di Lucca, pp. [44-47]).

[99] Si tratta, naturalmente, del figlio di Vlad Dracul, Radu il Bello, succeduto al fratello Vlad l’Impalatore dal novembre 1462 al gennaio 1475.

[100] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, ff. 36-37, in C. N. Sathas, op. cit., p. 163 (un testo quasi identico è testimoniato nell’edizione di Lucca, p. [47]); questo il testo dell’edizione fiorentina, Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 56: “[…] Né per questo Maometto si spaventò punto, anzi fatto più coraggioso, l’anno seguente se n’andò all’assedio della fortissima città del Carabogdano, la qual prendendo la fece tributaria. Similmente il principe dell’altra Valacchea tolse a pagare il doppio più che non pagava il Carabogdano, oltre ch’egli s’obligò d’andare a baciare il pié all’Imperador Maometto ogni due anni una volta in persona. Onde egli pose per ostaggio nella corte del Turco il più stretto parente ch’egli havesse. Fu sempre Carabogdano in gran riputatione appresso i Turchi, il che accadde percioché andando Maometto a mettere il campo a Chieli, et Moncastro, egli diede il cuore a Carabogdano, con manco di venti mila combattenti, di assaltare avanti che fusse venuto il giorno l’essercito de’ Turchi, nel quale si ritrovava il Turco proprio in persona. Carabogdano quantunque tagliasse a pezzi gran moltitudine de’ Turchi, nondimeno sopraggiunto il dì non poté seguir la vittoria incominciata; percioché tanta era la turba de’ Turchi, che non potendo regger l’impeto loro, gli diede le spalle, et si fuggì salvando la più parte de’ sua soldati. Costui è asente dalle gravezze, percioché egli non è tenuto dare ostaggi al Turco, né tenuto d’andare a baciare personalmente il pié all’Imperadore, come sono tenuti a far gli altri suoi vassalli”. Nel ms. Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier, ff. 11v -12r e f. 12v (in C.–V. Gandossi, op. cit., p. 161), mentre è assente l’assedio di Belgrado e la Bosnia è appena nominata, per la Moldavia compaiono solo le seguenti note: “[Mehmet II] poi che fece più guerre con Carabogdan principe de la Inferiore Valacchia: tandem lo fece tributario sì esso come lo principe de [f. 12r] l’altra Valacchia [f. 12v] […] Fo a campo in persona a Cheli et Moncastro, terre del principe de Valacchia, quale non potendo expugnar abbandonò l’impresa”.

[101] Cfr. La libreria di Anton Francesco Doni, a cura di Vanni Bramanti, Milano 1972, p. 308.

[102] Il Domenichi, compiuti i primi studi a Piacenza dov’era nato nel 1515, si recò a Pavia e a Padova, per frequentarvi, negli anni 1530-1537, maestri come Celio Secondo Curione, Andrea Alciati e Lelio Sozzini, tutti in qualche modo vicini all’eterodossia religiosa. Inoltre il giovane Ludovico teneva rapporti epistolari con Francesco Berni e Pietro Aretino (Lettere scritte a Pietro Aretino da molti signori, comunità, donne di valore …, Bologna 1873, pp. 252-255). Laureatosi in legge a Padova, il Domenichi rimase a Piacenza fino al 1543 e qui conobbe il Doni, frequentando con lui l’Accademia degli Ortolani. Lasciata Piacenza per Venezia, si legò alla stamperia di Gabriel Giolito de’ Ferrari curando le Rime, che testimoniano, con la loro ispirazione petrarchesca, un interesse per le regole di lingua e di stile impostesi dopo il Bembo. Nel 1545 uscirono due classici volgari: il Laberinto d’amore del Boccaccio e Il Petrarca …; inoltre il Domenichi curò il primo libro delle Rime diverse di molti eccellentissimi autori. Ma soprattutto nello stesso anno, dopo il Morgante maggiore del Pulci, uscì l’Orlando innamorato del Boiardo, nel quale il piacentino non si contentò di emendare gli errori delle stampe precedenti, ma provvide ad adeguare la lingua regionale del Boiardo alle regole dettate da Pietro Bembo (Elissa Weaver, “Riformare” l’Orlando innamorato, in AA. VV., I libri di Orlando innamorato, Modena 1987, pp. 117-144, in part. pp. 137-139). Il Domenichi, già dal 1545, manifestò interessi storici con le traduzioni di Polibio, Delle imprese de Greci, e con l’Historia di M. Bernardo Giustiniano … dell’origine di Vinegia. Il Polibio era già stato dedicato a Cosimo I e, nel marzo 1546, il Domenichi giunse a Firenze preannunciato dall’Aretino, che lo incaricò di presentare alla corte medicea il suo Terzo libro delle lettere (Parigi 1609, p. 161, p. 271, p. 284, p. 304), e dal Doni, che aveva una piccola stamperia a Firenze. Il Domenichi, ricercando la protezione di Cosimo, gli dedicò anche le Opere Morali di Xenophonte (1547), quindi cominciò a collaborare con la tipografia fiorentina dei Giunti. Già dal periodo veneziano il piacentino aveva dimostrato un’inclinazione, confermata anche a Firenze, verso le tesi religiose eterodosse: ne sono un esempio le traduzioni di Erasmo, Cornelio Agrippa, Della vanità delle scienze (Venezia 1547, dedicata a Cosimo I), Luciano, Due dialoghi (Firenze 1548), e quelle anonime di Calvino, Nicomediana, e Johann Sleidan, Commentarii (Firenze 1557). Ma continua a manifestarsi nel Domenichi anche la tendenza al plagio e ai pastiches letterari, come evidenziano La nobiltà delle donne (Venezia 1549), l’Historia de detti et fatti notabili (Venezia 1556), la commedia Le due cortigiane (1563, un plagio delle Bacchides di Plauto), e La donna di corte (1564). Per quanto riguarda le Facezie e motti arguti di alcuni eccellentissimi ingegni (1548), si trattava della pubblicazione di un manoscritto in cui erano stati annotati da Giovanni Mazzuoli, detto lo Stradino, alcuni motti e facezie del Poliziano, opera di cui il Domenichi si ascrisse il merito (Gianfranco Folena, Sulla tradizione dei “Detti piacevoli” attribuiti al Poliziano, in “Studi di filologia italiana”, XI, 1953, pp. 431-448). Con Bernardo di Giunta, dopo il fallimento della stamperia del Doni, il Domenichi pubblicò le opere di Agnolo Firenzuola intervenendo pesantemente sui manoscritti: colmò lacune, modernizzò il lessico, eliminò i passi sconvenienti o incomprensibili (Giuseppe Fatini, Per un’edizione critica del Firenzuola, in “Studi di filologia italiana”, XIV, 1956, pp. 21-175). Si inaugurò, quindi, dopo la traduzione del X libro dell’Eneide di Virgilio, la collaborazione con Lorenzo Torrentino (Laurens Lenaerts van der Beke), un fiammingo giunto a Firenze nel 1547 e divenuto tipografo ufficiale della corte medicea, per il quale il Domenichi tradusse Luciano, Curzio Rufo, ma soprattutto alcune opere di Paolo Giovio: La vita di Ferrando d’Avalo Marchese di Pescara … (1551), Delle istorie del suo tempo … (1553), Gli elogi … (1554) e le Lettere volgari (postume, 1560). Il Torrentino, inoltre, aveva interessi religiosi poco ortodossi, per cui il Domenichi si trovò a stampare opere di riformatori cattolici come il fiorentino Piero Carnesecchi, Juan de Valdes e i cardinali Gaspare Contarini e Giovanni Morone. Sono di questo periodo le pubblicazioni dei Commentari del Cantacuzeno e del Trattato de costumi et vita de Turchi … di Giovanni Antonio Menavino (1548). Nel febbraio 1552, per le sue pubblicazioni compromettenti, il Domenichi fu condannato al carcere perpetuo nella fortezza di Pisa, ma per l’intercessione di Renata di Francia, duchessa d’Este, dell’amico Paolo Giovio e dello stesso Cosimo, la condanna fu commutata nel confino di un anno presso il convento di S. Maria Novella a Firenze, da cui il Domenichi poteva uscire a piacimento. A seguito di questa traversia, il favore del piacentino andò crescendo, tanto che egli ebbe, nel 1559, l’incarico di storico ufficiale di Cosimo con la composizione della Storia delle guerre di Siena; inoltre iniziò una collaborazione con Vincenzo Busdraghi, stampatore in Lucca, per cui pubblicò le Rime diverse d’alcune nobilissime donne. Ma, nel 1550, il Busdraghi aveva già pubblicato la prima edizione a stampa del Cantacuzeno, sostenendo nella dedica a Luca Grilli che l’autore: “non come eloquente Oratore, ma come fedele Interprete et raccontator del vero, et de le cose da lui viste et imparate, ha dato opera più tosto al effetto, che a l’apparenza: Perché dove egli ha conosciuto la eleganza esser per mancare, ha voluto supplire con la verità”. A Firenze uscirono traduzioni di Plutarco, Plinio e Boezio; prima si erano avute quelle di S. Agostino e Leon Battista Alberti. Di ritorno a Piacenza, per regolare alcuni affari di famiglia, il Domenichi seguì la pubblicazione del suo Ragionamento nel quale si parla d’imprese d’armi, et d’amore … (Milano 1559); ma a Venezia, nel 1556, era già uscito il Dialogo de l’imprese militari et amorose, di Mons. Giovio … con un ragionamento di M. Lodovico Domenichi nel medesimo soggetto. Nel 1562, a Venezia, il Domenichi stampò i suoi Dialoghi e due anni dopo, a Pisa, nell’agosto 1564 lo coglieva la morte.

[103] Messit secondo il codice parigino e l’edizione di Lucca, Mescit secondo l’edizione fiorentina, ma l’episodio manca nella prima redazione: si tratta di Mezīd Pascià, figlio di Tommaso Paleologo Gidos, che poi diverrà Beylerbey della Romelia, secondo Visir e Gran Visir (Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, ff. 37-38, in C. N. Sathas, op. cit., p. 164; D. M. Nicol, On the origins cit., pp. 95-96, n. 91): “Mandò etiam Mehemet alla obsidione di Rhodi uno di casa Paleologa che si chiamava Messit Bassà; questo era fratello della madre de mio padre, et essendo preso Costantinopoli da’ Turchi fu preso, che era fanciullo di età di anni X, con doi altri fratelli, li quali furono fatti tutti Turchi, et asceseno al grado de Bassà”, mentre nell’edizione fiorentina e in quella di Lucca, dopo la prima menzione di questo personaggio, manca tutta la parte, per così dire, autobiografica. Uno dei fratelli di Mezīd era Hass Murad Pascià Paleologo, favorito di Mehmet II. Al f. 53 del codice parigino, in C. N. Sathas, op. cit., p. 176, giunge all’epilogo la vicenda biografica di questo parente turco del Cantacuzeno, e questa parte è assente nelle due edizioni a stampa e nella prima redazione. Durante l’assedio di Mitilene da parte dei Francesi e dei Veneziani (1499): “[…] aprendo una boca dove era le munitioni, il bassà Mesit [sic], che di sopra parlassimo, che andò in tempo di Maumeth all’impresa di Rodi, benché fusse fratello della madre de mio padre fu acerrimo nemico et esecutor de christiani, et travasando in quelle munitioni, cascò uno travo et ruppeli il collo”.

[104] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, ff. 37-39, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 163-165; e Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., pp. 56-59 (nell’edizione di Lucca, pp. [47-50]). Questa parte manca nella prima redazione. Si ha l’impressione che qui il Cantacuzeno retrodati l’assedio di Rodi (1479-1480) ad un periodo contemporaneo o di poco successivo alla campagne contro i Turcomanni e contro l’Albania (1474), così come accade nel caso del Cambini, che lo fa iniziare dal maggio 1474. Ciò confermerebbe l’ipotesi che in queste pagine lo scrittore greco, trattando di episodi verificatisi fra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta del XV secolo, comprenda la storia della Moldavia fino a Vaslui. Del resto, la genesi dell’opera del Cantacuzeno, che si è accresciuta di volta in volta nelle redazioni successive e si è aggiornata col registrare le notizie più recenti, ma senza badare a mimetizzare le suture, autorizza a supporre che l’autore sia tornato anni dopo sui medesimi passi per aggiungervi episodi successivi, eppur legati al medesimo tema.

[105] Naturalmente le città di Adana e Tarsus, nell’odierna Turchia, conquistate nel 1486 da Kaitbey, sultano dei Mamelucchi. Non ha senso il fraintendimento “Dolina” per “Addena” dell’edizione fiorentina.

[106] Marco Zogli, ossia Balibeg Malkoğoglu, governatore della città bulgara di Silistra, sede di un distretto amministrativo e militare ottomano, ritorna al f. 56 del cod. Parigino fonds italien 881 (in C. N. Sathas, op. cit., p. 178) e in Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 86 (chiamato Marcosogli; nell’edizione di Lucca, p. [73]: Marchossogli), dove è detto “capitano famosissimo” e sembra appoggiare Selim, figlio di Bayezid II, contro quest’ultimo e l’altro figlio Ahmed, favorito nella successione.

[107] Si tratta dei cavalieri detti Aqïnğï. Nel Tractatus de provisione Hydronti et de ordine militum Turci et eius origine, che Martino Segono (o Segonio), Vescovo di Dulcigno (Ulcinij), inviò a papa Sisto IV nei primi mesi del 1480, gli “Acanzii, idest fatales” sono 40.000 cavalieri senza stipendio che devono cedere la quinta parte del bottino al Gran Signore (Cfr. A. Pertusi, I primi studi cit., pp. 523-524); mentre P. Giovio, Commentario de le cose de’ Turchi …, Venezia 1540, p. 33, riferisce che gli Alcanzi sono cavalieri “quali son di natura gran ladroni”. Quindi, nella Relazione di Matteo Zane, letta in Senato nel 1594 (in Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, III serie, vol. III, Firenze 1855, p. 394), i cosiddetti Achingi sono 30.000 uomini di stanza in Grecia, “avvezzi ad ogni patimento, che non hanno per fine il combattere, ma il rubare solamente, e servono a cavallo e a piedi come possono […]”.

[108] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, ff. 47-48, in C. N. Sathas, op. cit., pp. 171-172 (un testo assai simile a quello del codice parigino, con piccole differenze linguistiche, è testimoniato dall’edizione di Lucca, pp. [61-62], in cui però manca il passo “Parvi che li peccati […] esaltati et ampliati”, come nell’edizione di Firenze). Questo il testo dell’edizione fiorentina, Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., pp. 72-73: “[…] Baiazete mosse guerra a Carabogdano, principe della Valacchia, nella quale gli tolse Cheli, et Moncastro, terre fortissime: alle quali, quantunque Maometto suo padre havesse tenuto l’assedio, non le poté però mai occupare. Perché questa vittoriosa impresa mise tanto spavento agli altri, che tutti i Christiani cominciarono a temer forte di Baiazete. Fatto questo egli si rivoltò a muover l’armi al Soldano appresso a Dolina et a Tarso, là dove egli hebbe tre grandissime rotte; et sì come è l’openione [sic] di molti, egli si stima, che quivi fossero ammazzati più di cento venti mila Turchi. Dopo, essendo nata contesa fra il Re di Polonia, et il Carabogdano, egli diede senza difficultà veruna il passo a’ Turchi. Et così Baiazete mandò un suo gran capitano chiamato Marcofodi [sic] con bellissimo esercito, et trascorse la Polonia, et ne menò fuori di quella quasi quaranta mila Christiani prigioni. L’anno seguente havendo fatta la pace il Re di Polonia col Carabogdano, Baiazete mandò da capo il detto Marcofodi con venti mila soldati, per fare il simile di quello che l’anno innanzi havea fatto. La qual cosa intendendo i Polachi [sic] si ritirarono alle terre più forti, in quelle menando le lor vittovaglie. La onde scorrendo i Turchi per que’ paesi, et non trovando che mangiare, tra per la fame che pativano, tra per lo gran freddo che alhora faceva, quasi tutti si morivano. Nondimeno [p. 73] Baiazete oppresse poi lo stato del Signor Valacheo figliuolo del Duca di Santa Sabba. Costui non andò molto tempo che si morì nella città d’Arbe”. Mentre, nel ms. Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier, f. 14v (in C.–V. Gandossi, op. cit., p. 162), il Cantacuzeno scrive: “Questo Baiazit subito che hebbe cacciato et rotto lo fratello, mosse guerra ad Carabogdan principe de Valacchia et tolseli Cheli et Moncastro terre fortissime, alle quale Mehemet suo padre era stato a campo et non le haveva ossuto havere et per tal presa et expugnatione dete timor universalmente a tuti Christiani. Questo mosse guerra al soldan et appresso de Adena et Tharso el campo de dicto Baiazit hebbe tre grandissime rotte che se extima moresse [sic] più de cento vinti milia Turchi. Dapo [sic] questo mandò uno capitaneo chiamato Marco Zogli, qual cose con certi Achinzi in Pollonia et meno ben quaranta milia Christiani presoni”. Da cui risulta che il Cantacuzeno, essendo a Costantinopoli prima del 1509, sembra avere notizie più fresche soprattutto sul regno di Bayezid.

[109] Ma è veramente singolare che il nome Marko Phonti (che in greco moderno si pronuncia Fodi), attribuito ad un principe di Valacchia, compaia in una cronaca greca anonima del XVI secolo (che ricopre gli anni 1371-1512), per cui si vedano: Chronicle of the Turkish Sultans. Χρονικον περι των Τούρκων Σουλτάνων, edizione a cura di Georgios Th. Zoras, Atene 1958, p. 127; Elizabeth A. Zachariadou, Το Χρονικο των Τούρκων Σουλτάνων (του Βαρβερινου ‛Ελληνικου κώδικα III) και το ‘Ιταλικο του πρότυπο, in “Hellenika”, suppl. 14, 1960; Sydney N. Fisher, The Foreign Relations of Turkey 1481-1512 (Illinois Studies in the Social Sciences, vol. 30, n. 1), Urbana 1948. Cfr. D. M. Nicol, On the origins cit., p. 100, n. 112. Forse quella cronaca era conosciuta in Italia dal Domenichi, oppure l’una e l’altro attinsero ad una fonte comune, ma più probabilmente fu l’edizione a stampa del Cantacuzeno ad influenzare la cronaca greca. E del resto, stando a quel che scrive la Zachariadou, la cronaca fu scritta probabilmente da un greco che abitava a Venezia e si basa per buona parte sulla seconda edizione de Gl’Annali Turcheschi overo Vite de principi della casa Othomana (Venezia 1560, 15732) del Sansovino. Per quel che ci riguarda, dunque, constatiamo che la cronaca greca è posteriore al 1551 e all’uscita dell’edizione a stampa del Cantacuzeno, per cui quest’ultimo, a nostro avviso, è possibile che sia stato presente, insieme col Sansovino, all’anonimo autore della cronaca.

[110] Il Cantacuzeno infatti, trattando delle vicende del Ducato di Bosnia, scrive nella versione del codice parigino, mentre nella prima redazione tutta questa parte manca: “Mehemet deliberò poi occupare il ducato et regno di Bossina nel quale era un duca de S. Saba [sc. Stjepan Vukèiæ, (1435-1466)], chiamato da’ vulgari paesani el Cerzecho [sc. Herzog=Duca], che confina con Ragusei, et era loro emulo; el primogenito loro era chiamato Ladislao che havea per moglie una sorella de mio avo nomata Anna [sorella di Theodoro, nonno per parte di madre dell’autore]. El prefatto duca, essendo vecchio et havendo poco rispetto al figliolo et alla nora, prese una meretrice per concubina et menossela in palazzo; essendo questo noto a Ladislao suo figliolo et alla donna Anna molto se dolseno di tal cosa, ma il padre facea di mal in peggio, dicendo, che lui era signore et volea far a suo modo. Unde indignato Ladislao intesosi con alcuni della terra, cacciarono il padre fuori; qual duca per questo essendo molto irato, mandò a Mehemet per ajuto, et délli il figliol minore per ostaggio, il qual fo [sic] fatto Turco da Mehemet, et dapoi creato bassà che si chiama Sinan bassà Cherzecogli [sc. Ahmet Sinan Pascià Herzegoglu, Beylerbey dell’Anatolia]. Et venendo Mehemet intrò nel ducato de Bossina, che ‘l duca vecchio era già morto; et Ladislao non volse aspettarlo, ma se ne fuggì, et venne a Venetia con la moglie et figlioli, et stette a casa nostra alcuni giorni, et de lì passò in Ungheria, ove morse. Et Mehemet li occupò lo stato, lasciando solamente all’altro figliolo del duca vecchio, che si chiamava Vlatheo [sc. Vlatko], Castel Novo [sc. Herzegnovi in Montenegro] con alcuni altri luoghi per suo vivere, et riconoscea Mehemet per signore et pagava ogni anno uno certo tributo, fino che Baiasit figliolo di Mehemet lo cacciò di signoria, et morse in Arbe città di Dalmatia”. Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, f. 35, in C. N. Sathas, op. cit., p. 162 (nell’edizione di Lucca, pp. 44-45). Questo, invece, il testo dell’edizione fiorentina, Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 53: “[…] Maometto si mise in animo di occupare il ducato di Bossina, il quale era un Duca di Santa Sabba chiamato dal vulgo Chezzeco [sic], il qual confinava con Ragusei, et era loro emulo. Costui havea tre figliuoli, de’ quali il primo si chiamava Ladislao, c’havea per moglie una chiamata Anna Cantacuscina, donna oltre ch’ella era di gentil sangue, virtuosa molto. Ora essendo il Duca hoggimai attempato, et portando poco rispetto al figliuolo, et manco alla nuora, prese per concubina una donna del mondo, et ne la menò dentro in palagio. Il che sapendo il figliuolo, e la nuora di ciò si rammaricarono forte col padre. Ma egli ch’era disposto al tutto di fare a suo modo, non curando le lor parole, faceva ogn’hora peggio. Perché sdegnato Ladislao fece un trattato con alcuni della città, et cacciarono fuor il Duca, il qual per ciò molto adirato mandò uno ambasciatore a Maometto quello in aiuto chiamando; in segno di cui gli diede il figliuol minor per ostaggio il qual fu poi fatto Turco da Maometto. Il quale entrando nel Ducato [p. 54] di Bossina, trovò, ch’il Duca vecchio era già morto. Laonde Ladislao non volle aspettare, ma si fuggì et ne venne a Vinegia con la moglie, et co’ figliuoli; et quindi passò in Ungheria, là dove si morì. Ora havendo occupato Maometto quel paese tutto, solamente lasciò all’altro figliuol del Duca un luogo che si chiamava Vlaccho, et Castel nuovo con certi altri luoghi per lo viver suo. Costui riconosceva per Signore Maometto, et ogni anno gli pagava il tributo infino che fu cacciato fuori dello stato”.

[111] Cfr. O. Cristea, op. cit., p. 75.

[112] Cfr. C.–V. Gandossi, op. cit., pp. 156-157. L’opera del Cantacuzeno è importante anche per il fatto che testimonia la prima comparsa di alcuni prestiti linguistici dal turco alle lingue italiana e francese.

[113] Scrive il Cantacuzeno nella dedica a Leone X, conservata nel ms. Ital. H 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier, ff. 1r--1v (in C.–V. Gandossi, op. cit., p. 157): “[…] posime ad investigare et volere intendere li gesti de la casa di Ottomani […] et reusciendomi ben la cosa per havere longa pratica del paese et conversatione de duoi gentilhomeni, molto intimi del Imperatore [sc. Bayezid II], mei amici et parenti homeni de peregrino ingenio et grande noticia de simile cose, non mi contentai alla breve historia de li facti dela predicta casa ennaratami [sic] più volte da loro; ma volsi investigare più oltre ponendovi et tempo et diligentia maiore ad explicare et cognoscere […] oltra quello vedevo io presente havendone rincontro et affirmatione da diverse persone […]”. Forse, citando i due gentiluomini, il Cantacuzeno allude ad Hass Murad Pascià Paleologo, uno dei fratelli di Mezīd Pascià († 1499), e ad Ahmet Sinan Pascià Herzegoglu, Beylerbey dell’Anatolia e fratello minore di Ladislao di Bosnia, ambedue da noi già menzionati. I “dui gentilhuomini molto intimi dello Imperatore de Turchi, miei grandissimi amici e parenti” tornano anche nella dedica ad Enrico di Francia (cod. Parigino fonds italien 881, f. 1, in C. N. Sathas, op. cit., p. 135).

[114] Cfr. D. M. Nicol, On the origins cit., p. XI.

[115] Cfr. N. Iorga, Byzance cit., pp. 30-31.

[116] Cfr. cod. Parigino fonds italien 881, f. 37, in C. N. Sathas, op. cit., p. 163, e l’edizione fiorentina, Th. S. Cantacuzeno, I Commentari … cit., p. 56 (nell’edizione di Lucca p. [47]). Questo giudizio manca del tutto nella prima redazione, la qual cosa dimostra che probabilmente il Cantacuzeno ebbe notizia della rotta di Mehmet II solo più tardi.

[117] Come dimostra la lettera di risposta del re ungherese, che cito nella traduzione italiana pubblicata in E. Kováks Péter, op. cit., pp. 112-113: “Il tuo legato e uomo di fiducia, giunto presso di noi con la tua lettera, ci ha informati della tua generosità e del tuo nobile intento; avendo riconquistato la maggior parte dei tuoi possedimenti e della tua eredità sottratti dal tiranno turco, offri volentieri i tuoi servigi, come scrivi, alla nostra Sacra Corona. Li accettiamo e siamo grati per i tuoi sacrifici […] ben presto un nostro ambasciatore si recherà da te chiarendo meglio le nostre intenzioni e desideri nei tuoi confronti […]”.

[118] Di cui l’attività del Domenichi con il Giolito, a Venezia, e con la Giuntina o il Torrentino, a Firenze, è un esempio. Cfr. Paul F. Grendler, Critics of the Italian World, London 1969, pp. 50-52 e pp. 65-69; Claudia di Filippo Bareggi, Giunta, Doni, Torrentino: tre tipografie fiorentine fra Repubblica e Principato, in “Nuova Rivista Storica”, LVIII, 1974, pp. 318-348; Robert Klein, La forma e l’intelligibile, Torino 1975, pp. 125 e ss.; Amedeo Quondam, Mercanzia d’onore – mercanzia d’utile. Produzione libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel ‘500, in Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna, Bari 1977, pp. 96 e ss. Per l’Historia del Sansovino si veda: P. F. Grendler, Francesco Sansovino and Italian Popular History. 1560-1600, in “Studies in the Renaissance”, XVI, 1969, pp. 139-180.

[119] Cfr. P. Giovio, Commentario … cit., passim.

[120] Cfr. A. Pertusi, I primi studi cit., p. 540, n. 69, sulla scorta dei codd. Ambr. Q. 116 sup., f. 155r, e Ambr. I. 204 inf., ff. 21r-21v.

[121] Cfr. Ibidem, p. 486.

[122] Cfr. Felix Petanèiæ, Quibus itineribus Turci sint aggrediendi, p. 482, in I Cuspiniani, de Caesaribus atque Imperatoribus romanis, Francofurti 1601, pp. 479-484; Peter Matkoviæ, Felix Petanèiæ i niegov opis puteva u Tursku, in “Rad Jugoslavenske Akademije znanosti i umjetnosti”, no. 49, 1879, pp. 106-164, in part. p. 144; F. Babinger, Mahomet II cit., p. 412; A. Pertusi, I primi studi cit., pp. 485-492 e Appendice I, pp. 516-546. Felix Petanèiæ fu, dal 1487 al 1490, amanuense a Buda e probabilmente miniatore nella biblioteca di Mattia Corvino. Passò poi a Dubrovnik nel 1496, come notaio e giudice, quindi di nuovo a Buda, verso la fine del 1501, alla corte del successore di Mattia, Vladislao VII, che se ne servì in alcune missioni diplomatiche: a Rodi (1502), a Venezia (1504), in Spagna, in Francia e a Costantinopoli (1513). Prima del 1512, il Petanèiæ scrisse per Vladislao una Historia turcica (rimasta inedita nel cod. Norimberg. Lat. Ms. Solger 31, 2); e poco prima del 1516 un’opera di cui sono rimaste due redazioni, la prima intitolata: De imperatoribus Turcarum et de militari Turcarum disciplina (I ed. di Conrad Adelman: Felix Ragusinus, De origine et militari disciplina magni Turce domi forisque habitata libellus, s. l. 1530); la seconda: Genealogia imperatorum Turcorum (nel cod. Budapest. Bibl. Nat. Lat. 378, riprodotto interamente da Elena Berkovits, Magyar Kódexek a XI-XVI Században, Budapest 1965, tavole fuori testo). Il Segono, da parte sua, dimostra di essere ben informato anche nel caso della vittoria sugli Ottomani conseguita nel 1462 da Vlad l’Impalatore, principe di Valacchia (1456-1462), così descritta: “Dracula enim cum paucis sed electis militibus Mahumetum Turcorum dominum, potitum iam Maiori Valacchia et ad Minorem occupandam maturantem, hic ad secundam noctis vigiliam aggressus in fugam conversum ad Danubium cum magna suorum caede et ignominia regredi coegit” (si vedano: A. Pertusi, I primi studi cit., p. 540, n. 66, i mss. Ambr. succitati e il F. Petanèiæ, Quibus itineribus cit., p. 482, oltre al F. Babinger, Mahomet II cit., pp. 248 e ss., e al P. Matkoviæ, Felix Petanèiæ cit., p. 144).

[123] Ad esempio, nell’Historia Turchesca l’Angiolello, per aver partecipato direttamente alle campagne di Mehmet II in Moldavia, si sofferma su: “Il Conte Stefano, detto da Turchi Carabogdan”, Cfr. I. Ursu, Donado da Lezze cit., pp. 82-93.