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L’esercito crociato nella Battaglia di Belgrado

(14 e 21/22 luglio 1456): etnia e stato sociale

 

 

Iulian  Mihai  Damian,

Università degli Studi “Babeº-Bolyai” di Cluj-Napoca/

Scuola Normale Superiore di Pisa

 

Per quanto l’importanza della battaglia di Belgrado sia ormai abbastanza nota, anche per una serie di opere storiografiche di alto pregio[1], ben poco in epoca moderna è stato dedicato ai due tratti di essa da noi presi in analisi: la grande diversità etnica dei crociati, che le rendono un carattere internazionale nel più ampio senso, ed il problema della partecipazione alla crociata del popolo minuto, che molto ha da dire su questa “crociata dei poveri” e sui delicati equilibri sociali del plurietnico Regno d’Ungheria nei sette decenni precedenti la conquista ottomana. Non lo stesso si può invece sostenere in quanto riguarda la letteratura storiografica della seconda metà del Quattrocento e dell’inizio del Cinquecento, secoli in cui la splendida e inaspettata vittoria sull’esercito di Maometto II il Conquistatore scaturì un’importante polemica sul ruolo avuto dalle varie nazioni e sulla vergognosa assenza dal campo di battaglia del re d’Ungheria e dei baroni del Regno.

Tra le principali fonti della battaglia è doveroso elencare le opere dedicate alla vita di S. Giovanni da Capestrano, scritte dai suoi confratelli francescani negli anni seguenti alla morte del grande maestro, testimoni diretti agli eventi di Belgrado, ossia, in ordine cronologico, le opere di Girolamo da Udine[2], Nicola da Fara[3] e Cristoforo da Varese[4], a cui si aggiungono le due relazioni maggiori di fra Giovanni da Tagliacozzo[5], che, per estensione e autorità, meritano senz’altro una particolare attenzione. Dall’altro

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canto, nella storiografia laica ed ufficiale dell’epoca, le principali fonti sono: l’opera di Enea Silvio Piccolomini[6], quella di Pietro da Ragusa[7] e quella di Antonio Bonfini[8], mentre un interessante passo sui pellegrini tedeschi a Belgrado lo troviamo nell’opera dell’umanista tedesco Hartmann Schedel, “Cronaca della città di Norimberga”[9].

Ulteriori fonti d’informazione, assunte proprio “dal campo di battaglia” (e che, per questo, consideriamo meno soggettive e più vicine alla realtà) o scritte in prossimità degli eventi, sono le lettere dei testimoni oculari della battaglia o delle persone che della battaglia dovevano avere una profonda conoscenza, in parte conosciute tramite raccolte bibliografiche ormai note[10], o rese note in tempi più o meno recenti per mezzo di pubblicazioni locali o, comunque, poco accessibili agli studiosi romeni interessati[11]. Una di queste lettere, che avremo occasione di citare ora –anche perché contiene una serie di chiarimenti su com’era percepita la figura di Iancu di Hunedoara negli ambienti italiani e francescani– è la lettera del 5 marzo 1569, indirizzata da S. Giacomo della Marca al cardinale Francesco da Savona, in precedenza Generale dell’Ordine, lettera conservata in un codice della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia[12].

Non è nostro intento riprendere l’intero discorso creatosi intorno alla battaglia di Belgrado –che ha già trovato peraltro delle ottime trattazioni nelle opere in precedenza indicate– quanto quello di fornire, allacciandoci all’intero discorso storico, una prospettiva diversa e, senz’altro, più esatta sulle nozioni di etnia e stato sociale nell’ambito storico della crociata difensiva del 1456. Le fonti che prenderemo in analisi, ed in particolare quelle francescane, per quanto abbondino in riferimenti sulla nazione e lo stato sociale dei crociati, richiedono una corretta interpretazione, che può essere data soltanto dal contesto storico in cui si svolse la crociata. Bisogna fare anzitutto due considerazioni: la prima riguarda lo stretto rapporto esistente nel Regno d’Ungheria tra natio (che spesso implica anche l’ambito confessionale) e stato sociale degli individui,

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risultato di una politica di privilegi e concessioni elargiti durante i secoli dai re d’Ungheria alle singole comunità etniche (specialmente se poste sul confine sud-orientale del Regno) che, come è noto, è uno dei tratti più longevi del Regno; la seconda considerazione riguarda il delicato momento storico della crociata, quando per l’applicazione della bolla di unione del Concilio di Firenze (6 luglio 1439), in particolar modo nei territori dominati dai signori di fede cattolica[13], gli equilibri esistenti erano sottoposti ad una forte pressione, sotto la spinta delle nazioni medioevali emergenti, con privilegi minori o inesistenti, ma comunque mature e pronte a combattere per i propri interessi[14]. Nel territorio e nel conteso di nostro interesse, i rasciani (termine con cui dobbiamo intendere serbi, croati e bosniaci) ed i valacchi (delle due sponde del Danubio, nonché della Transilvania e del Banato) erano senz’altro i più numerosi.

È noto l’impegno con cui S. Giovanni da Capestrano, tributario ad una visione di universalità della Chiesa, si adoperò per l’unità della Respublica Christiana, quale unica garanzia non solo per il miglioramento dello statuto dei poveri e degli emarginati, ma anche affinché la Cristianità potesse dare una risposta adeguata alla minaccia ottomana. In un Quaresimale egli afferma omne regnum in se divisum desolabitur[15] e, ispirato, ripete la visione in un’altro sermone: quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum[16]. Fu questa visione la base del programma religioso, sociale e politico con cui egli (di comune accordo con Iancu di Hunedoara) preparò la crociata negli anni 1455-1456 in Ungheria e Transilvania e questa, molto probabilmente, fu la visione che ispirò fino alla conquista ottomana la comunità francescana di questi territori. La predicazione della crociata, della concordia e dell’unione costituirono il punto centrale dell’attività di Giovanni da Capestrano per l’intera fase di preparativi. Non deve quindi stupire che la chiamata a prendere la croce fosse stata rivolta non soltanto ai tedeschi ed agli ungheresi (cattolici e, in genere, con uno statuto privilegiato), ma anche a tutti gli altri abitanti delle aree direttamente minacciate: “chiunque voglia combattere i turchi è nostro amico: rassiani scismatici, valacchi, giudei, eretici, e qualsiasi altro infedele, voglia stare al nostro fianco in questa frangente, noi li accogliamo con grande amicizia[17]. Il passo è da interpretare come una chiamata generale alle armi, che supera l’ambito della politica pro-unionista che Giovanni da Capestrano promosse nella

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seconda metà del 1455 e all’inizio del 1456, e fa riferimento a tutti i gruppi etnici e religiosi del mondo feudale, visto che vi compaiono persino i gruppi più emarginati della società feudale, ebrei ed eretici[18]. Il fatto che Giovanni da Capestrano confidi completamente per la difesa della Cristianità occidentale nei gruppi etnici, religiosi e sociali che vivevano al margine di essa, per quanto singolare potesse sembrare, è pienamente giustificabile per una serie di motivazioni di natura oggettiva quali: il rifiuto del re magiaro Ladislao il Postumo di assumere la guida (almeno istituzionale) dell’esercito, ciò che automaticamente esentava la nobiltà dal prendere parte al conflitto[19], la minaccia impellente sull’intera area che costituiva senz’altro un sufficiente motivo di coesione e, non per ultimo, l’esperienza che valacchi e serbi avevano acquisito nella lotta contro gli Ottomani[20]. A ciò bisogna aggiungere una motivazione soggettiva, propria dell’Ordine dei Frati Minori, che in una “crociata dei poveri” vedeva una straordinaria occasione per la propagazione dei propri insegnamenti. La conferma che la gran parte dell’esercito crociato di Belgrado fosse costituita dai ceti più bassi della società viene data dall’umanista tedesco Hartmann Schedel, portavoce del patriziato di Norimberga (dove Giovanni da Capestrano aveva predicato), che ci informa che nel 1456 dalla Germania partirono alla volta di Belgrado calzolai, sarti, tessitori, minatori, fornai, studenti, chierici[21].

Se in quanto riguarda lo stato sociale di questo esercito plurietnico crociato tutte le fonti coeve sono concordi, relativamente la loro origine etnica, le cose sono meno chiare: da un lato si tratta di crociati d’origine tedesca e polacca, fatti aderire alla causa antiottomana durante la predicazione degli anni 1453-1454, mentre un secondo gruppo, costituito nell’immediata vicinanza delle operazioni belliche, era quello formato all’inizio della seconda metà del 1455 nelle terre dell’Ungheria meridionale e in Transilvania. Senz’altro si trattava di popolazione ungherese, valacca e tedesca, popolo minuto delle città, ma anche delle campagne: tutti coloro invece, che risposero all’appello, erano popolani, contadini, poveri, sacerdoti, chierici secolari, studenti, monaci, frati di diverse famiglie, mendicanti, persone del terz’ordine di S. Francesco, eremiti[22]. Anche le armi di questi crociati ricordano un mondo rurale e pastorizio: abbondavano le spade, i bastoni, le fionde, le mazze come quelle che sogliono portare i pastori e tutti disponevano di uno scudo[23].

Il dubbio che potremmo invece sollevare riguarda la loro partecipazione effettiva alle operazioni di difesa, visto il numero ridotto di difensori che la fortezza

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di Belgrado poteva contenere ed il ritardo con cui i crociati si erano riuniti nell’accampamento di Slankamen. A questa conclusione ci spingerebbe anche un’affermazione di Nicola da Fara, che sostiene che dell’intero numero di crociati, soltanto cinquemila (o, addirittura, tremila) presero parte alle operazioni belliche[24]. Risulta, di conseguenza, che per la maggior parte delle operazioni di difesa della fortezza (dove il valore militare era di gran lunga più importante del numero) fossero stati impiegati combattenti addestrati, abituati alla lotta contro gli Ottomani. Se poi si prende in considerazione l’importante ruolo avuto dall’artiglieria nell’intera operazione difensiva si comprende che ben poco ci si poteva aspettare da gente senza alcuna preparazione militare. Ne risulta, invece, che alle varie categorie di combattenti fossero stati affidati compiti differenti. L’azione maggiore di questo gruppo dell’esercito crociato, impreparato militarmente ma, senz’altro, reso ardito e infuocato dai sermoni di Giovanni da Capestrano, fu l’assalto del 21 luglio (che rovesciò la situazione) e l’ulteriore partecipazione alla conquista del campo ottomano il giorno dopo.

Un gruppo etnico compatto che viene presentato dalle fonti è quello dei cittadini di Belgrado che, nella battaglia svoltasi sul Danubio il 14 luglio, hanno avuto il ruolo di colpire alle spalle la flottiglia ottomana, permettendo ai vascelli di Iancu di Hunedoara, che discesero il corso del fiume, l’accerchiamento e l’annientamento del nemico: Questi subito preparano ed apparecchiano quaranta barche, stabiliscono che soltanto i cittadini fossero abilitati alla guida di esse, e che gli stessi cittadini vi dovessero combattere. Questi, benché si professino scismatici, rimangono tuttavia nemici dichiarati dei turchi, coraggiosi e bellicosi contro di essi, tanto che i turchi li temono più di qualsiasi altro gruppo –afferma Tagliacozzo[25], da dove risulta alquanto chiaro che la maggioranza della popolazione che abitava nella città di Belgrado al momento dell’assedio ottomano fosse serba, di rito orientale, con a capo un vescovo “scismatico” che negava il consenso all’unione di Firenze. Il ruolo dei “cittadini” non doveva limitarsi soltanto all’operazione militare ricordata, al trasporto fluviale ed alle opere di consolidamento della fortezza, ma anche ad una permanente difesa di essa.

Il terzo gruppo, che le fonti francescane (ed in particolare Giovanni da Tagliacozzo) tendono a tenere sotto silenzio o, comunque, a cui viene ridotto il ruolo per non sminuire quello dei “minori” nella battaglia, è l’esercito professionista, assunto a spese di Iancu di Hunedoara, che formava il nucleo della guarnigione di Belgrado (circa duemila soldati) e a cui, prima dell’inizio dell’assedio, si aggiunse un ulteriore corpo di 200 balestrieri polacchi[26] (per la cui efficienza nella difesa delle città è sufficiente ricordare che nel 1437 una delle garanzie militari richieste dall’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo per partecipare al Concilio di Firenze fu il presidio di Costantinopoli da parte di 300 balestrieri). Ad essi bisogna aggiungere l’intero corpo di artiglieri ed artificieri (di cui, nell’epoca, ungheresi, valacchi e serbi erano tra i più

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rinomati) ed il corpo di cavalleggeri che prese parte alle operazioni del 22 luglio. Il nucleo di comando dell’intero esercito era formato dai familiares di Iancu di Hunedoara (corrispondenti ai vassalli del mondo occidentale), il cui numero non ci è noto, ma che potremmo valutare a oltre cinquecento persone (considerando per analogia che la familia regis del re Sigismondo di Lussemburgo, in senso stretto, ne contava circa cinquecentotrenta[27] e che lo statuto di “re non incoronato”[28] che Iancu di Hunedoara ebbe nel periodo 1440-1456 favoriva questa forma privata di vassallaggio). Si trattava di membri della piccola e media nobiltà terriera scelti, per lo più, a seconda di come lo imponeva il costume del tempo[29], dalle regioni circostanti al distretto di Hunedoara; a questi se ne aggiungevano altri, imparentati con Iancu di Hunedoara o, comunque, in rapporti di vassallaggio con le famiglie Szilágyi di Horogszeg, Pongrácz di Dindeºti e Gereb di Vingrad. Si tratta, quindi, dal punto di vista etnico, per lo più di romeni transilvani, ma anche di ungheresi, originari della Transilvania o dell’Ungheria meridionale. Senz’altro, però, dal punto di vista dello stato sociale, la loro posizione non corrispondeva alle esigenze degli scritti apologetici francescani, il cui intento era quello di dimostrare che quella crociata era vissuta soltanto dai poveri e non dai ricchi[30] (e l’opera di Giovanni da Tagliacozzo sembra, più delle altre, insistere su questo aspetto).

Il contributo dei nobili alla crociata (compreso quello di Iancu di Hunedoara) non corrispondeva a questa visione sugli eventi svoltisi sotto le mura di Belgrado e, di conseguenza, il suo ruolo nell’opera del frate da Tagliacozzo tende ad essere considerevolmente sminuito. Non possiamo escludere, però, che gli eventi di Belgrado stavano quasi per sfociare in una guerra popolare (è noto l’incidente dei crociati ungheresi, polacchi e tedeschi[31] che, non avendo ottenuto il permesso di inseguire gli Ottomani, stavano per ribellarsi al comandante, mentre il continuo arrivo di nuove ondate di crociati impose la precipitosa chiusura delle operazioni belliche, con la concessione della benedizione e dell’indulgenza promessa[32]). Al di là di qualsiasi intento propagandistico, permane in tutte le fonti uno spirito di ribellione nei confronti di un ordine ormai sconvolto: il re ed i baroni che fuggono davanti al pericolo, abbandonando il proprio ruolo istituzionale, e il popolo semplice che combatte per la fede e la libertà, ma che resta escluso ed emarginato nella vita sociale.

Le fonti francescane (ed, in particolar modo, per estensione e argomento, Giovanni da Tagliacozzo) si rifiutano di spiegare (e forse nemmeno lo sanno) la presenza a capo di questa “crociata dei poveri” di un nobile della portata di Iancu di Hunedoara (i cui beni, impressionanti all’epoca, gli avevano garantito il primato assoluto

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nel Regno d’Ungheria): non possono spiegarlo perché, probabilmente, non comprendevano in maniera sufficiente i delicati meccanismi della società transilvana e ungherese d’allora, ossia la base etnica e sociale sulla quale Iancu di Hunedoara fondò il proprio potere. Una conferma di questa spiegazione ci viene data, invece, da una lettera scritta a una certa distanza dagli eventi (il 5 marzo 1469) dal primo collaboratore di Giovanni da Capestrano, S. Giacomo della Marca (in quel periodo generale dell’Ordine). Elencando i meriti dell’Ordine dei Frati Minori di fronte al cardinale Francesco da Savona[33], facendo riferimento alla crociata del 1456, S. Giacomo della Marca scriveva: Et sepe dicti sacri nostri ordinis frater Johanes de Capistrano duxit exercitum hungarorum et aliorum regionum ad bel Gradum contra Turcos, nullo domino vel barone existente, quia timebant interfici a populis, excepto Johanne blancho, cun timore grande veniunt recedunt. Et facta est victoria magna et recuperatum est regnum ad magnificentiam fidei et sancti ordinis prefacti. Tralasciando la barbarità della lingua latina usata (che, quasi di sicuro, è dovuta a un’ulteriore trascrizione da parte di un copista inesperto ed infedele alla fonte originaria), risulta in una maniera evidente che l’assenza del re e dei baroni del Regno fosse dovuta appunto al timore di una possibile rivolta del popolo, che si sarebbe potuta concludere con l’annientamento del partito di Ladislao il Postumo e dell’alta nobiltà magiara di sangue antico e la conseguente presa del potere da parte del partito “popolare” di Iancu di Hunedoara, sostenuto non soltanto da un’ampia maggioranza della popolazione ma, appunto perché vlacchus, dai romeni del Regno d’Ungheria, forza politica che in quell’epoca risulta abbastanza potente e compatta, tanto da poter imporre il proprio candidato al trono.

 

 

 

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Dixit mihi quidam nobilis valaccus... Considerazioni in margine ad un «exemplum» di S. Giacomo della Marca

 

 

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[1] Di cui la più importante resta tutt’oggi J. Hofer, J. Kapistran. Ein Leben im Kampum die Reform der Kirche, IIa edizione curata da O. Bonmann, Roma–Heidelberg 1964-1965; traduzione italiana Giovanni da Capestrano, L’Aquila 1955.

[2] L. Wadding, Annales Fratrum Minorum, IIIa edizione, vol. XII, Roma, 1932, traduzione italiana in Vita di fra Giovanni da Capestrano, a cura di Michele Antonio di Loreto, L’Aquila 1988.

[3] L. Wadding, Annales cit., IIIa edizione, vol. XII, traduzione italiana in Vita di fra Giovanni da Capestrano cit.

[4] L. Wadding, Annales cit., IIIa edizione, vol. XII, traduzione italiana in Vita di fra Giovanni da Capestrano cit.

[5] Victoria mirabilis de Turcis habita duce Ven. B. Patre Fr. Joanne de Capistrano, series descripta per Fr. Jo. de Tagliacotio illius socium et comitem e Relatio mortis B. Jo. a Capistrano ad eundem B. Jacobum de Marchia in L. Wadding, Annales cit., IIIa edizione, vol. XII, pp. 750-796, traduzione italiana Relazione sulla battaglia di Belgrado e sulla morte di fra Giovanni da Capestrano, a cura di M. A. di Loreto, L’Aquila 1989.

[6] Historia Bohemica, LXV e Europa sui temporis varias continens historias, V, VIII, in Aeneae Sylvii Piccolomini Opera quae extant omnia, Basilea 1571.

[7] Petrus Ragusanus, Epitome rerum Hungaricarum, a cura di I. G. Schwandtner, in Scriptores rerum hungaricarum, Tyrnaviae 1765, pp. 643-648.

[8] Antonius de Bonfinis, Rerum Ungaricarum decades, edizione curata da B. G. Teubner, Lipsia 1936, d. III, lib. VII-VIII.

[9] H. Schedel, Historia rerum memorabilium ab anno MCCCCXXXIX ed annum MCCCCLX, edizione curata da A. F. Oefelius, Scriptores rerum boicarum, vol. I, Augustae Vindelicorum 1763, p. 394.

[10] Mi riferisco anzitutto alle lettere di Iancu di Hunedoara pubblicate in Monumenta Hungariae Historica, vol. 33, Budapest 1907, mentre per quanto riguarda Giovanni da Capestrano si veda sopratutto L. Wadding, Annales cit., IIIa edizione, vol. XII, ma anche ai frammenti pubblicati in Schematismus almae provinciae Sancti Joannis a Capistrano Ord. Fr. Min. S.P. Francisci in Hungaria ad annum Christi MCMIX, Koloszvar 1909.

[11] Mi riferisco in particolar modo alle lettere pubblicate negli Annales Fratrum Minorum. Periodica publicatio trimestris cura PP. Collegii D. Bonaventurae, ma anche in altri periodici di spiritualità francescana, come ad empio il “Picenum Seraphicum”, VI, 1969.

[12] Cod. Marc. Lat. XIV, 265-266, vol. 2, (no. 4501-4502), opuscula varia, vol. 2, cc. 259r-260r del no. 266 (4502), pubblicata da Renato Lodi, Alcune lettere inedite di S. Giacomo della Marca, in “Picenum Seraphicum”, VI, 1969, pp. 99-116.

[13] Christian Unity: the Council of Ferrara-Florence, 1438/39-1989, a cura di A. Giuseppe, Firenze 1989; C. Alzati, Influssi candiotto-veneti nella vita religiosa delle terre romene in Italia e Romania due popoli e due storie a confronto (secc. XIV-XVIII), a cura di Sante Graciotti, Firenze 1998, pp. 171-191.

[14] Per la pressione esercitata dai “cnezi” per ottenere l’accesso al sistema politico feudale transilvano si vedano I.–A. Pop, Instituþii medievale româneºti. Adunãrile cneziale ºi nobiliare (boiereºti) din Transilvania în secolele XIV-XVI, Cluj-Napoca 1991; I. Drãgan, Nobilimea româneascã din Transilvania între 1440-1514, Bucarest 2000.

[15] Quaresimale di Siena (1424), edizione anastatica del Cod. Capestr. XXXI, c. 53r; Cfr. anche Fr. d’Elia, Profetismo ed escatologia in S. Giovanni da Capestrano, in AA. VV., S. Giovanni da Capestrano nella Chiesa e nella società del suo tempo (Atti del Convegno storico internazionale Capestrano, L’Aquila 8-12 ottobre 1986), L’Aquila 1989, p. 228.

[16] Sermoni De pace e De bono unionis et caritatis, edizione anastatica del Cod. Capistr. XXIV, cc. 32v-35r.

[17] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap. 20, pp. 68-69.

[18] Non si tratta degli ussiti della Boemia, quanto dei bogomili, abbastanza diffusi a sud del Danubio e, in particolar modo, in Bosnia, eresia contro di cui l’Ordine aveva iniziato nell’epoca un’ampia azione di conversione.

[19] Sembra che Giovanni da Capestrano fosse stato implicato in una mediazione tra i nobili in conflitto, senza però conseguire alcun risultato, Cfr. J. Hofer, op. cit., pp. 639-640 e Schematismus cit., 26, 28 e 29.

[20] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap. 14, p. 54.

[21] H. Schedel, Historia rerum memorabilium cit., p. 394.

[22] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap. 22, p. 70.

[23] Ibidem.

[24] Nicola da Fara in L. Wadding, Annales cit., IIIa edizione, vol. XII, c. 105, p. 150.

[25] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap. 14, p. 54.

[26] Ibidem, cap. 17, p. 61.

[27] M. Kintzinger, De la région à l’Europe. Recrutement et function de l’entourage de l’empereur Sigismond in A l’ombre du pouvoir–les entourages princieres au moyen age, a cura di A. Marchandisse e J.–L. Kupper, Ginevra 2003, pp. 111-112.

[28] Cfr. A. A. Rusu, Ioan de Hunedoara ºi românii din vremea sa. Studii, Cluj-Napoca 1999.

[29] M. Kintzinger, op. cit., p. 108.

[30] G. da Tagliacozzo, Victoria mirabilis cit., cap. 19, p. 63.

[31] Ibidem, cap. 41, pp. 110-111.

[32] Ibidem, cap. 51, pp. 136-137.

[33] R. Lodi, op. cit., pp. 99-116.