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L’alleanza ideale: appunti per la storia delle relazioni italo-romene nell’ambito della Triplice Alleanza

(1883-1903)

 

 

Rudolf  Dinu,

Università degli Studi di Bucarest/

Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia

 

Dopo il 1878, in seguito alla conquista dell’indipendenza e alla cessazione della tutela – la garanzia collettiva delle sette Grandi Potenze – creata dal Congresso di Pace di Parigi, la Romania dovette, giustamente, definire una nuova strategia di politica estera[1]. Un’interpretazione facile dell’argomento potrebbe essere, e talvolta lo è, quella secondo la quale l’ipotesi stessa di un’alleanza era già ideata dai circoli dirigenti romeni, non appena acquistata l’indipendenza; di conseguenza, le possibili scelte, teoricamente varie, si ridussero ai due Imperi vicini, la Russia e l’Austria-Ungheria. Fu la seconda ad essere preferita. Questa limitazione delle scelte si dovette tanto alle condizioni geopolitiche e geostrategiche del paese, quanto al rapporto di forze del momento. Infatti, il percorso della Romania verso l’alleanza con gli Imperi Centrali rappresentò molto di più di una semplice scelta, e per questo va considerato con tutte le sue sfumature e non in base alla dicotomia rudimentale delle “simpatie” e delle “antipatie” verso gli Imperi Centrali o le Potenze occidentali. Le esperienze successive alla Guerra d’Indipendenza modificarono in modo sostanziale le relazioni della Romania con le Grandi Potenze confinanti. Però, il trattamento destinato alla Romania in occasione del Congresso di pace di Berlino e, soprattutto, l’obbligo di cedere la Bessarabia meridionale alla Russia, contribuirono non tanto al “lastricare la strada per avvicinarsi all’Austria-Ungheria”[2], quanto ad impedire a lungo termine le probabilità di un’alleanza con la Russia.

Nei mesi successivi al termine delle ostilità con l’Impero Ottomano, la posizione di forza dell’Impero zarista nelle relazioni con il suo ex alleato fu risentita come un forte trauma da una parte importante della élite romena. Scattò un forte risentimento che si domò solo con dopo scomparsa di un’intera generazione. La Russia significò in concreto

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un’ossessione per i dirigenti romeni, l’incubo di un’epoca che, a partire dal vecchio Brãtianu, fu portato avanti dai membri del circolo politico-letterario “Junimea”, dai conservatori e dai liberali, tramite Carp, Sturdza e Maiorescu, fino alla Prima Guerra Mondiale. Dal punto di vista della politica estera, la gran parte della storia di questi anni si riduce, in effetti, alla storia di una fissazione, l’ossessione del pericolo russo.

Bisogna tuttavia ammettere che, per molto tempo ancora, al livello dell’establishment non ci sarà una maggiore disposizione neanche nei confronti delle altre Grandi Potenze dell’epoca, una volta tanto corteggiate. La Francia era ancora, all’inizio degli anni ‘80, la prediletta dell’opinione pubblica, dal punto di vista soprattutto sentimentale, poiché la letteratura e la cultura francesi godevano di un gran prestigio, e molti leader politici romeni avevano studiato in Francia. Ma l’atteggiamento del governo francese nei confronti della Romania durante il Congresso di Berlino e nel periodo successivo fece diminuire considerevolmente l’entusiasmo romeno verso la Francia. La percezione della Francia, in quanto paese isolato dal punto di vista diplomatico, e perciò incapace di proteggere in alcun modo la Romania[3], era probabilmente determinante per i fattori di decisione romeni.

Infatti, l’idea di un’alleanza s’impose abbastanza difficilmente in un ambiente politico dominato dalle idee e dagli elementi che furono alla base del processo costitutivo dello Stato, così come fu anche il caso dell’Italia. Anche la Romania si trovò nella situazione di dover elaborare le strategie di politica estera proprio in un momento in cui era ancora segnata dall’esperienza di quei quasi venticinque anni di “neutralità garantita”, di politica d’equilibrio tra le Grandi Potenze vicine. Dunque, la parola d’ordine continuò ad essere, per qualche tempo ancora, la neutralità, la “politica indipendente”, e l’adesione quasi unanime degli ambienti politici a questa scelta ostacolò qualsiasi tentativo d’impegno politico-militare dei vertici dello Stato in uno o altro degli schieramenti d’allora.

L’orientamento della politica estera della Romania indipendente si delineò sotto l’influenza, da una parte, degli sviluppi registrati a livello internazionale, subito dopo il Congresso di Berlino (l’alleanza austro-tedesca, il Dreikaiserbund, la questione danubiana), dall’altra parte, quale conseguenza delle mutazioni prodotte nelle concezioni/strategie dei fattori decisionali autoctoni dello stesso periodo. Questo orientamento si manifestò, in seguito ad un processo complesso svoltosi per più di tre anni, nell’avvicinarsi progressivo agli Imperi Centrali, ravvicinamento sancito tramite il trattato secreto d’alleanza, firmato il 30 ottobre 1883 tra la Romania e l’Austria-Ungheria, al quale lo stesso giorno aderì anche la Germania.

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Per questa scelta fu determinante, oltre a molte altre circostanze, la presenza all’interno del gruppo politico direttivo autoctono, tra altro molto contenuto, d’altronde, una caratteristica allora comune a quasi tutti gli stati europei, di una componente filotedesca di maggioranza e alquanto russofoba. Accanto al sovrano, Carlo I, un Hohenzollern, legato dalle origini come dal punto di vista sentimentale alla Germania, nel cosiddetto decision making process furono implicati alcuni insigni politici e diplomatici, quasi tutti ovviamente attirati da questa Grande Potenza, di cui ammiravano la dinamica forza militare ed economica. Alcuni di loro avevano un background educativo tedesco (il ministro degli Affari Esteri, D. A. Sturdza; il ministro della Romania a Vienna, Petre P. Carp), invece gli altri erano promotori del cosiddetto “modello” di sviluppo tedesco (Carp)[4].

Tra le circostanze che stimolavano una tale scelta c’erano anche quelle economiche. In quel periodo, la Romania dipendeva dal punto di vista economico dagli Imperi Centrali. Là mandava ingenti quantitativi di cereali e molte mandrie di bovini, mentre la Romania era diventata un notevole importatore di beni manifatturieri, soprattutto di quelli provenienti dall’Austria-Ungheria; il mercato finanziario tedesco costituiva un’importante, se non la principale fonte dei prestiti statali in Romania. In percentuale lorda risultava che, nel periodo tra il 1875 e il 1882, oltre 50 % delle importazioni provenivano dall’Austria-Ungheria, e all’incirca 32 % delle esportazioni venivano indirizzate verso la Duplice Monarchia[5]. Anche per quanto riguarda le reti di comunicazione terrestri, la Romania era collegata soprattutto allo spazio austriaco-ungherese, grazie alle due linee di ferrovia, Turnu Severin–Timiºoara e Piteºti–Predeal–Braºov, i lavori per la costruzione di quest’ultimo incrocio ferroviario essendo ultimati nell’estate del 1879.

È altrettanto importante ricordare anche il fatto che le uniche Grandi Potenze che abbiano manifestato l’intenzione di stabilire un rapporto stretto con la Romania, nel senso di un’alleanza politico-militare, quasi contemporaneamente al riconoscimento dell’indipendenza di Stato, furono appunto gli Imperi centrali. Il governo di Vienna, in particolare, riteneva l’alleanza con la Romania non solo opportuna ma anche necessaria, per motivi di sicurezza e a causa della sua strategia di politica balcanica. Dal punto di vista strategico-militare, tale finalità era più che necessaria. In quell’epoca, la frontiera romeno-russa aveva una lunghezza di oltre 900 km e quella austro-romena oltre 1.300 km. Di conseguenza, se la Romania fosse entrata nella guerra accanto agli Imperi Centrali, la frontiera russa si sarebbe estesa più della sua metà; se, al contrario, la Romania avesse partecipato alla guerra, come alleato della Russia, la frontiera austriaca si sarebbe quasi raddoppiata, rispetto alla fase iniziale. Anche nel caso di una neutralità assoluta, l’Austria-Ungheria sarebbe stata costretta a mantenere delle forze importanti al confine con la Romania[6]. Era, dunque, fondamentale per il governo imperiale trasformare il piccolo

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principato in qualcosa di più di un semplice Stato cuscinetto e promuoverlo effettivamente nel glacis strategico austro-ungherese.

In conformità ai consigli espressi dal Capo del Grande Stato Maggiore austro-ungarico, il generale Beck, durante le trattative per il rielaborazione del Dreikaiserbund (1880) Vienna doveva avere il diritto assoluto di veto riguardo all’entrata degli eserciti russi nella Romania, Stato ritenuto d’importanza strategica essenziale per la monarchia. Allo stesso tempo, i termini della Duplice Alleanza dovevano essere modificati, così che non solo la minaccia del territorio dell’Austria-Ungheria costituisse motivo di casus foederis, ma anche “la minaccia della sua capacità militare” – Kriegsmacht – in altre parole, un’eventuale invasione russa nel territorio romeno si riteneva un’aggressione diretta all’Impero[7]! L’idea di stabilire dei rapporti “stretti” con il gabinetto di Bucarest continuò ad essere prospettata anche nel periodo successivo, e la sua attuazione divenne assolutamente necessaria dopo “l’incidente Skobelev”. Del resto, nel momento della crisi, nel febbraio del 1882, lo Stato Maggiore austro-ungarico espresse di nuovo al Ballhausplatz la sua propensione per il rinforzo del sistema diplomatico e militare di difesa della Monarchia tramite il rapido raggiungimento di un’alleanza con Roma e Bucarest[8]!

Sfortunatamente, il modo in cui si erano sviluppati i rapporti politici romeno–austro-ungarici sin dal 1880 (o, meglio, il metodo in cui Vienna intendeva gestirli), relazioni rese difficili dalle profonde controversie economiche e politiche, nascevano delle perplessità circa la possibilità di concludere un’alleanza. Dopo il 1878, soprattutto quale conseguenza della violazione sistematica da parte del governo austro-ungarico delle norme della convenzione commerciale bilaterale del 1875, per limitare le esportazioni romene di bovini, le relazioni economiche e commerciali tra i due stati divennero progressivamente una fonte di tensione politica. Di conseguenza, un primo conflitto scoppiò nel novembre del 1881, con l’incidente diplomatico provocato dal Messaggio al Parlamento del re Carlo I[9]. Dall’estate del 1880, alla controversia economica si aggiunse un’altra, ancora più grave, scaturita dalla questione del controllo della navigazione sul tratto meridionale del Danubio[10],

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il che portò all’accentuarsi della conflittualità latente tra i due paesi. Per i vertici romeni, la questione danubiana procedé a lungo termine, e al pari della crisi tunisina per l’Italia, fu la massima prova che mise in evidenza l’isolamento della Romania sul piano internazionale e la sua impossibilità di attuare una politica di neutralità. Allo stesso tempo la crisi spinse il ceto politico romeno a prendere quanto prima una decisione per concludere un’alleanza assai necessaria al paese. Il percorso verso una tale necessaria finalità, tuttavia, ritardò quasi tre anni, periodo di scontri politico-economici diretti e duraturi con il gran vicino occidentale, tra il 1881 e il 1883, che suscitarono un dibattito diventato in breve tempo di livello internazionale.

In questo conflitto l’Italia, interessata ad accostarsi agli Imperi Centrali, cominciò ad assecondare pienamente i progetti austro-ungarici riguardanti la navigazione sul tratto meridionale del Danubio e, in genere, la politica balcanica del governo di Vienna. La scelta di una simile condotta, evidente a partire dall’estate del 1881, sarà d’altronde dichiarata, con una certa amarezza, dallo stesso ministro italiano degli Affari Esteri, Pasquale S. Mancini, nel 1884, nella sua corrispondenza con l’Ambasciatore dell’Italia a Vienna, il conte Nicolis Di Robilant:

 

“[…] I consigli nostri, i nostri officii hanno fedelmente fatto eco agli adoperamenti ed alle esortazioni della Cancelleria viennese in Montenegro, in Serbia, in Bulgaria, in Rumelia orientale, in ogni luogo insomma dove spuntasse o si svolgesse alcuno dei multiformi fattori della politica balcanica dell’Austria-Ungheria; […] Né a Vienna possono aver dimenticato il segnalato servizio che al nostro alleato rendemmo quando, col nostro atteggiamento nella questione danubiana, abbiamo contribuito a costituire la Romania in quella condizione d’isolamento che, se non valse finora ad assicurare la [sic!] effettiva soluzione del problema

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fluviale, ebbe, però, per l’Austria-Ungheria, un ben più importante risultato, il radicale mutamento dei rapporti suoi col giovane regno”[11].

 

In base a questa testimonianza documentaria, potrebbe asserirsi che l’Italia, tramite il suo contributo all’azione d’isolamento politico-diplomatico della Romania, determinò, almeno indirettamente, ma consapevolmente, l’avvicinamento della Romania a Vienna e, finalmente, l’alleanza romeno–austro-ungarica? Personalmente, sono propenso ad ammettere questa ipotesi.

Le pratiche necessarie per collegare la Romania al sistema di alleanze delle Potenze Centrali furono avviate nella prima metà di agosto del 1883, dopo ripetuti accertamenti reciprochi. Senza riprendere i ben noti dettagli, va detto solo che la visita in Germania e in Austria del re Carlo I, avvenuta tra il 4/16[12]-17/29 agosto 1883, durante la quale furono esaminate le proposte di alleanza, aprì la strada alle trattative concrete condotte dal Presidente del Consiglio, I. C. Brãtianu, con il Principe Bismarck, il 6 settembre 1883[13] a Gastein e, successivamente, a Vienna con il ministro austro-ungarico degli Affari Esteri, Gustav Kalnoky[14].

L’aggregazione della Romania alla Triplice Alleanza fu compiuta il 30 ottobre 1883, quando fu firmato il trattato di alleanza con l’Austria-Ungheria, al quale la Germania acconsentì in modo incondizionato lo stesso giorno. I dirigenti romeni ambivano, infatti, ad un’alleanza diretta con Berlino, ma dovettero accontentarsi con un’alleanza “par ricochet”, pur rischiando “di essere trattati come satelliti dell’Austria-Ungheria”, vista la politica promossa da Bismarck al riguardo della Russia. L’alleanza aveva carattere difensivo (art. 2 – solo l’attacco non provocato avviava il casus foederis, con la riserva che la Romania era obbligata a rispondere solo nel caso degli attacchi non provocati contro l’Austria-Ungheria nelle aree limitrofe), era segreta (art. 6), e con una validità di cinque anni (art. 5)[15]. Per l’Austria-Ungheria il patto del 30 ottobre significò, prima di tutto, rendere definitivo il sistema di alleanza che proteggeva la sua frontiera meridionale: “l’anno 1883 – scriveva il Capo del Grande Stato Maggiore austro-ungarico, il generale Beck – ha portato con sé un vero cambiamento in bene [del sistema difensivo della Monarchia]”[16]. Tramite l’accordo concluso, senza che ci fosse una disposizione espressa in questo senso

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(proposta da Kalnoky, però rifiutata da I. C. Brãtianu), Vienna poteva sperare che il governo romeno non avesse appoggiato e non si fosse lasciato trascinare nei movimenti irredentistici della Transilvania.

L’alleanza consentì alla Romania di uscire dall’isolamento politico internazionale e di risolvere la questione danubiana in modo favorevole ai propri interessi; essa conferì ai romeni valide garanzie di sicurezza, nonché la possibilità di concentrarsi sullo sviluppo economico, sociale e istituzionale interno. L’accordo non era però privo di imperfezioni. La situazione dei romeni dell’Ungheria non costituiva ancora un problema critico nelle relazioni romeno–austro-ungariche ma, col tempo, il problema transilvano, che era già presente nella coscienza pubblica della Romania, avrebbe raggiunto una fase difficile; inoltre, il patto tra i due stati rischiava di non resistere ad un peggioramento della sorte della popolazione romena oltre i Carpazi. Per il momento, l’ostilità comune nei confronti della Russia poteva fungere da legame. Il carattere segreto del trattato dimostrerà i suoi punti deboli, poiché l’articolo 6, ostinatamente ripreso a ciascun rinnovo del trattato, eliminava quasi totalmente l’impatto sull’opinione pubblica. Questo fatto ebbe notevole significato per la Romania – mi avvalgo ora di un frammento, datato verso la fine del 1882, tratto dal diario del Primo Segretario di Bucarest, Alberto Pansa, il quale accennava, disapprovandola, all’alleanza dell’Italia con gli Imperi Centrali: “il giorno in cui fossimo invitati a marciare in nome del casus foederis, non si marcierà [sic!]; e ciò con danno della nostra reputazione”[17].

In questo processo d’integrazione politico-militare della Romania, il dettaglio che colpisce inevitabilmente è l’assenza del consenso dell’Italia, che non fu informata sulle trattative in corso, né invitata a sottoscriverli e neppure consultata. Il colloquio tra i sovrani della Germania e dell’Austria-Ungheria si era svolto a Ischl, nell’agosto del 1883, senza la partecipazione del re d’Italia; l’incontro Bismarck–Kalnoky, avvenuto alla fine dello stesso mese, a Salisburgo, dove si decise, del resto, l’avvio dell’alleanza con la Romania, fu organizzato senza la partecipazione dell’alleato italiano (il ministro degli Affari Esteri Mancini). Questo fu un motivo in più perché l’“errore originario” della Triplice, più precisamente l’esistenza di un rapporto privilegiato austro-tedesco, fosse risentito ancora più intensamente in Italia. E gli italiani non erano gli unici ad avvertire la realtà del momento. Per esempio, le annotazioni del Nunzio Apostolico a Vienna, redatte in occasione dell’arrivo di Ion C. Brãtianu nella capitale dell’impero austro-ungarico, sono un’importante testimonianza in questo senso:

 

“L’udienza data jer l’altro dall’Imperatore al Signor Bratiano, capo del gabinetto rumeno, prima del suo ritorno, può essere considerata come l’ultimo suggello apposto alle trattative iniziate in queste ultime settimane per fare entrare la Rumenia nel concerto austro-germanico. […] Checché ne sia della situazione futura della Rumenia di rimpetto all’alleanza austro-germanica, se questa situazione cioè sia o no del tutto identica a quella che anche l’Italia crede di avere rispetto ai due imperi alleati certo è che, né al principe Bismarck, né al conte Kalnoky, né al Bratiano è sorto neppur da lungi pensiero di sentire l’avviso del

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Mancini e Depretis prima di decidere se la Rumenia debba entrare nella lega e in qual modo e sotto quali condizioni possa o debba essere ammessa. Il che prova che l’Italia occupa in questo concerto un posto abbastanza secondario […]”[18].

 

Nel caso della Romania, le motivazioni che determinano i vertici romeni di eludere il ruolo dell’Italia durante le trattative sono difficili da determinare alla presenza di testimonianze coeve pressoché circostanziali. Nei colloqui con Bismarck, a Gastein, il Primo Ministro romeno I. C. Brãtianu pensa all’Italia, non per indicarla come potenziale alleato della Romania, come probabilmente fosse stato naturale, vista la “latinità” e la “fratellanza di sangue” che le accomunava, ma in quanto “argomento” per sostenere le proprie richieste! Il Primo Ministro romeno era convinto che l’Italia avesse accettato l’alleanza con gli Imperi Centrali solo per la possibilità d’inglobare alcuni territori ritenuti parte dell’italianità (Nizza, Savoia e Corsica) nel caso di una guerra vittoriosa contro la Francia. Deluso dall’idea di una semplice alleanza difensiva, promossa da Bismarck, Brãtianu provò, senza successo, a servirsi di quello che egli considerava essere il precedente italiano per ottenere un trattato offensivo e difensivo corredato di clausole riguardanti gli eventuali acquisti territoriali[19]. Non c’è, però, nessuna testimonianza che attesti il fatto che Brãtianu fu interessato dall’idea di stabilire rapporti di alleanza con il governo italiano oppure che l’argomento sia stato discusso a Gastein o a Vienna.

L’immagine negativa ed errata dei dirigenti romeni al riguardo della realtà italiana – politica, economica e militare – spiega in parte questa diffidenza. In realtà, i romeni non considerano l’Italia una Grande Potenza, ma piuttosto la “cameriera di Franz Josef”, per adoperare la dura formula foggiata dal quotidiano italiano “L’Osservatore Lombardo” nel gennaio del 1883. Oppure, in altre parole, l’Italia fu vista come un elemento ausiliare dei due imperi, dominato dalle decisioni dei suoi alleati più potenti. Infatti, anche gran parte dei diplomatici e dei politici italiani condividevano questa opinione, era ovvio che i romeni la ritenevano alquanto verosimile [Cfr. Tornielli][20]! Infine, forse il pro tempore

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padron del mondo, il cancelliere von Bismarck abbia dichiarato anche agli ufficiali romeni, trovatisi in visita a Berlino o altrove, quello che affermò spesso tra il 1879 e il 1882 circa le cinque Grandi Potenze dell’epoca, ritenendo che l’Italia non poteva essere giudicata una di esse nemmeno nei momenti più incerti per equilibrio europeo[21].

Le realtà italiane rimasero sostanzialmente incognite al sovrano romeno, benché egli ne abbia preso contatto diretto nel 1883 e, ulteriormente, nel 1891. Stando alle parole del leader conservatore Take Ionescu, Carlo I, in tutti questi anni, non fece altro che protrarre l’immagine negativa dell’Italia, fondata probabilmente sulle sue esperienze del primo periodo successivo all’unione del regno: “[…] So che Sua Maestà ha – scriveva intorno al 1915 Take Ionescu, raccontando una conversazione avvenuta tra lui e il re Carlo, due settimane prima dello scoppio della guerra russo-giapponese – un’idea abbastanza mediocre sull’esercito italiano. Allora, io non sono sicuro che nel caso di un numero uguale l’esercito italiano abbatterebbe l’esercito austriaco. […] Non conosce la nuova Italia. La nostra disgrazia, quella di tutti, è che rimaniamo con le idee della nostra prima gioventù, che non ci adattiamo abbastanza rapidamente ai nuovi fatti che succedono intorno a noi. L’Italia sta attraversando una rivoluzione morale di cui, in genere, noi non abbiamo nessun’idea. La nuova generazione, cresciuta nell’Italia liberale, è animata da un patriottismo, o proprio da un orgoglio, difficile da sospettare dietro l’estrema cortesia italiana. La nuova Italia non può più avere il ruolo di Cenerentola tra le Grandi Potenze”[22]. Alcuni anni dopo, nel 1911, uno dei ministri plenipotenziari romeni a Roma, Constantin Diamandi, ammetterà, poco dopo il suo arrivo in Italia, di fronte al ministro italiano degli Affari Esteri, Antonio di San Giuliano, “di essere stato sorpreso dalla pulsazione di vita che ha trovato nelle due sole città viste finora, Bologna e Roma. Non riuscì a dissimulare che aveva dell’Italia moderna, come potenza militare ed economica, un’idea assai inferiore a quella che ora si è improvvisamente formata [il corsivo è nostro]”[23]. Informato su quel colloquio, il ministro italiano a Bucarest, il barone Fasciotti, risponderà freddamente che: “la poca conoscenza dei progressi compiuti dal nostro Paese dalla E. V. rilevata in codesto nuovo Ministro di Rumania è comune alla massima parte dei uomini politici Rumeni, come riferii a V. E., ed è una delle cause del contegno dell’opinione pubblica rumena verso di noi nella circostanza attuale [il corsivo è nostro]”[24].

Concludendo, si nota che le relazioni politico-diplomatiche tra l’Italia e la Romania non ebbero uno sviluppo continuo e progressivo nel decennio successivo al Congresso di Berlino. Al contrario, negli ultimi anni del periodo analizzato, si registrò un peggiora

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mento nei rapporti bilaterali, giacché i due stati adottano l’uno nei confronti dell’altro un atteggiamento di evidente disinteresse. Tuttavia, nonostante tali premesse, a dir poco favorevoli, alla fine degli anni ‘80 del XIX secolo i rapporti politico-diplomatici tra i due governi conobbero un cambiamento spettacolare, dovuto soprattutto all’adesione dell’Italia al trattato d’alleanza austro-romeno, nel 1888. Le circostanze e gli argomenti che determinarono questo avvicinamento sono difficilmente individuabili, ma l’alleanza italo-romena non fu affatto il risultato di un imprevisto.

L’idea dell’accessione dell’Italia al trattato austro-romeno, il 30 ottobre 1883, apparve nel contesto di un ampio progetto di “trasformazione” della Triplice Alleanza, nel senso dell’allargamento della collaborazione militare tra gli alleati tramite le convenzioni militari e navali, progetto ideato dallo statista italiano Francesco Crispi, Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri ad interim. La politica italiana impegnata nell’ottenere il perfezionamento dei rapporti di alleanza con gli Imperi Centrali fu fortemente legata alla gallofobia di Crispi, gallofobia alimentata dalle ambizioni di primato culturale-morale, dal nazionalismo economico e da ragioni di ordine ideologico. La gallofobia spinse il nuovo ministro italiano degli Affari Esteri, Francesco Crispi, verso una politica fondamentalmente anti-francese, lo determinò a stringere le relazioni con gli Imperi nordici e con la Gran Bretagna, per creare intorno alla Francia una sorta di cordone sanitario destinato ad impedire l’ulteriore espansione dell’imperialismo francese[25]. Dal punto di vista strategico-militare, la concezione dello statista siciliano, benché alquanto semplicistica, aveva la sua logica. Nel caso di un potenziale conflitto con la Francia, l’aiuto della Germania costituiva la garanzia del successo nelle operazioni terrestri. Sul mare, invece, la flotta italiana non era capace di affrontare ai pari la flotta francese, molto più forte, e non poteva contare sull’aiuto dei vascelli tedeschi, bloccati nel Mar Nordico. In tal senso, le preoccupazioni degli italiani furono confermate da una valutazione stilata dal generale tedesco Caprivi[26] a metà del novembre 1887. L’Italia, più precisamente il Crispi, aveva bisogno di una garanzia nel Mediterraneo e il solo partner della Triplice Alleanza in grado di offrirgliela, sotto la forma di una convenzione militare-navale, era l’Austria-Ungheria.

Verso la fine del dicembre 1887[27], Crispi trasmette a Vienna la proposta di partecipazione di due corpi d’esercito italiani sul fronte dell’est, nel caso di un’eventuale guerra contro i russi, chiedendo invece la cooperazione della flotta austriaca nel Mediterraneo. L’idea di indirizzare verso la Romania, considerata parte del fronte orientale,

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le truppe assegnate dall’Italia appartenne però al conte Gustav Kalnoky. Il ministro austro-ungarico degli Esteri la potenzia, argomentandola in una discussione con l’ambasciatore tedesco a Vienna, von Reuss, il 7 gennaio 1888. Egli riferisce all’interlocutore che nel caso di una prossima guerra con la Russia, la maggior parte delle ferrovie austriache saranno occupate col trasporto delle proprie truppe verso nord e verso est, e le sole disponibili rimarranno quelle verso la Romania. Perciò, i due corpi d’esercito italiano potevano essere trasportati solo verso la Romania[28]. Il 16 gennaio, l’ipotesi di lavoro formulata dal ministro degli Affari Esteri austro-ungarico viene comunicata, nei medesimi termini, a Roma. “[…] Così i romeni – notava l’ambasciatore austriaco, von Bruck – goderebbero di un aiuto valido e l’ala destra dell’allineamento austriaco si appoggerebbe su un bastione solido. Alla fine, le truppe italiane andrebbero d’accordo con i romeni, “parenti di razza”, e avrebbero la soddisfazione di giocare un ruolo molto più importante di quello di semplici satelliti dell’esercito austriaco[29]”. Era ovvio che dal punto di vista dei politici di Vienna l’eventuale presenza militare italiana nell’Est andava regolamentata tramite l’adesione al trattato d’alleanza austro-romeno, e che un simile modus procedendi,

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grazie al precedente tedesco, ridimensionava il rischio di una richiesta di compensazioni dalla parte del governo italiano.

Senza seguire nei minimi particolari il percorso delle trattative, dobbiamo riferire solo che, dopo un mese, il 19 febbraio 1888, la proposta austriaca fu accettata ad referendum da Francesco Crispi; si crearono così le premesse per l’avvio delle trattative effettivi[30]. Vale la pena ricordare che l’intento del ministro italiano degli Affari Esteri fu quello di realizzare un’alleanza diretta con la Romania e non un accordo che sanciva l’assenso ad uno strumento politico-diplomatico già esistente. Lo dimostra chiaramente il progetto autografo del trattato, nella stesura del 26 gennaio 1888:

1. L’Italie et la Roumanie se promettent mutuellement paix et amitié et le maintien de l’ordre politique existant. 2. L’alliance des deux Etats ayant un but conservateur et défensif, l’Italie s’engage de garantir au Roi de Roumanie l’intégrité de son territoire. 3. dans le cas ou la Roumanie était menacée par la Russie, S. M. le Roi d’Italie se concertera avec S. M. l’Empereur d’Autriche-Hongrie, dans le but de défendre contre toute agression la puissance attaquée. 4. Dans le cas de participation à une guerre commune, les hautes parties contractantes s’engagent à ne conclure ni armistice ni paix que d’un commun accord entre Elles. 5. Le présent traité est signé sous le sceau du secret sur son contenu et sur son existence. 6. La durée de ce traité est de 5 ans à partir du jour de l’échange des ratifications. 7. Les ratifications de ce traité seront échangées à Rome dans un délai d’un mois, ou plus tôt si faire se peut[31].

Il progetto elaborato da Crispi, rispetto al trattato austro-romeno – il cui testo gli era sconosciuto – non prevedeva un casus foederis immediato nel caso di un’aggressione contro uno dei firmatari e, molto importante, garantiva l’integrità territoriale della Romania il che, sicuramente, in altre circostanze – nel caso in cui la Romania non sarebbe stata solo parte informata, ma direttamente implicata in queste trattative – sarebbe stato probabilmente accolto con più interesse a Bucarest. Non c’è però nessun indizio che ci permetta di affermare che gli ufficiali romeni avessero mai preso conoscenza della sua esistenza. Infatti, l’intervento del governo romeno fu ulteriore alle prime discussioni italo-austro-tedesche e perciò non ebbe alcun influsso sull’andamento complessivo delle trattative.

Il progetto italiano non fu accolto tanto bene dal governo di Vienna, che era interessato non all’integrità territoriale della Romania o al perfezionamento del suo sistema di alleanze, ma piuttosto ad ottenere – tramite l’accessione all’accordo austro-romeno – l’intervento militare italiano, a fianco alle truppe delle Potenze Centrali, nel caso di un attacco russo. Come già detto, il trattato austro-romeno implicava, all’articolo 2, il reciproco obbligo d’aiuto militare nel caso dell’aggressione dei terzi. In concreto, l’adesione a questo trattato avrebbe significato per l’Italia un immediato casus foederis, qualora la Romania o l’Austria (dunque non solo la Romania) fossero attaccate dalla Russia o da

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un altro Stato confinante. Ed è esattamente quello che si proponeva il gabinetto di Vienna. Si spiega così il motivo per il quale, subito dopo, il ministro austro-ungarico degli Affari Esteri, Kalnoky, fece tutti gli sforzi possibili per persuadere Crispi a rinunciare all’idea di un’alleanza diretta con la Romania a favore dell’adesione al trattato già in atto tra la Romania e l’Austro-Ungheria. Per una simile formula opterà d’altronde anche il cancelliere Bismarck, un po’ più tardi, il 30 marzo 1888, come risulta da un dispaccio indirizzato all’Ambasciatore di Vienna, il principe Reuss[32].

A partire dalla fine del febbraio, il Primo Ministro Francesco Crispi lascerà l’iniziativa delle trattative all’ambasciatore italiano a Vienna, il conte Costantino Nigra, dimostratosi sin dall’inizio disposto ad accettare e a sostenere il modus procedendi voluto dal governo austro-ungarico. Nigra fu, infatti, quello che, secondato dal ministro italiano a Bucarest, Francesco Curtopassi, insistette presso il titolare del Dicastero degli Affari Esteri per domare le sue incertezze e ammettere la formula austriaca[33]. Crispi acconsentì il 7 aprile, trasmettendo all’ambasciatore di Vienna l’ordine di redigere, insieme a Kalnoky, l’atto di adesione al trattato[34]. Intanto Nigra, a sua volta, capì – almeno in parte – la gravità degli obblighi che l’Italia si preparava ad assumere, e pretese agli austriaci l’introduzione di certi “limiti per ciò che riguarda le stipulazioni degli articoli 2 e 3”, già contestate anche dal Presidente del Consiglio[35]. Il testo effettivo dell’atto di adesione fu redatto l’11 aprile 1888 e affidato ad un corriere austriaco il giorno successivo[36].

Nigra allegò al progetto un ampio rapporto (12 aprile), tramite il quale cercava, da una parte, di limitare le dimensioni degli obblighi assunti, e, da un’altra, di spiegare

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perché era stata preferita una tale modalità di avvicinamento alla Romania, a scapito di un’alleanza diretta:

 

“[…] Secondo questo progetto, S. M. il Re d’Italia fa accessione al trattato del 30 ottobre 1883. Ma siccome quel trattato contiene negli articoli 2 e 3 stipulazioni che non sono applicabili all’Italia, così l’accessione è data con restrizioni che limitano gl’impegni dell’Italia, dell’Austria-Ungheria e della Rumania all’obbligo reciproco di concertarsi per un’azione comune, che sarà posteriormente e a tempo utile determinata, semprecché si verifichino le eventualità che possono dar luogo al casus foederis, quale è contemplato nei detti articoli 2 e 3. […] Il progetto, quale fu concordato fra il conte Kalnoky e me, salva la di lei approvazione, mi sembra dover rispondere alle intenzioni dei quattro governi interessati. […] Ho detto qui sopra che il progetto sembra dover rispondere alle intenzioni dei governi interessati. Difatti non potrebbe ora essere questione, a mio avviso, d’un trattato attuale ed effettivo d’alleanza fra l’Italia e la Rumania. Né potrebbe trattarsi d’una guarentigia, né l’Austria-Ungheria sarebbe disposta a stipularla, né la Germania l’ha promessa, né converrebbe all’Italia d’assumere un tale impegno che non sarebbe facile a tenere e che sarebbe d’altronde unilaterale. Quello che importa fare per ora, salvo sempre il di lei avviso, si è che l’Italia affermi anch’essa l’intenzione pacifica e conservatrice che guidò e inspirò le stipulazioni del 30 ottobre 1883 e se ne renda partecipe e solidale, e nel tempo stesso si apra l’adito a stipulazioni per un’azione effettiva comune se questa sia resa necessaria dagli eventi e consigliata dal comune interesse”[37].

 

Qualsiasi esperto avrebbe potuto facilmente osservare – in base al progetto e alle spiegazioni elencate nel rapporto allegato – che i limiti imposti da Nigra non erano rilevanti e non facevano altro che sostituire l’intervento immediato con uno mediato tramite una “convenzione speciale”. Questo non significava però la cancellazione dell’obbligo dell’Italia d’intervenire presso la parte contraente, qualora si fossero verificate le condizioni previste all’articolo 2. Un’eccellente prova era costituita, in questo senso, dalla facilità con la quale Vienna aveva accettato più tardi la clausola “restrittiva” chiesta dalla parte italiana. Nonostante questo, il testo, in questa stesura, fu presentato dal Preside del Consiglio all’approvazione del re Umberto I, avvenuta il 19 aprile 1888[38]. Il trattato d’accessione dell’Italia all’alleanza austro-romena fu firmato dal ministro italiano a Bucarest, Francesco Curtopassi, il 9 maggio 1888[39], integrato in seguito, a Vienna, dall’atto corrispondente firmato dall’ambasciatore Nigra e dal conte Gustav Kalnoky (15 maggio)[40]. Il cambio degli strumenti di ratifica avvenne a Sinaia, il 19 giugno 1888[41].

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Così, l’adesione dell’Italia al trattato austro-romeno del 1883, per quanto paradossale potesse sembrare, accadde senza che i vertici politici italiani avessero immaginato e desiderato una simile estensione degli propri accordi ed obblighi nell’ambito della Triplice Alleanza. Al posto del molto più desiderato perfezionamento della Triplice Alleanza, nonché dell’ottenimento della collaborazione navale con l’Austria-Ungheria contro la Francia, Crispi riuscì a coinvolgere l’Italia in un settore del sistema politico-militare internazionale nel quale non aveva interessi diretti ed immediati, decisione che procurò il vantaggio esclusivo dell’Austria-Ungheria, della Romania e della Germania, senza darglieli la certezza del dovuto compenso per l’impegno assunto. In seguito all’accettazione di obblighi gravi ed inutili si annullavano, in gran parte, i vantaggi ottenuti dal Di Robilant nel 1887, dopo il rinnovamento della Triplice Alleanza. Creato come parte integrata degli altri strumenti della Triplice, l’accordo e le sue previsioni avrebbero in sostanza gravato sull’Italia per tutto il tempo in cui essa fu collegata a questo sistema politico-militare.

Dal punto di vista delle motivazioni del principale artefice del trattato, Francesco Crispi, il passo fatto il 9/15 maggio 1888 sembrava iscriversi perfettamente nella logica generale del “crispianismo”, un fenomeno complesso e diffuso all’epoca che tuttora dev’essere approfondito, ma il quale, in linee generali, significò il primato della politica estera, “il sogno del prestigio internazionale”[42], il senso offensivo delle alleanze, protezionismo, rapida crescita delle spese militari, colonialismo, ecc. Crispi fu il “crociato” disposto a combattere per l’affermazione e il riconoscimento della posizione dell’Italia quale “Grande Potenza”, e fu sempre lui a portare agli italiani le lettere patenti che confermavano questa prestigiosa collocazione, secondo gli appunti dell’ambasciatore tedesco a Roma, Solms, al rientro dal viaggio a Friedrichsruh (ottobre 1887)[43]. “Il signor Crispi non è solo disposto, ma desidera ardentemente che l’Esercito italiano lotti accanto a noi, perché così la collaborazione militare e politica dell’Italia sarà decisamente espressa nella zona orientale”, aveva dichiarato il ministro austro-ungarico Kalnoky nel febbraio del 1888, avendo intuito perfettamente le ambizioni e le aspirazioni di Crispi per assicurare alla sua patria un vero status di Grande Potenza.

Da questo punto di vista, l’adesione dell’Italia al trattato austro-romeno fu l’effetto scontato di una politica dominata dall’incanto della grandezza. L’alleanza con la Romania, soprattutto così com’era stata formulata, significò per Crispi un’importante conferma, in termini politici, giuridici, morali e addirittura militari, della posizione di Grande Potenza dell’Italia. Secondo i teorici del XIX secolo, una “Grande Potenza” era lo Stato che, a differenza degli altri chiamati in causa solo dai loro interessi diretti, si “trovava, attraverso la forza delle cose, mescolato in tutti i grandi affari” ed “era in misura d’esercitare un’influenza in tutte le deliberazioni comuni”[44]. Tramite quest’alleanza l’Italia s’inseriva,

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almeno teoricamente, in maniera più precisa e altrettanto rafforzata nel meccanismo di gestione degli affari sud-est europei, il trattato con la Romania rappresentava una delle vie privilegiate attraverso quali l’influsso italiano (politico, economico, culturale) poteva penetrare ed espandersi in quest’area.

Questi termini dell’alleanza indicavano, in senso largo, l’Italia quale garante del status quo nell’Europa Orientale, dell’ordine territoriale e, addirittura, politico-sociale, mentre sul piano immediato la collocavano tra i “protettori alleati” del piccolo regno romeno. Ovviamente, tutto questo si trovava nelle pagine dei trattati il cui segreto fu gelosamente custodito. L’attuazione di quanto pattuito fu però diversa dalle attese dei firmatari.

A breve termine, l’alleanza italo-romena, grazie al carattere assolutamente segreto del patto sottoscritto, non determinò modifiche essenziali nella cognizione reciproca del livello delle due società. In altre parole, le due nazioni continuarono, almeno per un periodo, ad ignorarsi allo stesso modo di prima; quanto allo Stato romeno, in certi ambiti dell’opinione pubblica non mancavano gli atteggiamenti critici o addirittura ostili nel confronto degli italiani. Dopo solo due anni dal perfezionamento del trattato, nel dicembre del 1890, un osservatore molto più imparziale dei diplomatici italiani, il ministro tedesco a Bucarest, Bernhard von Bülow, accennando allo stato delle relazioni italo-romene, menzionava: “Benché i romeni siano molto fieri della loro origine dalle legioni di Traiano, qui esiste, almeno per ora, poca simpatia ed ancora meno interesse per gli eventi italiani. L’attenzione e l’inclinazione dei romeni sono tanto occupate con la Francia – o, più precisamente, con Parigi – che per l’Italia, anche se geograficamente ed etnograficamente molto più vicina alla Romania, non rimane granché. In più, dalla parte francese e russa c’è uno sforzo affinché l’Italia sia abbassata negli occhi dei romeni per ciò che riguarda le relazioni politiche, economiche e culturali”[45].

Anche al livello delle relazioni intergovernative, gli inizi furono piuttosto timidi, le trasformazioni inerenti all’accordo del 1888, sostanzialmente positive, essendo di breve portata. Del resto, non potevano essere spettacolari considerati i limiti del trattato. Benché sia in gran parte superfluo, dobbiamo precisare che l’alleanza conclusa tra i due stati era mediata, par ricochet, e per ciò, prima di agevolare lo sviluppo di relazioni bilaterali, nell’ambito del sistema della Triplice Alleanza o al di fuori di essa, indicava soprattutto una linea politico-diplomatica prefissata dai termini del trattato di base austro-romeno e dalla politica generale della Triplice.

Ugualmente superflua, ma non meno necessaria, è anche un’altra precisazione: nel 1888 lo statuto della Romania era lo stesso del 1883, cioè di potenza associata alla Triplice Alleanza; associata tramite trattati diretti ed indiretti che la situavano però nella postura di satellite nei confronti delle tre Grandi Potenze. La Romania – affermava nel febbraio del 1888 l’ambasciatore italiano a Berlino, De Launay – era “l’avamposto” della Triplice Alleanza nell’Oriente; la Romania – scriveva un anno più tardi un giornale di

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Venezia, L’Adriatico – era “la sentinella avanzata della Triplice Alleanza sul Danubio”[46]. Per vari motivi, di ordine politico, militare, morale, e addirittura giuridico, la Romania non era invece, e neanche più tardi lo sarebbe diventata, partner a pari diritti delle tre Grandi Potenze.

Di conseguenza, è molto facile desumere la maniera in cui l’Italia, membro della Triplice Alleanza, intendeva gestire quest’alleanza: una maniera “alterata”, da una parte dal tipo di rapporto–approccio scelto (Grande Potenza – Piccola Potenza), dall’altra dal principio (sottinteso come uno dei regolatori dei rapporti all’interno della Triplice Alleanza) costantemente sostenuto dal gabinetto di Vienna, del primato degli interessi austro-ungarici tanto nel Sud-Est europeo quanto soprattutto in Romania (quello cioè dell’interesse derivato dell’Italia), principio generalmente accettato dai vertici politici italiani, almeno fino allo scoppio della crisi bosniaca. Questa regola non scritta fu il principio basilare delle relazioni italo-austriache ed ebbe un duplice impatto negativo poiché imponeva non solo una serie di limiti alla strategia balcanica dell’Italia, ma improntava un atteggiamento negativo dei vertici politici romeni verso l’alleato italiano. Una simile “carenza”, associata ad altre circostanze più o meno fortunate, già ricordate (la posizione geografica dei due stati, la mancanza di legami dinastici, il potenziale economico-finanziario limitato dell’Italia, l’idea che il governo romeno gravitava – per volontà del sovrano e della maggioranza dei suoi consiglieri – prevalentemente nella sfera d’influenza tedesco-austriaca, ecc.), indicava sin da allora i limiti entro i quali si sarebbero sviluppati i rapporti italo-romeni.

Nel periodo successivo allo compimento dell’alleanza italo-romena, nell’ambito della Triplice, l’unico momento notevole della politica italiana nei confronti della Romania, nel senso di una relazione effettiva e diretta all’interno dell’alleanza, fu legato alla crisi russo-romena dell’aprile-maggio 1889. All’origine di questa crisi fu l’espulsione da parte del governo di Bucarest, nel marzo del 1889, di alcuni sudditi russi (venditori ambulanti di icone) accusati di propaganda panslavista. La decisione presa dal gabinetto romeno ebbe come conseguenza l’inasprimento pericoloso dei rapporti russo-romeni, – già tesi da alcuni anni – e l’imminente interruzione delle relazioni diplomatiche tra i due stati, poiché il governo russo presentò un ultimatum chiedendo misure di risarcimento per l’offesa subita. Allarmato dalla prospettiva di un’aggressione russa contro la Romania – il che avrebbe costituito un casus foederis per l’Italia, nonostante tutte le limitazioni introdotte nell’accordo d’adesione – il Crispi iniziò, tramite i rappresentanti diplomatici italiani a Vienna e a Berlino, delle trattative per stabilire una linea d’azione comune degli alleati, destinata ad evitare lo scoppio del conflitto militare. La Germania, ammettendo la necessità di mantenere la Romania nella sfera d’interessi delle Potenze Centrali, per impedire “l’invasione russa verso il Mediterraneo, attraverso i Balcani”, rigettò l’idea di un intervento comune degli alleati a favore del gabinetto di Bucarest, argomentando che solo l’Austria-Ungheria, l’Italia e l’Inghilterra avevano interessi diretti e fondamentali in quella zona. La scelta della reazione compatta degli alleati fu però negata anche dai governi di Vienna e di Londra, essendo preferita, in linea estrema, la variante della “consulenza” e del sostenimento unilaterale. Dobbiamo ricordare anche la soluzione non realistica, respinta

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d’altronde dall’Austria-Ungheria, pensata dal Crispi per “assicurare” la sicurezza dello spazio romeno e balcanico di fronte all’espansionismo russo, vale a dire la fondazione di una confederazione militare serbo-bulgaro-romena sotto la direzione del re di Romania, Carlo I[47]!

Il primo trattato di accessione dell’Italia all’accordo austro-romeno scadeva il 1 novembre 1891, contemporaneamente al trattato bilaterale austro-romeno, nel momento in cui il rinnovamento del patto divenne impossibile per il sovrano romeno, Carlo I, a causa dell’ascesa al governo dei conservatori, quali ignoravano l’esistenza degli accordi con le Potenze Centrali. A Roma, la questione riguardante il rinnovamento del trattato d’adesione dell’Italia all’accordo austro-romeno fu studiata dal nuovo Presidente del Consiglio e ministro ad interim degli Affari Esteri, il marchese Antonio Starabba Di Rudini (1839-1908), colui che seguì le trattative già dal periodo conclusivo delle negoziazioni riguardanti la proroga del trattato della Triplice Alleanza (maggio 1891). A quell’epoca, nonostante le ripetute spiegazioni fornite al nuovo Primo Ministro dall’ambasciatore italiano a Vienna, Nigra, gli fu più che difficile capire “i criteri, […] le intenzioni, […] le speranze” per i quali fu accettato nel 1888, senza nessuna compensazione, “un così oneroso patto qual è quello di trascinare, in Italia, popolo ed esercito ad una guerra contro la Russia a beneficio dell’Austria-Ungheria, o della Rumania […]”[48]. Le conclusioni tratte da questa semplice analisi furono quasi negative: Rudini riteneva che l’impegno assunto fosse uno “grave”, perché, qualora si fosse materializzato il casus foederis, all’Italia sarebbe stato impossibile evitare un intervento armato[49]. In altre parole, il nuovo governo italiano non solo considerava l’impegno preso nel maggio del 1888 come inopportuno e dannoso, ma sperava anche di poter evitare la sua proroga nel 1891/1893.

L’incarico di risolvere il nodo gordiano spettò, alla fine, ad un altro gabinetto, quello presieduto da Giovanni Gioliti (insediato il 15 maggio 1892), nel quale il Dicastero degli Affari Esteri fu affidato all’ammiraglio Benedetto Brin. A causa di varie circostanze, però, il mantenimento degli obblighi assunti nei confronti della Romania diventò per il nuovo governo non tanto una libera scelta, quanto una decisione necessaria. Tra queste circostanze, possiamo ricordare brevemente innanzitutto il peggioramento progressivo delle relazioni austro-romene, in seguito all’inasprimento della situazione sociale e politica dei romeni abitanti nei confini della Duplice Monarchia. Inserita tra gli elementi d’importanza europea all’inizio degli anni ‘90, la questione transilvana divenne un vero “tallone d’Achille” per la Monarchia austro-ungarica, facendo sorgere dei dubbi rispetto alla viabilità e all’efficienza effettiva dell’alleanza tra il Regno Romeno e le Potenze Centrali. La politica ungherese di assimilazione forzata dei romeni transilvani, concretizzata all’inizio del 1891 nella “Legge degli asili d’infanzia”, aveva generato in Romania un’atmosfera così tesa che il ministro plenipotenziario tedesco, von Bülow, riferiva il 1 marzo che era “esposta al pericolo non solo la dinastia Hohenzollern ma anche le relazioni finora amichevoli con

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la Germania e la Triplice Alleanza”[50]. Sotto la pressione dell’opinione pubblica, il re Carlo I ed i suoi ministri, tramite la mediazione della Legazione tedesca a Bucarest, chiesero ripetutamente tra 1890-1891 l’intervento di Berlino presso Vienna e Budapest per migliorare le condizioni dei romeni della Transilvania e del Banato[51]. Gli interventi dell’imperatore Guglielmo II e del cancelliere Caprivi, nella speranza auspicata di moderare i rapporti romeno–austro-ungarici non ebbero tuttavia dei risultati concreti, poiché il gabinetto di Vienna rifiutò d’accettare il problema dei romeni transilvani quale causa dell’allontanamento della Romania dalle Potenze Centrali[52].

A partire dal gennaio 1891, la situazione della Romania divenne ancora più agitata, in seguito allo scoppio di una crisi dinastica generata dall’intenzione del principe ereditario Ferdinando di sposare una delle damigelle d’onore della regina Elisabetta, la giovane Elena Vãcãrescu, figlia del ministro romeno a Roma. Il progetto di matrimonio, approvato e, probabilmente, ispirato dalla regina Elisabetta, incontrò però quasi subito il dissenso assoluto del re e dei suoi consiglieri, il che provocò un conflitto aperto all’interno della famiglia regnante. Sofferente per una depressione nervosa acuta che la investì, Elisabetta, accompagnata da Elena Vãcãrescu, lasciò la Romania, il 16 luglio 1891, si trasferì a Venezia, e vi soggiornò a partire dal 18 luglio[53]. Poiché la soluzione conclusiva della crisi tardava, ai primi di settembre, Carlo I, preoccupato dalla salute della regina, decise di andare personalmente a Venezia. Prima di partire, il re espresse al ministro italiano a Bucarest “il desiderio vivo di spostarsi – in quest’occasione – a Monza o in qualsiasi altra parte, per rendere omaggi agli Augusti Sovrani” dell’Italia[54]. Il sovrano romeno arrivò a Venezia il 5 settembre 1891 e vi rimase fino al 16 settembre quando, accompagnato da Elisabetta, andò a Pallanza, stazione turistica montana nelle vicinanze di Milano, dove la regina proseguì la sua convalescenza[55]. In queste circostanze, il governo tedesco decise di approfittare della presenza del re romeno in Italia e, rifacendosi all’influsso benefico che Umberto I poteva avere sul suo alleato orientale, chiese al sovrano italiano e al suo governo d’intervenire a favore della proroga dei trattati che legavano ancora la Romania alla Triplice Alleanza[56].

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La richiesta tedesca fu formulata in modo da avere una duplice finalità: eliminare le esitazioni del sovrano romeno e, nello stesso tempo, assicurare in anticipo il consenso del governo italiano per il rinnovamento dell’accordo d’adesione al trattato austro-romeno. E tutto questo perché era prevedibile l’obiettivo da raggiungere, poiché accettando d’intervenire a favore della proroga del trattato austro-romeno, Umberto I si metteva nella situazione di non poter ulteriormente rifiutare il rinnovo dell’assenso italiano allo stesso patto. È molto probabile che il marchese di Rudini, che doveva capire le vere ragioni della richiesta tedesca, si fosse piegato alla fine alla decisione del suo sovrano, rinunciando alle obiezioni già formulate circa l’opportunità dell’adesione dell’Italia all’accordo austro-romeno. È la conclusione indicata dal fatto che, il 26 settembre 1891, Umberto I, andando incontro al desiderio del governo imperiale tedesco, accettò la richiesta del sovrano romeno (23 settembre), quindi lo ricevette a Monza[57].

La visita si svolse tra il 18/30 settembre e il 21 settembre/3 ottobre 1891. Il re Carlo I fu ricevuto a Monza con tutti gli onori dovuti alla sua carica, alla presenza della maggior parte dei membri della Casa di Savoia[58]. Durante gli incontri privati avuti con Umberto I e con il Presidente del Consiglio, il marchese di Rudini, avvenuti il 30 settembre e il 1 ottobre, accennando ai suoi disegni in materia di politica estera, il sovrano romeno assicurò gli interlocutori della decisione di mantenere saldamente gli impegni assunti con i trattati che legavano la Romania alla Triplice Alleanza; la sua politica estera – dichiarava senza mezzi termini il re della Romania – non sarebbe cambiata nemmeno di una virgola[59].

Dobbiamo ancora approfondire la retroscena di questo episodio dei rapporti italo-romeni. Non si deve tuttavia esagerare il peso che ebbero gli incontri avvenuti in Italia nella mentalità del sovrano romeno, del resto abbastanza rigido per quanto riguardavano gli stimoli che lo spingevano a rivalutare la situazione internazionale ed a costruire la propria strategia di politica estera. Non dobbiamo dimenticare che la visione dei politici romeni e dello stesso sovrano sui rapporti internazionali si formava soprattutto in base ai contatti diretti, quasi esclusivamente con le autorità di Berlino e di Vienna, contatti stabiliti e perseguiti dal re, dal Presidente del Consiglio o dal ministro degli Affari Esteri, anche in base ai legami dinastici diretti con la famiglia imperiale tedesca e ai rapporti personali del re Carlo I con l’imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe, nonché alla fitta corrispondenza del re con alcuni membri della casa imperiale tedesca (il principe, poi Kaiser Federico Guglielmo) e con i membri della propria famiglia, i Hohenzollern, specialmente con suo padre Carlo-–Anton.

La strategia politico-diplomatica romena si fonda, dunque, nel periodo che precedette lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, sulla collaborazione costante e privilegiata con la Germania e l’Austria-Ungheria. L’Italia non poteva avere che un ruolo secondario in questa formula di collaborazione, e di fatto, per la Romania, fu proprio un

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interlocutore di secondo piano nel suddetto periodo[60]. È vero che in circostanze speciali questa gerarchia si rovescia, in un certo senso, a favore dell’Italia, il che si può verificare almeno in un’occasione prima dello scoppio della conflagrazione mondiale. Possiamo però considerare l’incontro dei due monarchi, l’unico del resto nella storia prebellica dei rapporti bilaterali italo-romeni, una simile circostanza? Per ora, la documentazione conosciuta non ci consente un’analisi concludente. È molto probabile che l’intervento del sovrano italiano abbia avuto in quel momento un significato speciale, proprio dal punto di vista delle ultime evoluzioni registrate nei rapporti austro-romeni: quando i movimenti irredentistici s’intensificavano, l’Italia acquistava sempre di più un ruolo importante di passivo positivo tra le Potenze Centrali – l’atteggiamento dei vertici italiani diventava per i politici romeni l’unica ragione per far accettare all’opinione pubblica romena l’associazione de facto alla Triplice Alleanza. Il sovrano romeno aveva un simile concetto sul ruolo dell’Italia, idea che esprimerà ripetutamente dopo il 1900 ai ministri plenipotenziari italiani accreditati presso il governo a Bucarest.

Il secondo trattato d’alleanza austro-romeno fu firmato il 25 luglio 1892 a Sinaia, località di residenza estiva dei reali romeni, conservando quasi interamente la formula stipulata nel 1883. La sola modifica aggiunta riguardava la validità del patto, e all’art. 5 si precisava che il nuovo trattato sarebbe rimasto in atto per quattro anni invece di cinque; nel caso in cui non fosse denunciato un anno prima della scadenza, la proroga s’intendeva attivata per altri tre anni[61]. L’Italia aderì al trattato il 28 novembre 1892, rispettando ad literam i termini stabiliti nel 1888. Il nuovo accordo sarebbe rimasto in vigore durante il periodo di validità del trattato austro-romeno (25 luglio 1896 e 25 luglio 1899, a meno che non fosse stato annullato prima)[62].

Nemmeno dopo il 1892 l’alleanza italo-romena, riassestata nella classica formula indiretta, non si dimostrò più feconda di quanto lo fosse stata fino allora per le relazioni politico-diplomatiche bilaterali. Furono poche, anche in seguito a questa data, le occasioni in cui la Romania poté avvalersi del sostegno italiano nell’ambito dei problemi di carattere internazionale o zonale. Infatti, l’Italia continuò ad essere doppiamente condizionata nei suoi rapporti con la Romania, da una parte dalla contingenza o non contingenza dei suoi interessi rispetto a quelli del regno danubiano, dall’altra dall’intento di essere, possibilmente, in consonanza con Vienna e Berlino nel suo dialogo con il governo di Bucarest.

La mancanza reciproca d’iniziative bilaterali ostacola, anche dopo il 1892, l’evoluzione dei rapporti italo-romeni verso una normale collaborazione diretta e coerente, le relazioni fra i due stati continuarono a svilupparsi nei limiti stabiliti negli anni precedenti. L’Italia, in mancanza d’iniziative concrete, interferirà raramente con il suo alleato orientale, rispondendo a volte alle richieste di sostegno politico-diplomatico del governo di Bucarest,

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però soltanto nella misura in cui i suoi interessi coincidevano con quelli romeni o comunque non fossero dannosi agli interessi strategici del regno italiano. Nell’autunno del 1892, per esempio, nel contesto della rottura intervenuta nei rapporti diplomatici tra la Romania e la Grecia, in seguito al conflitto scoppiato per l’affare Zappa[63], il governo Giolitti–Brin accettò con prontezza e simpatia di difendere gli interessi dei sudditi romeni di Grecia. Il ministro italiano degli Affari Esteri considerava “di essere opportuno offrire al governo romeno la prova dell’interesse e dell’amicizia che il governo del re d’Italia nutriva verso loro”[64]. Il favore richiesto dalle autorità romene, era però abbastanza facile da accettare perché non comportava alcun obbligo speciale nei confronti dello Stato romeno, giacché l’Italia voleva mantenere un atteggiamento alquanto prudente nella controversia romeno-greca. Lo stesso governo tuttavia, qualche mese dopo, nel marzo del 1893, durante i lavori della Conferenza sanitaria internazionale svoltesi a Dresda, si riteneva in impossibilità d’intervenire a favore del governo alleato romeno, che era in dissidio con la Russia a causa del regime sanitario sul canale danubiano di Sulina. Per l’Italia, come d’altronde anche per gli altri due partner della Triplice, era “più importante di non scontentare la Russia in una controversia in cui non era implicato nessuno dei suoi interessi diretti”[65].

Le relazioni italo-romene seguirono lo stesso percorso sterile anche dopo il ritorno al potere di Francesco Crispi, nell’inverno del 1893 (15 dicembre 1893-5 marzo 1896). Confrontato con gravi difficoltà interne, lo statista siciliano dovette concentrarsi questa volta, per più di un anno e mezzo, sull’attività di bonifica dei problemi sociali ed economici, dimostrando così poca attenzione per gli affari internazionali, in genere, e per le questioni dell’Oriente europeo, in particolar modo. Quindi, in queste circostanze, la relazione speciale dell’Italia con la Romania rimase ancora in uno stato di letargo, quasi dimenticata dal governo italiano. E sarebbe rimasta così a lungo, se un incidente di carattere tragicomico non avesse turbato il percorso dei rapporti italo-romeni.

Come ricordato, il trattato italo-romeno firmato nel maggio 1888 aveva un carattere volutamente segreto, al pari dell’atto principale austro-romeno. Questa alleanza con la Romania era tanto secreta che, agli inizi del 1895, il titolare della Consulta, il savoiardo Alberto Blanc, non solo ne ignorava l’esistenza, ma avanzava delle proposte d’intesa politico-militare al governo di Bucarest[66]. E tutto ciò succedeva nel contesto di un’ascensione quasi sincrona dei movimenti irredentistici in Italia e in Romania[67]. È ovvio che,

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alla fine, l’intero affare diventò una semplice discussione “accademica”. Tuttavia, l’iniziativa del ministro italiano – notevole soprattutto per lo scioglimento dell’immobilità che Italia aveva dimostrato fino allora nei confronti della Romania – merita essere ricordata per i termini in cui fu ideata l’alleanza: Blanc, come lo fece Crispi nel 1888, propose un accordo diretto tra i due stati e, in più, un patto di carattere pubblico (pensato così proprio per fare più noto il legame raggiunto tra i due stati e gli Imperi Centrali). Con la Romania legata al Blocco centrale tramite un trattato diretto con la “madrepatria”, il peso dell’Italia sarebbe incrementato in maniera più che evidente nell’ambito della Triplice Alleanza.

Le considerazioni del ministro romeno a Roma, Emanuele Lahovari, relative ai motivi che determinavano un simile progetto del ministro Blanc, sembrano confermare questa interpretazione: il momento prescelto – credeva il diplomatico romeno – era legato alla vicinanza della scadenza della Triplice Alleanza e alle trattative successivi per il rinnovamento. Però quello che aveva spinto il ministro italiano degli Affari Esteri a questa iniziativa non era l’interesse comune della Triplice Alleanza, perché in questo caso la proposta non giungesse da Roma; il motivo non poteva essere nemmeno la preoccupazione per gli interessi romeni poiché l’Italia non promuoveva una politica della fratellanza latina. L’Italia – notava Lahovari – rappresentava l’elemento meno importante nella Triplice Alleanza, ma era anche il più ambizioso; la situazione economica e le capacità militari limitate del Regno d’Italia non potevano però sostenere, nell’ambito delle trattative con gli alleati, il ruolo voluto dai suoi vertici politici, quindi legittimare i suoi ideali. Il governo italiano poteva dunque essere interessato a fornire alla Triplice Alleanza un’equipollente morale che compensasse la propria inferiorità materiale: “Une entente préalable avec la Roumanie lui assurerait l’appoint dont elle a besoin pour obtenir voix égale au chapitre[68]! È facile intuire che il ministro romeno degli Affari Esteri, Alessandro Lahovari, “abbastanza sorpreso” dalle proposte del suo omologo, le rifiutò con delicatezza, comunicando al rappresentante diplomatico romeno a Roma che i motivi di questo diniego furono chiariti al Barone Blanc dal messaggio del conte Curtopassi, il suo agente di Bucarest[69]!

L’impeto dimostrato dal governo italiano diede inizio ad un lieve aumento dell’interesse dell’Italia per il suo alleato danubiano, ciò che si fece sentire nel 1895. Nel febbraio del 1895, Blanc disponeva la sostituzione del Curtopassi, trovato in fin di vita a Bucarest, con uno dei suoi protetti, il marchese Emanuele Beccaria Incisa. Il nuovo incaricato diplomatico arrivava nella capitale romena alla metà del mese di maggio (!), provveduto di istruzioni precise per lavorare in vista del “ravvivamento delle simpatie verso l’Italia”, così “vive ed espansive negli anni successivi all’ultima guerra nell’Oriente” (1877), “ombreggiate però d’allora, poco a poco, a favore della Francia”! Sul piano politico, il “Rappresentante del Re d’Italia in Romania doveva agire in comune accordo con i suoi

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colleghi austriaci e tedeschi per far penetrare meglio negli spiriti dei romeni la convinzione che gli interessi del loro paese esigono l’unione con la Triplice Alleanza il cui unico scopo era quello di mantenere la pace e l’indipendenza in generale, e di assicurare lo sviluppo tranquillo e regolare degli Stati Balcanici, in particolare”[70].

Il nuovo ministro italiano a Bucarest doveva inoltre prestare una maggiore attenzione allo sviluppo delle relazioni economiche bilaterali, perché la presenza commerciale ed industriale italiana in Romania era, da molto tempo ormai, superata da quella francese (dobbiamo ricordare che il savoiardo Blanc sentiva un odio viscerale per la Francia e per i francesi, in conseguenza dell’annessione della provincia natale[71])! Il linguaggio utilizzato nelle istruzioni affidate al marchese Beccaria dimostrava che la strategia del governo di Roma al riguardo della Romania aveva registrato un notevole cambiamento, almeno sul piano teorico. Così, secondo il ministro degli Affari Esteri, Blanc, l’Italia doveva superare la posizione di semplice alleato della Romania, diventando, per l’insieme di motivi sopraelencati, nientemeno che il principale partner, il collaboratore privilegiato del governo romeno[72]. Dal punto di vista della Romania, il ritorno al governo dei liberali, nell’autunno dello stesso anno, sembrava una garanzia in questo senso[73]. La volontà politica di entrambe le parti, alquanto ottimistica, almeno in apparenza, preannunciava la disponibilità per le prossime discussioni. Così le “occasioni multiple ed appropriate”, ricordate nel gennaio dal ministro Blanc durante il suo colloquio con l’inviato romeno a Roma, dovevano rendere in tal modo che l’accordo cordiale stabilito tra i due governi potesse dimostrare la sua forza ed efficacia.

Per il momento, gli effetti positivi dell’alleanza erano più manifesti in altri settori, e meno nei rapporti politici. La presenza dell’industria italiana nella Romania perlomeno sembrava essere in crescita, grazie alle relazioni cordiali esistenti tra i due governi. Nel settore dell’edilizia pubblica e privata, per esempio, le imprese italiane avevano verso il 1895 il primato per il volume d’affari, riuscendo ad aggiudicarsi la maggior parte delle

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opere pubbliche avviate e finanziate dallo Stato romeno. Stando alle stime del ministro Beccaria Incisa, tra il 1890 e il 1895, il costo totale di questi lavori, eccetto quelli eseguiti per il Ministero romeno di Guerra, ammontava a 21,5 milioni di franchi francesi[74].

La direzione che Alberto Blanc tentò di dare alle relazioni italo-romene forse sarebbe diventata proficua se il governo italiano fosse sopravvissuto alla crisi politica interna. Il secondo gabinetto Crispi crollò poco dopo il disastro militare di Adua (1 marzo 1896), disavventura che segnava l’epilogo infausto dell’inizio delle mire espansionistiche italiane in Africa. Per gli anni successivi, non si può asserire che la politica orientale del governo italiano abbia avuto una componente romena e … viceversa. Dopo Adua, i contatti bilaterali italo-romeni furono quasi inesistenti. Nell’estate del 1896, il governo Rudini–Caetani intervenne abbastanza favorevolmente al sostegno della Romania nella controversia con la Grecia, dando un apporto, accanto all’Austria-Ungheria e alla Russia, al ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due stati[75]. Poco dopo però, l’Italia si dimenticò rapidamente dei romeni. Nella politica moderata, di “contenimento” del marchese Visconti Venosta (ministro degli Esteri nel periodo 1896-1898 e 1899-1901), furono prese ancora meno iniziative legate alla Romania o a favore di questa.

Del resto, i vertici politici romeni scoprirono in breve tempo l’atteggiamento immutato del governo italiano. Nella primavera del 1897, il governo di Bucarest, in seguito alle notizie riguardanti le pratiche dell’ambasciatore russo a Costantinopoli, al sostegno delle iniziative del governo di Sofia, per ottenere un nuovo berat per i vescovi bulgari, si rivolse al gabinetto italiano alleato domandando l’uso della sua influenza presso la Porta per il riconoscimento ufficiale di Monsignor Antim, il metropolita scelto dai romeni della Turchia europea. Comunicando la richiesta ufficiale inviata dal gabinetto romeno, il ministro italiano a Bucarest ritenne naturale di sostenerla calorosamente, affermando che, “aderendo alla richiesta del Primo Ministro romeno D. A. Sturdza, l’Italia avrebbe fatto un atto di politica giusta. Grazie ai vecchi legami di sangue (!), grazie alle tradizioni storiche e all’inclinazione naturale [il corsivo è nostro], tra tutti gli Stati balcanici la Romania era sicuramente quello dove esistevano le simpatie più diffuse e sincere per l’Italia. Rendendo tali servizi, Italia non faceva che farsi crescere in modo efficiente l’influenza”[76]. Nonostante il parere del Beccaria, il ministro italiano degli Affari Esteri, dopo un’accoglienza favorevole del messaggio arrivato da Bucarest[77], cambiò pensiero seguendo il consiglio dell’ambasciatore a Costantinopoli, Alberto Pansa, il quale riteneva che per l’Italia sarebbe stato meglio non intromettersi in questo affare, soprattutto da sola, poiché il problema non la riguardava direttamente[78]. Dunque, possiamo sostenere che la politica estera italiana non trascurava del tutto i romeni, ma comunque i rapporti italo-romeni non superavano i limiti di un’amicizia passiva. Infatti, l’anno 1897 segnò l’inizio di un lungo periodo di discesa nei rapporti politico-diplomatici italo-romeni, e i contatti fra i due governi furono,

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negli anni successivi e fino alla vigilia della crisi bosniaca, quasi esclusivamente di stampo informale. Il trattato bilaterale di alleanza mantenne la validità, essendo prorogato senza difficoltà il 5 giugno 1899[79].

L’inizio del nuovo secolo portò alla Romania alcuni gravi problemi esteri. Le azioni dei comitagi bulgari nella Macedonia arrecarono un’irritazione considerevole al governo di Bucarest, dove la causa dei Kutzo-Vallachi era tanto risentita. La scontentezza diventò molto intensa nel momento in cui il leader aromeno ªtefan Mihãileanu, caporedattore del giornale Peninsula Balcanicã, fu assassinato, il 22 luglio 1900, in un agguato messo in atto da un nazionalista bulgaro, ªtefan Dimitrov, che sembrava aver eseguito una disposizione precisa del comitato macedo-bulgaro di Sofia. L’omicidio scatenò subito delle gravi tensioni nei rapporti romeno-bulgari, seguite dai preparativi militari da entrambe le parti. I bulgari fecero edificare fortificazioni lungo il Danubio, concentrarono delle truppe in più punti del confine con la Romania, specialmente lungo la frontiera nella Dobrugia. I romeni replicarono con simili azioni eseguendo una serie di consolidamenti del ponte di Cernavodã, così da rendere scorrevoli le comunicazioni tra le province di Valacchia e la Dobrugia. La situazione divenne difficile a causa dell’atteggiamento del governo russo. I vertici politici di Pietroburgo chiesero agli omologhi bulgari di manifestare prudenza e calmo, ma, nello stesso tempo, inviarono armi e munizioni per il rafforzamento dell’esercito di Sofia. In più, il governo russo ritenne opportuno protestare con energia contro l’esecuzione delle fortificazioni di Cernavodã, invocando in questo senso l’articolo 52 del trattato di Berlino, ma senza aver inviato in precedenza simili obiezioni alla Bulgaria, anch’essa colpevole per aver infranto le regole previste nel trattato del 1878[80].

L’affare, mitigato alla fine, provocò l’amarezza dei politici romeni, i quali si resero conto, almeno per il momento, del fatto che nelle questioni di politica internazionale la Romania non poteva contare sul sostegno efficace delle potenze della Triplice Alleanza. Nell’ottobre, il Presidente del Consiglio, D. A. Sturdza, senza usare mezze parole, rimproverò questo atteggiamento al ministro italiano a Bucarest, Beccaria Incisa, e, probabilmente, non solo a lui, dichiarando esplicitamente che durante la crisi bulgaro-romena “la Germania non aveva fatto niente, e l’Italia con l’Austria-Ungheria quasi niente a favore della Romania”[81]. Siccome il governo di Bucarest non aveva alcuna intenzione di sottovalutare “il pericolo bulgaro”[82], in breve tempo decise di analizzare la

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possibilità di riconfigurare il sistema d’alleanza del paese allo scopo di ottenere delle garanzie supplementari destinate ad assicurare la sicurezza della Romania anche nel caso dello scoppio di un eventuale guerra con la Bulgaria. Il 20 aprile 1901, in un memoria presentata al cancelliere tedesco von Bülow dal ministro plenipotenziario della Romania a Berlino, Alexandru Beldiman, il governo romeno cercò di modificare il fondamento del trattato d’alleanza, sollecitando l’estensione delle condizioni di casus foederis anche per un eventuale conflitto militare romeno-bulgaro. La risposta però fu negativa, il governo tedesco dichiarò che un simile eventuale conflitto era sottinteso nel trattato in vigore, ma solo nel caso di un attacco non provocato venuto dalla parte del principato bulgaro. Nella stessa memoria, la Romania chiese la possibilità di firmare nel prossimo futuro trattati separati d’alleanza con l’Austria-Ungheria, la Germania e l’Italia, il che avrebbe significato, praticamente, la trasformazione della Triplice in una quadruplice alleanza[83]. Il cancelliere tedesco respinse anche questa richiesta del governo romeno perché considerava che il riassestamento dei rapporti pattuiti fra la Romania e la Triplice Alleanza potesse portare non poche difficoltà e altrettante discussioni inutili che in quel momento andavano evitate, e che, del resto, la forma vigente del trattato corrispondeva perfettamente all’interesse indiretto della Germania per l’alleanza con la Romania. “[…] la Romania era principalmente coperta, come se avesse firmato un trattato d’alleanza direttamente con la Germania e l’Italia, e dovrebbe continuare a rimanere così[84]”.

Per ciò che riguarda questi negoziati del governo romeno, gli autori dello studio, già diventato un classico sull’argomento, România ºi Tripla Alianþã[85] [La Romania e la Triplice Alleanza], affermavano, citando un documento tedesco [GP, XVIII/2, no. 5805], che “il Re Carlo I voleva appoggiarsi all’Italia, contando sui suoi interessi nella Penisola Balcanica”. Però i nostri tentativi di ritrovare nell’ASDMAE le informazioni che confermino l’ipotesi di un’azione comune italo-romena nel 1901, non hanno conseguito un risultato positivo. Dai documenti conservati nell’Archivio Segreto di Gabinetto, non risulta l’esistenza, negli anni 1900-1902, di trattative italo-romene riguardanti la modifica dei termini dell’alleanza, e neanche la prova dell’intento del governo di Roma di firmare un trattato diretto d’alleanza con la Romania. È vero che Giulio Prinetti, il successore di Visconti Venosta alla guida del Ministero italiano degli Affari Esteri (febbraio 1901) si dimostrò abbastanza interessato alla situazione del regno nord-danubiano, disponendo al ministro accreditato a Bucarest, Beccaria Incisa, nell’autunno del 1901, “di rapportare dettagliatamente a Roma tutto quello che ha qualche attinenza con l’azione della Russia nella Romania e d’informarsi sempre su questo problema, più esattamente possibile”; il Prinetti incaricò Beccaria “di assicurare [il governo romeno, n. n.], al momento giusto,

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che l’Italia s’interessa calorosamente alla Romania e allo sviluppo indipendente di questo paese”[86]. Questo episodio fu, però, successivo ai colloqui avviati dai romeni a Berlino e, inoltre, non si riscontra in nessuna fonte coeva che attesti la precedenza o almeno il seguito di uno scambio di pareri, su argomenti generali o specifici, tra i governi di Roma e di Bucarest.

Le azioni promosse dal governo romeno furono però rapportate, specialmente a Berlino, alle disposizioni innovative manifestate dall’Italia nella politica di alleanze, con l’avvento al trono del re Vittorio Emanuele III e la nomina del governo Zanardelli–Prinetti (febbraio 1901-ottobre 1903)[87]. Il rifiuto del governo tedesco alle richieste inviateli dalle autorità romene fu dovuto, nella nostra opinione, soprattutto alla paura che tali domande avrebbero potuto costituire un pretesto e, nello stesso tempo, il supporto per le eventuali richieste italiane di trasformare l’alleanza. Del resto, nel 1901, il Sottosegretario di Stato del Dicastero tedesco degli Affari Esteri, von Mühlberg, in una nota inviata al Cancelliere del Reich, von Bülow, giustificò il suo atteggiamento al riguardo del problema sollevato dalle richieste romene: “[…] Per la Germania e l’Austria-Ungheria la situazione attuale è totalmente inadeguata, per portare in discussione un’alleanza romena modificata ed estesa. Perché in un simile caso non potremmo più scegliere, dovremmo implicare l’Italia nelle discussioni e allora l’Italia potrebbe contare sull’idea che nel futuro, nella sua politica d’espansione [nei Balcani, n. n.], avrà la possibilità di erigersi sulla protezione delle Triplice Alleanza. L’accetterebbe con entusiasmo [la trasformazione dell’accordo con la Romania, n. n.] e introdurrebbe [a sua volta, n. n.] nel trattato [della Triplice Alleanza, n. n.] una clausola riguardante l’Albania (!). Ma l’Austria accetterebbe difficilmente una simile clausola e così sarebbe messa in discussione proprio l’esistenza della Triplice Alleanza”[88].

L’alleanza austro-romena fu rinnovata il 4/17 aprile 1902, in base ad un testo analogo a quello del trattato precedente, con l’aggiunta di una sola modifica, anch’essa di poca rilevanza: su richiesta dell’Austria-Ungheria, fu introdotta una clausola riguardante il rinnovamento d’ufficio, ogni tre anni, in mancanza della denuncia del trattato da una o più parti[89]. In seguito la Germania aderì al trattato, che fu prorogato il 12/25 luglio 1902[90]. Ai primi di novembre, il ministro romeno degli Affari Esteri, Ionel Brãtianu, durante un incontro con il suo omologo austro-ungarico, il conte Goluchovski, fu informato dell’invito presentato al governo di Roma per il rinnovo dell’assenso al trattato austro-romeno; il governo di Vienna si augurava che l’adesione fosse firmata a Bucarest dal ministro italiano Beccaria Incisa, il quale, insieme ai suoi colleghi tedeschi e

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austro-ungheresi, era informato minutamente sull’affare. Il 10 novembre 1902, Brãtianu comunicò al marchese Beccaria che il governo romeno preferiva un tale modus procedendi perché così non avrebbe dovuto comunicare l’esistenza dell’alleanza al ministro romeno a Vienna[91]. Il 30 novembre/12 dicembre 1902, nella sede dell’Ambasciata austro-ungarica a Bucarest, Beccaria, il marchese Pallavicini e il Primo Ministro romeno D. A. Sturdza, firmarono gli accordi italo-romeno e italo-austriaco, parte dei patti della Triplice[92]. Lo scambio degli strumenti di ratifica ebbe luogo a Vienna, il 5 gennaio 1903, e il 10 gennaio 1903 a Bucarest[93].

Negli anni seguenti, il mandato di Tommaso Tittoni (1903-1909), il successore di Prinetti alla Consulta ed uno dei ministri degli Affari Esteri più apatici, non fu molto rilevante per il percorso dei rapporti dell’Italia con la Romania. Poco si può menzionare di queste relazioni bilaterali: un nuovo trattato commerciale (5 dicembre 1906), negoziato a lungo tra il 1904 e il 1906, la difficile[94] nascita di una Camera di Commercio italiano a Bucarest (1904), destinata a rimanere in piena oscurità fino alla Grande Guerra, la mediazione italiana del secondo conflitto diplomatico greco-romeno (1906-1911), e i riferimenti sporadici e generici ai “rapporti eccellenti” con la Romania, inseriti nelle stesure delle sintesi annuali presentate alla Camera dei Deputati[95].

L’ultimo rinnovo del trattato di alleanza italo-romeno avvenne il 14/27 febbraio 1913[96], in piena crisi balcanica, dopo un periodo in cui i rapporti fra i due stati trascorsero un periodo abbastanza instabile, tra avvicinamento e indifferenza. La sostanza degli obblighi reciprochi restò immutata, la sola modifica aggiunta fu collegata alla scadenza dell’accordo. In tal senso, per semplificare l’assetto delle trattative, in seguito al suggerimento degli alleati austro-ungarico e tedesco, fu previsto che la durata degli accordi d’adesione tedesca e italiana coincidesse con quella del trattato della Triplice Alleanza[97].

Il patto politico-militare che legò i due paesi cessò de facto, insieme al trattato primario austro-romeno e all’assenso tedesco, in meno di un anno e mezzo dall’ultima proroga. È ben noto anche il fatto che nel giugno del 1914 i governi di Vienna e di Berlino abbiano invocato la presenza del casus foederis previsto nei trattati d’alleanza. L’Italia

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e la Romania respinsero però quest’interpretazione, dimostrando tramite le dichiarazioni di neutralità quasi simultanee le tendenze centrifughe recentemente manifestate nell’ambito dell’alleanza con gli Imperi Centrali.

L’accordo italo-romeno non fu mai completato da una convenzione militare scritta o verbale, le sole discussioni di tale natura, meramente teoriche, essendo quelle avvenute nella primavera del 1888 tra Roma, Vienna e Berlino, riguardanti i due corpi d’esercito italiani che stavano per essere concentrati nel Veneto e, in caso di guerra, indirizzati sul fronte dell’est. Di questi preparativi non vi è traccia nella documentazione conservata presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, a Roma, dove non si riscontra neanche l’esistenza di ulteriori negoziati diretti tra la parte italiana e quella austro-ungarica.

Quest’alleanza rimase, per varie ragioni e per più di 25 anni, piuttosto ideale che effettiva. La mancanza d’iniziativa da ambedue le parti, romena ed italiana, rese impossibile qualsiasi perfezionamento dell’accordo raggiunto nel 1888. Senza interessi speciali da difendere in una zona considerata, d’altronde, tradizionalmente soggetta all’influsso politico-economico austro-ungarico, i vertici del governo italiano evitarono costantemente di assumere obblighi supplementari, e la strategia politico-diplomatica promossa nei confronti della Romania fu, nella maggior parte dei casi, in chiave di sostegno delle iniziative austro-ungariche e tedesche.

Dobbiamo ammettere però che l’alleanza italo-romena ebbe anche degli effetti positivi. Col tempo, essa condusse ad una certa familiarità nei rapporti tra i due governi e a volte alla convergenza d’interessi in campi e nei momenti bene determinati (le questioni balcaniche, i rapporti con l’Austria-Ungheria, con la Russia ecc.). I “frutti” di questa collaborazione furono indubbi, in modo alquanto paradossale, non tanto nell’ambito delle iniziative politico-diplomatiche, quanto in altri settori, più o meno connessi: quello delle relazioni economiche, dello sviluppo dell’“italianità” nella Romania (l’emigrazione italiana temporanea e permanente, presente nella Romania prebellica); nel campo della collaborazione militare-accademica, con speciale riferimento al ruolo notevole delle Scuole e delle Accademie militari italiane nella formazione della élite militare romena, fino alla Prima Guerra Mondiale: si tratta, innanzi tutto, della Scuola Superiore dello Stato Maggiore di Torino, dell’Accademia Militare Navale di Livorno, ma anche della Scuola di Meccanici Navali di Venezia! Centinaia di giovani romeni conseguirono o completarono i loro studi militari in queste scuole, a cominciare dai tempi di Cavour, e fra questi basta menzionare il nome del futuro Maresciallo di campo e comandante degli eserciti romeni nella Prima Guerra Mondiale, Alexandru Averescu.

Sarebbe però inutile cercare una costante convergenza degli interessi italo-romeni poiché non vi fu. Certo, i rapporti dei due Stati ebbero i loro momenti di rilievo ma anche periodi di distacco, di tensione, di raffreddamento, generalmente ignorati dalla storiografia romena (si veda, ad esempio, l’evoluzione dei rapporti italo-romeni nell’intervallo 1881-1883, in occasione del dibattito della questione danubiana[98] oppure l’aggressiva campagna di stampa iniziata in Romania contro l’Italia nel 1912, durante la guerra italo-turca[99]).

 

 

 

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[1] Cfr. Ernst Ebel, Rumänien und die Mitelmächte von der russisch-türkischen Krise (1877-78) bis zum Bukarest Frieden vom 10 August 1913, Berlino 1939; Arthur Krausneker, Kalnoky´s Rumänienpolitik in den Jahren 1881-1895. Ein Beitrag zur Geschichte der Balkanenpolitik Österreich-Ungarns auf Grund der Akten des Wiener Haus- Hof- und Staarsarchivs, Tesi di dotttorato di ricerca, Graz 1951; E. R. von Rutkowski, Österreich-Ungarn und Rumänien, 1880-83. Die Proklamierung des Königreiches und die rumänischen Irredenta, in “Südost-Forschungen”, no. 25, 1966, pp. 150-284; Uta Bindreiter, Die diplomatischen und wirtschaftlischen Beziehungen zwischen Österreich-Ungarn und Rumänien in den Jahren 1875-1888, Vienna–Colonia–Graz 1976.

[2] Cfr. William L. Langer, European Alliances and Alignments, 1871-1890, 2a edizione, New York 1966, p. 330.

[3] Stando a quanto afferma il ministro italiano a Bucarest, Tornielli, sarebbero state delle proposte dalla parte francese nella primavera del 1880: “[…] Je sais que Ministre de France a cherché à sonder le terrain au sujet de possibilité d’une entente intime qui paraît être dans ses instructions, mais on a répondu à ses ouvertures par un silence abstinée. […]”, Cfr. Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri a Roma (d’ora in poi sarà citato ASDMAE), D[ivisione] P[olitica], Rapporti in arrivo. Romania, b. [busta] 1396 (allegato in cifra al R 25, Tornielli a Cairoli, Bucarest, 17 marzo 1880).

[4] Cfr. Andrei Corbea, Cu privire la critica «modelului german» al «Junimii», in Culturã ºi societate. Studii privitoare la trecutul românesc, a cura di Alexandru Zub, Bucarest 1991, pp. 242-253.

[5] W. L. Langer, op. cit., pp. 331-332.

[6] Cfr. România în relaþiile internaþionale, 1699-1939, a cura di Leonid Boicu, Vasile Cristian e Gheorghe Platon, Iaºi 1980, p. 305.

[7] Cfr. Marvin L. Brown Jr., Bismarck and Haymerle: the clashing allies, in Diplomacy in an Age of Nationalism. Essays in Honor of Lynn Marshall Case, a cura di Nancy N. Barker e M. L. Brown Jr., Aia 1971, pp. 176-191, p. 190; Francis Roy Bridge, From Sadowa to Sarajevo. The Foreign Policy of Austria-Hungary, 1866-1914, Londra–Boston 1972, p. 117.

[8] Cfr. E. R. von Rutkowski, General Skobelev, die Krise des Jahres 1882 und die Anfänge der militärischen Vereinbarungen zwischen Österreich-Ungarn und Deutschland, in “Ostdeutsche Wissenschaft”, X, 1963, pp. 81-151, p. 134.

[9] Hilde Mureºan, Date cu privire la restricþiile comerciale faþã de România, impuse de guvernul austro-ungar în anii 1878-1879, in “Anuarul Institutului de Istorie ºi Arheologie din Cluj”, XI, 1968, pp. 291-305; Gheorghe Cãzan, ªerban Rãdulescu–Zoner, România ºi Tripla Alianþã, 1878-1914, Bucarest 1979, pp. 73-81.

[10] Tramite il riconoscimento dell’indipendenza della Romania e della Serbia e dell’autonomia della Bulgaria, il Congresso di Berlino mise fine al controllo della Porta su questo tratto del fiume, trasformandolo, almeno ufficialmente, in un corso d’acqua internazionale. La Romania ricevette così dei diritti sovrani di navigazione e di libero svolgimento del commercio sul fiume e divenne parte nella Commissione Europea del Danubio, organismo fondato nel 1856 per regolamentare l’utilizzo del bacino danubiano. Nell’estate del 1880, l’Austro-Ungheria elaborò nuove norme di navigazione per il Danubio Meridionale, che avrebbero conferito al suo rappresentante un voto decisivo nella questione e avrebbero costretto i piccoli stati rivieraschi ad orientare il loro commercio estero nella sua direzione. Lo strumento di questa prevalenza doveva essere la Commissione Mista, presieduta dal delegato austro-ungarico, che assumeva piena autorità sulla navigazione dalle Porte di Ferro fino a Galaþi. Invece il governo di Bucarest proponeva che l’azione di sorveglianza fosse eseguita da una commissione tripartita dei rivieraschi (insieme alla Serbia e alla Bulgaria). L’Austria richiese la partecipazione ai lavori della Commissione con voto predominante e la presidenza della stessa istituzione. Il progetto di regolamento adottato alla fine dalla CED (Commissione Europea del Danubio) (il progetto Barrère), nonostante le protesta della Romania e della Bulgaria, accontentò le domande austro-ungariche. Le decisioni della CED furono inserite nel Trattato di Londra (marzo 1883). La Romania non riconobbe la decisione europea e, siccome il trattato non prevedeva delle misure punitive, continuò ad esercitare l’attività di polizia e sorveglianza delle sue acque territoriali danubiane, Cfr. ª. Rãdulescu–Zoner, La souveraineté de la Roumanie et le problème du Danube après le Congrès du Berlin, in “Revue des études Sud-Est européennes”, IX, no. 1, 1971, pp. 152 ss; Gh. N. Cãzan, La question du Danube et les relations roumano-austro-hongroises dans les années 1878-1883, in “Revue Roumaine d’Histoire”, XVIII, no. 1, 1979, pp. 43-61.

[11] I Documenti Diplomatici Italiani, seconda serie (1870-1896) (d’ora in poi sarà citato DDI), Roma 1953, 2, XVII-XVIII, no. 170, p. 171 (Mancini a Di Robilant, Roma, 15 aprile 1884).

[12] Cfr. “Românul”, XXVII (sabato/domenica 6-7 agosto) 1883 (calendario giuliano): “Plecarea M. S. Regele la Berlin [La partenza di Sua Maestà il Re per il Berlino, n. n.]”, [giovedì 4/16 agosto 1883, ore 2 p. m.]; “Gazzetta di Venezia”, no. 218 (venerdì, 17 agosto), 1883.

[13] Direzione degli Archivi Nazionali Storici Centrali di Bucarest (d’ora in poi sarà citato DANIC), Casa Regalã, dossier 19/1883 (telegramma no. 281, Brãtianu a Sturdza, Bad Gastein, 6 settembre 1883, ore 1628).

[14] Per una presentazione dettagliata delle trattative, Cfr. Gh. Cãzan, ª. Rãdulescu–Zoner, op. cit., pp. 113-123.

[15] Cfr. Alfred F. Pribram, Les traités politiques secrètes de l’Autriche-Hongrie, 1879-1914, vol. I, Parigi 1923, pp. 40-47.

[16] Cfr. F. R. Bridge, op. cit., p. 144 (il Memorandum del 1884).

[17] ASDMAE, Carte Pansa, b. 1, Diario, II: domenica, 31 dicembre 1882.

[18] Cfr. Ion Dumitriu–Snagov, Le Saint-Siège et la Roumanie moderne, 1866-1914, Roma 1989, pp. 487-88 (allegato no. 135, Vanutelli al Segretario di Stato, Cardinale Iacobini, Vienna, 28 settembre 1883).

[19] Gheorghe I. Brãtianu, Bismarck ºi Ion C. Brãtianu, in “Revista Istoricã Românã”, V-VI, 1935-1936, pp. 97-98.

[20] Cfr. Enrico Decleva, L’incerto alleato. Ricerche sugli orientamenti internazionali dell’Italia unita, Milano 1987, p. 30; per l’opinione del conte Tornielli–Brusati, Cfr. Rudolf Dinu, Note e documenti riguardanti la storia della Legazione italiana a Bucarest, 1879-1914, in “Annuario dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia”, III, no. 3, 2001, pp. 222-295, p. 290 (Tornielli a Depretis, Bucarest, 23 maggio 1883): “[…] Nella politica estera è chiaro che non si possano mutare le linee generali direttive. Ma non bisogna illuderci di essere cresciuti in importanza. È addirittura il contrario ad essere vero. Siamo ritornati precisamente nell’identica situazione in cui vivevamo prima del 1870, con la differenza che allora si diceva che l’Italia voleva ciò che la Francia e l’Inghilterra decidevano, ed ora si dice che per conoscere la nostra opinione, bisogna andare a Berlino e a Vienna. Siccome mi piace dire schiettamente quello che penso, aggiungerò che allora ci si attribuivano almeno certe ispirazioni nelle risoluzioni di Napoleone 3° e che ora nessuno suppone che siamo noi ad inspirare [sic!] Bismarck. Allora avevamo Roma da acquistare, ed ora nessuno capisce che cosa vogliamo […]”.

[21] Cfr. Federico Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Le premesse, Bari–Roma 1951, p. 551, nota 2.

[22] Take Jonescu, Amintiri, Bucarest s. a., pp. 181-183.

[23] Cfr. 35 anni di relazioni italo-romene, 1879-1914. Documenti diplomatici italiani (d’ora in poi sarà citato 35 anni cit.), a cura di R. Dinu e Ion Bulei, Bucarest 2001, doc. 449, p. 504 (San Giuliano a Fasciotti, Roma, 19 dicembre 1911).

[24] Ibidem, no. 450, p. 505 (Fasciotti al San Giuliano, Bucarest, 21 dicembre 1911).

[25] Cfr. Renato Mori, Francesco Crispi e l’accessione italiana allo accordo austro-rumeno, in “Clio”, V, no. 2-3, 1969, pp. 193-238; R. Dinu, Romanian-Italian Relationship Inside of the Triple Alliance. The 1888 Agreement, in “Annuario dell’Istituto Rumeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia”, II, no. 2, 2000, pp. 175-223.

[26] Cfr. Memoria del generale Caprivi, Bericht über die Aussichten der Kriegführung zur See zwischen Deutschland, Österreich und Italien einerseits und Frankreich und Russland andererseits, 15 novembre 1887, apud Paul M. Kennedy, L’antagonismo anglo-tedesco. Dalla collaborazione all’ostilità, 1860-1914, Milano 1993, p. 270.

[27] Die Grosse Politik der europäischen Kabinette, 1871-1914, Deutsche Verlagsgesellschaft für Politik und Geschichte M. B. H., 1922-26 (d’ora in poi sarà citato GP), VI, no. 1301, p. 238 (Solms al Cancelliere von Bismarck, R. no. 291, segreto, Roma, 13 dicembre 1887).

[28] Ibidem, VI, no. 1306, pp. 245-246 (l’ambasciatore tedesco a Vienna, Henri VII von Reuss, al Cancelliere von Bismarck, R no. 8, segreto, Vienna, 7 gennaio 1888); l’idea sarà, in seguito, fortemente appoggiata dal Feldmaresciallo von Moltke, capo dello Stato Maggiore tedesco, nella memoria mandata al cancelliere von Bismarck, il 14 gennaio 1888: “Ritengo assai importante la proposta, non ancora resa nota [agli italiani, n. n.], di inviare truppe italiane in Romania per condurre con essa la guerra contro la Russia. L’armata romena da sola non sarebbe infatti abbastanza forte per poter condurre un’offensiva in Bessarabia. Probabilmente essa marcerebbe nella Moldavia meridionale per aspettare qui l’attacco russo e poiché questo difficilmente potrebbe essere realizzato prima della decisione dello scontro sul fronte polacco, bisogna pensare perciò che la Russia dovrebbe utilizzare i suoi due corpi d’armata sud occidentali, cioè il VII e l’VIII, per tenere in scacco l’armata romena. Una connessione diretta dei romeni con l’ala destra dell’esercito austriaco o un’operazione comune non è da prendersi in considerazione poiché l’armata romena si troverebbe troppo lontana dalla madrepatria. Le cose andrebbero ben diversamente qualora in Romania fossero raccolte delle truppe assai forti e tali da poter condurre un’offensiva anche li. La Russia potrà perdere la Polonia senza mettere in pericolo i suoi interessi vitali tuttavia non potrà mai permettersi di essere allontanata dal Mar Nero. Odessa, che è il porto russo più importante per il commercio e che è fortificata soltanto dalla parte del mare, sta infatti soltanto a trenta miglia dalla frontiera romena. Se fosse possibile rafforzare l’esercito romeno con circa 100.000 uomini, cioè con tre corpi d’armata, la Russia sarebbe costretta a distrarre un buon numero delle sue truppe marcianti contro la Germania o contro l’Austria e dovrebbe gettarle sul fronte di guerra della Bessarabia e allora Austria sarebbe in grado di compiere con l’armata della sua ala destra un’operazione in direzione di Kiev. Inoltre un’offensiva delle armate italo-romene contro la Russia del sud potrebbe fornire alla Turchia un buon motivo per entrare in guerra contro la Russia. Non si può ancora sapere in quale momento sarà possibile il trasporto di 100.000 uomini delle truppe italiane in Romania poiché la capacità delle ferrovie non è conosciuta e non bisogna nemmeno trascurare il fatto che queste ferrovie dovranno anche servire alla mobilitazione dell’esercito austriaco”, Cfr. Massimo Mazzetti, L’esercito italiano nella Triplice Alleanza, Napoli 1974, doc. 5, p. 473 (Promemoria del Feldmaresciallo von Moltke per il Dicastero degli Affari Esteri, Berlino, 14 gennaio 1888).

[29] R. Mori, La politica estera di Francesco Crispi (1887-1891), Roma 1973, p. 133, nota 120.

[30] ASDMAE, Archivio Segreto di Gabinetto (1869-1914) (d’ora in poi sarà citato ASG), cassetta verde no. 10, fascicolo I (Ministero Crispi), doc. 1, 19 febbraio 1888.

[31] Cfr. Museo Centrale del Risorgimento–Roma (d’ora in poi sarà citato MCR–Roma), Carte Crispi, b. 661, fasc. 12, doc. 2.

[32] Cfr. GP, VII, no. 1464 in nota, pp. 151-152.

[33] ASDMAE, Gabinetto Crispi, cartella 3, fasc. 6-b, Rumania (XXIX) (Nigra a Crispi, Vienna, 26 marzo 1888, ore 1510); Idem, ASG, cassetta verde no. 10, fasc. III (gabinetto Rudini) (Nigra a Crispi, Vienna, 26 marzo 1888); Ibidem (Nigra a Crispi, Vienna, 30 marzo 1888); Ibidem (Nigra a Crispi, Vienna, 5 aprile 1888).

[34] Idem, Carte dell’Eredità Crispi, fasc. II (Crispi a Nigra, Roma, 7 aprile 1888).

[35] Ibidem (Nigra a Crispi, Vienna, 11 aprile 1888, ore 1650); Ibidem (Kalnoky a Bruck, promemoria, Vienna, [11] aprile 1888).

[36] ASDMAE, ASG, cassetta verde no. 10, fasc. III (allegato al rapporto riservato no. 18/4, 12 aprile 1888) (Nigra a Crispi): “[…] Sa Majesté, le Roi d’Italie, approuvant le but pour lequel ce traité [trattato austro-romeno del 1883, n. n.], a été conclu et qui est la conservation de la paix générale et de l’ordre existant, a autorisé le Soussigné […], son Ambassadeur Extraordinaire et Plénipotentiaire auprès de Sa Majesté, l’Empereur d’Autriche, Roi Apostolique de Hongrie, à déclarer en Son nom qu’Il accède au dit traité dans les limites ci-après indiquées en ce qui concerne les stipulations des Articles 2 et 3, savoir: Si les éventualités pouvant donner lieu au casus foederis, tel qu’il est prévu dans les Articles 2 et 3, venaient à se produire, Leurs Majestés, le Roi d’Italie, l’Empereur d’Autriche, Roi Apostolique de Hongrie, et le Roi de Roumanie prennent l’engagement mutuel de se concerter en temps utile pour une action commune dont les modalités seront réglées par une convention spéciale. La présente accession sera en vigueur pour cinq ans à dater du jour de la signature; mais si le traité principal du 30 octobre 1883 venait à expirer avant ce terme, elle sera considérée comme expirée en même temps. Le secret sera gardé sur cet acte d’accession qui ne pourra être relevé sans le consentement de chacune des hautes parties contractantes”.

[37] DDI, 2, XXII, no. 15, p. 15 (Nigra a Crispi, Vienna, 12 aprile 1888).

[38] Ibidem, no. 23, p. 20 (Crispi a Nigra, Roma, 19 aprile 1888).

[39] ASDMAE, ASG, cassetta verde no. 10, fasc. I (Curtopassi a Nigra, Bucarest, 9 maggio 1888).

[40] Ibidem (Nigra a Crispi, Vienna, 15 maggio 1888).

[41] Ibidem (Curtopassi a Crispi, Bucarest, 19 giugno 1888); si veda anche DDI, 2, XXII, no. 109, p. 65.

[42] Cfr. Daniela Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, Firenze 1999.

[43] Cfr. The memoirs, diaries and correspondence of Friedrich von Holstein, 1837-1909, vol. III, a cura di Rich e Fischer, Cambridge 1963, p. 224 (Solms a Holstein, Roma, 14 ottobre 1887).

[44] Cfr. G. F. De Martens, Précis du droit des gens moderne de l’Europe, 2a edizione, vol. I, Parigi 1864, pp. 22 ss; Brunello Vigezzi, L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Milano 1997, p. 9.

[45] Politisches Archiv des Auswärtigen Amts–Bonn, fondo R 9849 [Die Beziehungen Rumänien zu Italien (1890-1919], Rumänien no. 24: R 94 (Bülow a Caprivi, Bucarest, 15 dicembre 1890).

[46] “L’Adriatico”, XIII (lunedì, 15 aprile), 1889 (Nella penisola dei Balcani).

[47] Cfr. 35 anni cit., docc. 210-235, pp. 247-264.

[48] DDI, 2, XXIV, no. 272, pp. 203-204 (SP, Rudini a Nigra, Roma, 8 maggio 1891).

[49] ASDMAE, Miscellanea Renato Mori, pacco no. 8 (SP, Rudini a Nigra, Roma, 25 maggio 1891).

[50] Cfr. Teodor Pavel, Între Berlin ºi Sankt Petersburg. Românii în relaþiile germano-ruse din secolul al XIX-lea, Cluj-Napoca 2000, p. 250.

[51] Cfr. Politica externã a României. Dicþionar cronologic, coordinatori: Ion Calafeteanu e Cristian Popiºteanu, Bucarest 1986, pp. 145-146 (Bülow a Caprivi, Bucarest, 17/29 novembre 1890; Bucarest, 23 dicembre 1890/4 gennaio 1891).

[52] Ibidem, p. 146 (Caprivi all’ambasciatore a Vienna, von Reuss, Berlino, 14/26 marzo 1891).

[53] ASDMAE, Serie P. Politica, 1891-1916. Romania, pacco 285, T 1371 (Curtopassi a Rudini, Bucarest, 15 luglio 1891, ore 16); “L’Adriatico”, no. 197 (19 luglio), 1891.

[54] Cfr. 35 anni cit., doc. 276, pp. 298-299 (Curtopassi a Crispi, Bucarest, 5 settembre 1891).

[55] ASDMAE, Serie P. Politica, 1891-1916. Romania, pacco 285, Nota no. 6582 (il ministro d’Interni al MAE, Roma, 14 settembre 1891); “Gazzetta di Venezia”, no. 256 (mercoledì, 16 settembre), 1891.

[56] DDI, 2, XXIV, no. 436, pp. 359-360 (Beccaria a Rudini, Berlino, 16 settembre 1891).

[57] DANIC, Fond Carol I (personale), IV (inv. 1456), dossier VF-14/1891, telegramma s. no. (Carlo I ad Umberto I, Grand Hotel Pallanza, [23 settembre 1891]).

[58] “L’Adriatico”, no. 270-273 (mercoledì 30 settembre-sabatto 3 ottobre), 1891.

[59] DDI, 2, XXIV, no. 465, p. 381, telegramma s. no. (Rudini a Beccaria, Roma, 3 ottobre 1891).

[60] Cfr. R. Dinu, Instanþe ºi mecanisme de decizie în politica externã româneascã la finele sec. XIX: câteva observaþii pe marginea alianþei italo-române din 1888, in “Studii ºi materiale de istorie modernã”, XVII, 2004, passim.

[61] Gh. Cãzan, ª. Rãdulescu–Zoner, op. cit., p. 201.

[62] Cfr. MCR–Roma, Carte Crispi, b. 661, fasc. 12, doc. 11.

[63] Cfr. Constantin N. Velichi, Les relations roumano-grecques pendant la période 1879-1911, in “Revue des études du Sud-Est européen”, VII, no. 3, 1969, pp. 522-528.

[64] Cfr. 35 anni cit., doc. 305, p. 322 (Brin a Fè d’Ostiani, Roma, 22 ottobre 1892); Ibidem, docc. 301-308, pp. 319-324, in particolare doc. 302 (Ghica a Brin, Roma, 19 ottobre 1892), doc. 304 (Brin a Ghica, Roma, 21 ottobre 1892).

[65] DDI, 2, XXV, no. 319, p. 236 (Curtopassi a Brin, Dresda, 21 marzo 1893), no. 320 (Brin a Curtopassi, Roma, 22 marzo 1893).

[66] DANIC, Fond Kreþulescu, dossier 715 (Carte Alessandro Emmanuele Lahovari), pp. 96-102, telegramma cifrato no. 26 (Al. E. Lahovari al MAE, Roma, 12/24 gennaio 1895, ore 2300).

[67] Cfr. Keith Hitchins, Austria-Hungary, Rumania and the Memorandum, 1894, in “Rumanian Studies”, III, 1976, pp. 108-148; Cfr. DDI, 2, XXVI, no. 662 e no. 678; T. G. Otte, «Makeweight in the Balance»: Italian Diplomatic Documents, 1893-1895, in “Diplomacy & Statecraft”, vol. 11, no. 3, 2000, pp. 272-277.

[68] DANIC, Fond Kreþulescu, dossier 715 (Carte Al. E. Lahovari), pp. 101-102, telegramma cifrato no. 26 (Roma, 12/24 gennaio 1895).

[69] Ibidem, pp. 102-103, telegramma cifrato no. 50 (il ministro degli Affari Esteri ad Al. E. Lahovari, Bucarest, 16/28 gennaio 1895, ore 2100).

[70] Cfr. 35 anni cit., doc. 328, pp. 330-333.

[71] Cfr. Enrico Serra, La questione tunisina da Crispi a Rudini ed il «colpo di timone» alla politica estera dell’Italia, Milano 1967, p. 68; i frequenti richiami all’influenza esercitata dalla Francia sulla Romania erano probabilmente dovuti ai sospetti nutriti da Blanc al riguardo della francofilia dei vertici politici romeni. Alcuni mesi prima, nell’autunno del 1894, il ministro italiano degli Affari Esteri fu impressionato, però in modo negativo, dai commenti che il suo omologo romeno aveva fatto in seguito ad una dichiarazione del conte Kalnoky a Pesta, nella seduta ordinaria del parlamento ungherese, da cui si intravedeva l’idea di un’associazione de facto della Romania con la Triplice Alleanza. Infatti, Lahovari si lamentò, nella presenza del ministro italiano, dicendo che: “Siffatta imprudenza, […] ci duole segnatamente rispetto alla Francia per la quale non abbiamo in Rumania che simpatia secolare ed eterna gratitudine; e qualora a Parigi si acquistasse certezza della nostra accessione alla alleanza delle Potenze centrali, sarebbe difficile dimostrare che lo spauracchio della Russia ci ha indotto a stringere il patto”, Cfr. DDI, 2, XXVI, no. 587, p. 379 (Curtopassi a Blanc, Bucarest, 30 settembre 1894).

[72] 35 anni cit., doc. 330, p. 344 (Beccaria a Blanc, Bucarest, 24 maggio 1895); Ibidem, doc. 332, p. 346 (Beccaria a Blanc, Bucarest, 9 agosto 1895).

[73] Ibidem, doc. 338, p. 359 (Beccaria a Blanc, Bucarest, 18 ottobre 1895).

[74] Cfr. “Bollettino del Ministero degli Affari Esteri”, 1896, pp. 124-127.

[75] Cfr. 35 anni cit., docc. 350-358, pp. 375-381.

[76] Ibidem, doc. 367, pp. 391-392 (Beccaria a Visconti Venosta, Bucarest, 23 aprile 1897).

[77] Ibidem, doc. 368, pp. 392-393 (Visconti Venosta a Beccaria, Roma, 2 maggio 1897).

[78] Ibidem, doc. 369, pp. 393-394 (Pansa a Visconti Venosta, Costantinopoli, 26 mai 1897).

[79] DDI, 3, III, no. 267, p. 172 (Visconti Venosta all’ambasciatore d’Austria-Ungheria a Roma, Marius Pasetti, Roma, 5 giugno 1899).

[80] Cfr. V. Cristian, Diplomaþia României în slujba împlinirii idealului naþional, in AA. VV., Cum s-a înfãptuit România modernã: o perspectivã asupra strategiei dezvoltãrii, Iaºi 1993, pp. 279-280.

[81] ASDMAE, Serie P. Politica, 1891-1916. Rumania, pacco 286, R 2703/199 (Beccaria a Visconti Venosta, Bucarest, 28 ottobre 1900).

[82] Infatti, le Potenze alleate furono avvertite in questo senso già dalla primavera di quell’anno, quando Carlo I comunicò a Vienna, a Berlino e a Roma che, nell’eventualità di alcuni imprevisti europei, la Triplice Alleanza doveva contare solo sulla collaborazione di tre corpi dell’esercito romeno, il quarto essendo destinato alla difesa della frontiera con la Bulgaria; Cfr. Ibidem, R. 625/77 (Beccaria a Visconti Venosta, Bucarest, 15 aprile 1900).

[83] GP, XVIII/2, no. 5797, pp. 651-654 (Beldiman al Cancelliere von Bülow, Berlino, 13/26 aprile 1901).

[84] Ibidem, no. 5798, pp. 655-656 (il segretario di Stato agli Affari Esteri, barone von Richthofen, al ministro di Romania, Berlino, 25 maggio 1901).

[85] Gh. Cãzan, ª. Rãdulescu–Zoner, op. cit., p. 251.

[86] Biblioteca dell’Accademia Romena di Bucarest, CDA [corrispondenza diplomatica austriaca], b. XLVII, no. 52 C, pp. 260-262 (Pallavicini a Goluchowski, Bucarest, 28 ottobre 1901).

[87] Cfr. E. Decleva, Giuseppe Zanardelli: liberalismo e politica estera, in Idem, L’incerto alleato cit., pp. 109-144; Pietro Pastorelli, Giulio Prinetti ministro degli esteri, 1901-1902, in “Nuova Antologia”, vol. 576, fasc. 2197, 1996, pp. 53-70.

[88] Cfr. GP, XVIII/2, no. 5800, pp. 660-661 (Mühlberg a Bülow, Berlino, 22 luglio 1901).

[89] DDI, 3, vol. VI, no. 414, p. 286 (Beccaria a Prinetti, Bucarest, 23 aprile 1902).

[90] Cfr. 35 anni cit., doc. 389, pp. 433-434 (Beccaria a Prinetti, Bucarest, 7 agosto 1902).

[91] Ibidem, doc. 390, p. 435 (Beccaria a Prinetti, Bucarest, 11 novembre 1902).

[92] Ibidem, doc. 392, p. 438 (Beccaria a Prinetti, Bucarest, 13 dicembre 1902).

[93] Ibidem, doc. 393, p. 439 (Nigra a Prinetti, Vienna, 5 gennaio 1903), doc. 394, pp. 439-440 (Beccaria a Prinetti, Bucarest, 10 gennaio 1903).

[94] Cfr. R. Dinu, Documents regarding the History of the Italian Legation in Bucharest, 1879-1914, in “Annuario dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia”, IV, no. 4, 2002, pp. 356-387, p. 384 (Beccaria a Tittoni, Bucarest, 21 dicembre 1903), p. 387 (Beccaria a Tittoni, Bucarest, 29 giugno 1904).

[95] Archivio del Ministero degli Affari Esteri a Bucarest, Fond “Problema 21” (Roma), vol. 87, pp. 45-47 (Nicolae Fleva al ministro degli Affari Esteri, Iacob Lahovary, Roma, 7/19 dicembre 1906), p. 87 (Fleva a Sturdza, Roma, 3/15 maggio 1907).

[96] Cfr. 35 anni cit., doc. 482, p. 537 (Fasciotti al San Giuliano, Bucarest, 27 febbraio 1913, ore 955).

[97] Ibidem, doc. 472, p. 529 (San Giuliano a Fasciotti, Roma, 29 gennaio 1913, ore 2045).

[98] Ibidem, doc. 73, docc. 76-84, docc. 86-88, doc. 91, doc. 95, docc. 97-98, docc. 103-105.

[99] Ibidem, doc. 454, doc. 458, doc. 459.