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Il Levante di Venezia.

Criminalità in Dalmazia ed Albania nel secolo XVIII: itinerari di ricerca nell’Archivio del Consiglio di Dieci

 

Michela  Dal  Borgo,

Archivio di Stato di Venezia

 

Il termine “Levante veneziano” ha riscosso un certo successo nel dibattito storiografico europeo dell’ultimo decennio. Dal volume Levante veneziano, a cura di Massimo Costantini e Aliki Nikiforou sulle isole Ionie[1], cui ha fatto seguito il convegno internazionale di studi, sempre a cura di Costantini, su “Il Mediterraneo centro-orientale”[2], ai saggi di Alfredo Viaggiano sulla politica e sull’amministrazione veneziana sullo Stato da Mar[3], si è rinvigorita l’attenzione sulla “gestione” – mi sia consentito l’uso di questo termine onnicomprensivo – di questa vasta e strategica fetta dei domini veneziani che, proprio per la distanza con la Dominante-capitale, presenta caratteristiche e problematiche territoriali, socio-culturali, nonché religiose, cui fa necessariamente riscontro un sistema amministrativo e di controllo politico-giudiziario con sue adeguate specificità.

La Dalmazia, con l’Albania, rappreseentava una provincia fra le più estese e, nel contempo, tra le più povere e scarsamente popolate. Nel 1786, nelle parole dell’allora Provveditore Generale Francesco Falier, emerge la visione di un territorio poco adatto alla coltivazione, ancor meno all’industria “solo con ruinato commercio, atto appena ad accordare uno stentato vivere[4]. Nondimeno Dalmazia ed Albania meritavano una “predilezione distinta da parte della Serenissima e concreti aiuti alle popolazioni, duramente colpite da cicliche epidemie di peste ed esposte alle continue minacce del confinante impero Turco[5]. Non si doveva, insomma, mai dimenticare che “forma essa il litorale all’Adriatico, e può contarsi senza dubbio l’antemurale dell’Italia, della libertà e della pubblica sicurezza[6]. La Dalmazia e l’Albania erano governate da un Provveditore Generale, con i più ampi poteri di sovrintendere e coordinare l’attività più capillare di Provveditori, Castellani, Conti – a seconda dell’importanza politico-militare più o meno rilevante della sede – tutti patrizi veneti, eletti dal Maggior Consiglio e inviati a governare in nome di Venezia[7]. Se noi scorriamo le relazioni finali presentate in Collegio da questi Provveditori Generali una volta rientrati nella Dominante alla scadenza della carica, coglieremo

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interessanti riferimenti sull’indole, ovvero sulla “natura”, sentita quasi primordiale, di questi sudditi. I giudizi espressi, quasi ripetitivi anche a distanza di decenni, non rendono molto onore a questi fieri popoli di frontiera, soprattutto nei confronti del rispetto delle leggi e dell’ordine pubblico. “Feroci e rapaci li giudica Pietro Vendramin nel 1729[8]; “di natura feroce ma non indomita. Vuol esser trattato senza eccesso. La troppa dolcezza lo fa impertinente ed l’estraordinario rigore lo rende fiero ed aspro come si esprime Giorgio Grimani nel 1732[9]; “sono per natura dediti alle rapine, né viene tra loro considerato alcuno bravo soldato se non chi è haiduccu, vale a dire ladro da strada sono le lapidarie parole di Nicolò Zorzi Papadopoli nel 1756[10], ancor più pesanti se teniamo conto che, dalla Dalmazia, Venezia arruolava la sua migliore truppa marittima e terrestre come afferma anche il Romanin.

Gente dunque non facile da governaree e da tenere a freno, animati da un atavico odio – “un livore perenne dice il Papadopoli – verso gli Ottomani che provocava non infrequenti sconfinamenti ed episodi di cruente violenza, spesso senza apparente motivazione, che si riflettevano in situazioni di politica e diplomatica conflittualità con la Porta. Ma l’analisi più lucida per il “buon governo” di queste province è quella offerta dal segretario cancelliere Antonio Giusti al Provveditore Generale Francesco Grimani nel 1756[11]. Egli constata lo stato della “sconvolta provincia, ove ormai dilagano “abusi, contraffazione di tante leggi e sovvertimento totale della disciplina che solo “non vi si richiede meno di un miracolo per rifonderlo”. Il Giusti suggerisce ai governanti di usare una equilibrata miscela di severità, giustizia, carità: “La severità come un freno necessario al di lei feroce genio; la giustizia come un mezzo di sottrarla all’oppressione; la carità come ministra d’istruzione all’ignoranza e di sovvenimento alle sue indigenze. O variabil che fossero secondo la varietà de’ pareri l’uso di questa massima; o incagliando con gl’accidenti il rilassamento de costumi o mancando il tempo alle cure, o alle cure prevalendo la fatalità di queste genti: verità si è indenegabile che a seconda delle proprie malvagie inclinazioni sono precipitate in uno stato che tutto spira confusione et orrore”.

Ma la situazione sembra veramente aii limiti del gestibile, e l’unica scusante offerta dal Giusti a tanta criminalità è l’endemica miseria che abbruttiva gli animi. Cito ancora le dirette parole del Giusti, poiché è abitudine dell’archivista rifarsi direttamente ai documenti, specie se così pregnanti di significati come in questo caso:

 

Pigri costoro per natura, e percossi per mille ree abitudini dal provocato castigo della sterilità e di molt’altre sciagure, hanno sostituito ad un’arte innocente la professione enormissima del latrocinio, che se per l’inanti era un geniale esercizio dei più scorretti, or divenne una profesion generale et indistinta, et in una parola: un industria necessaria per vivere. Perché qui stando la depravazione, come un delitto ne figlia molt’altri, così da questa inondazione di ladronezzi derivano assai famigliari gl’omicidi e gli incendi et ogn’altro genere de deliti i più lacrimevoli. A così trascendente coratella [corruzione], mal potendo supplire le provvigioni ordinarie della

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Giustizia, ne sciegue che per un delitto che si punisca, molti se ne commettono che vanno impuniti. Il latrocinio se non è aggravato di pesanti circostanze per la sua frequenza e per un invalso politico riguardo, trattasi dalla Primaria carica con formalità sommaria e civile; ma appena un furattore è costretto a pagar un furto, ch’ei tosto diviene recidivo, per reintegrarsi di tutta la soccombeza, ancorché giustamente patita. Al qual passo s’intenderà, come stupenda et incredibil cosa, che questi ladroni impieghino la maggior parte del tempo loro nel meditare e concertare i furti; nell’eseguirli nasconderli e distrarli; e finalmente nel difendersi sino all’ultimo fiato dalle querimonie de derubati, che pur sono altrettanti ladroni. Né minor meraviglia recherà l’intendere che la folla incessante di tali querimonie occupino la maggior parte di un Generalato – a gravissime cure sottoposto – alla cui udienza, toltone la materia de’ terreni ch’è un altro abisso di confusione, null’altro s’ode, che un incessante clamore di ruberie, dall’une con perpetua vicenda nascendo altre, e da tutte assieme la sovversion del paese. Se poi li misfatti de Morlacchi arrivano a divenir criminali, ogni espediente che si prenda riesce nocivo e gl’indurrà vie più nella contumacia. Di rado presentandosi, i delinquenti incorono nel Bando, et incontro o si danno senza riserva all’infestazione delle strade o passano in Turchia e nel Paese Austriaco, mantenendosi di ruberie che trasportano, con le famigliari intelligenze, dall’uno all’altro stato, senza alcun rispetto alle leggi et ai riguardi della salute.

Né questo è il solo motivo che li muove e gl’alletta a dividere la sudditanza fra il Veneto, Austriaco et Ottomano Stato. Ciò fanno di continuo, o transitando con aperto libertinaggio dall’una all’altra parte, o dividendo le famiglie nella duplice stazione per tener piede ne terreni loro concessi, usar del doppio asilo a impunità de lor delitti, e riunirsi secondo ove li spinge l’urto degl’accidenti. Così servendo agl’Agallari delle vicine regioni Turche, non ben distinguersi il carattere della loro sudditanza: ciò che grandemente ripugna al vero interesse dello Stato. Per scusare questa inamisibil condotta allegano la povertà che gl’opprime e la necessità di sfamersi nelle terre ubertose della Bosna e della Lika”.

 

La difficile situazione nell’esercizzio di un’equa giustizia era parimenti stata oggetto di una dettagliata e specifica relazione da parte del Provveditore Generale Giacomo Boldù, nel 1748[12]. Sarebbe fuori luogo, in questa sede, dare troppa voce al Provveditore Boldù, ma ne suggerisco la lettura agli storici, anche antropologi, di tali territori. Il Boldù riferisce che furti ed omicidi sono i due eventi criminosi più diffusi, quasi dilaganti. Ad essi faceva seguito, nei costumi di quelle popolazioni, una immediata azione punitiva – di vendetta e rappresaglia – da parte dei famigliari dell’offeso contro tutti i parenti, seppur innocenti, del colpevole o presunto tale, venendosi a creare così una spirale di violenza che “per quanti vigorosi ordini e disposizioni siano state fatte dalla carica Gentilizia, e da Pubblici rappresentanti della provincia, mai fu possibile di sradicare dalla natione il barbaro costume delle suddette rappresaglie anche perché “succedono per lo più queste prima che giunga negli offitii la relazione degli omicidi”.

Particolarmente attenta la descrizioone della “solenne formalità” con cui, in altri casi o dopo la vendetta, le controparti, ignorando totalmente la giustizia dello Stato, si accordavano tra

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loro e patteggiavano un – in termini moderni – “risarcimento danni”, attraverso una privata arbitraria, che lasciava sostanzialmente i colpevoli impuniti. Alla luce di queste considerazioni assume ancor più valore la documentazione conservata presso l’Archivio del Consiglio di Dieci, consiglio sovrano e supremo tribunale penale nell’ambito dell’amministrazione veneziana. Ad esso spettava giudicare “i casi di prodizione, di Sette; di turbato pacifico Stato, di sodomia; d’arme da fuoco, di false monete o merci; d’intacco di Cassa Fiscale; di viziature di pubblici scritti; di maschere, di singolare duello. Sono sue particolarmente le Causa Criminali nelle quali intervengono Ecclesiastici, Patrizi; Secretarii, Notari Ducali, Ufficiali e Ministri inservienti”[13]. E li giudicava secondo una procedura particolare, segreta che, per le caratteristiche presentate, si definiva “rito dell’Eccelso”[14]. Per comodità del lettore, le caratteristiche più significative di tale rito possono così riassumersi: processo scritto sempre per mano del Cancelliere, i testi citati – de visu, cioè presenti al fatto, o de audito, come bene informati sull’accaduto – restavano segreti, così come le loro deposizioni (venivano fatti giurare de silentio e poi anche de veritate); il reo, se arrestato, non era subito informato del reato che gli era contestato, e anche alla fine dell’istruttoria, non otteneva copia del processo per programmare la sua difesa; non erano permessi ricognizione dei testi, confronto tra testi o tra reo e testimoni (permesso invece il confronto tra imputati); la pena doveva essere esclusivamente corporale (pena di galea con ceppi ai piedi, di prigione serrata alla luce, di bando, a tempo o in perpetuo, per i rei condannati in contumacia); la sentenza era inappellabile ma il condannato poteva ottenere la realdizione, ovvero una riapertura. Nei casi dei processi delegati con “rito”alle autorità locali – nella fase di “formazione” (istruttoria) e/o anche di “spedizione” (emissione della sentenza) – queste agivano con pari autorità dei Dieci, rendendo il processo inappellabile. Ma per quanto importante, questa fonte ha purtroppo subito gravissime e volontarie operazioni di scarto selvaggio all’inizio del XIX secolo.

Dopo la caduta di Venezia (maggio 17797), solo nel 1807 le autorità francesi del Regno d’Italia avviarono un piano generale di riorganizzazione e sistemazione degli archivi dell’ex Serenissima Repubblica. Nel 1812 si procedette, assecondando le istruzioni inviate dal Prefetto Generale degli Archivi, Luigi Bossi, all’Archivista Generale Marin, ad una massiccia operazione di scarto delle carte inutili, in particolare ad essere stralciata dai fondi originari fu la documentazione di tipo giudiziario e contabile, ritenuta di non poter più essere “d’alcun servizio per lo Stato, né futuro “oggetto di ricerca per parte de privati e neppure da considerarsi monumenti diplomatici e/o storici che servano in alcun conto alla storia[15]. La documentazione così “espurgata” fu depositata nella chiesa soppressa di San Paterniano, e in seguito venduta ad una fabbrica di carta, per essere distrutta e riciclata. Dall’archivio del Consiglio di Dieci fu

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eliminata la parte più antica, salvando solo i processi della seconda metà del XVIII secolo, ritenuti ancora utili sia giudiziariamente che amministrativamente[16].

Alla luce di questo scempio archivisstico, analizziamo ora quanto rimasto a disposizione del ricercatore per uno studio sulla criminalità in Dalmazia ed Albania. Sia conveniente fare una considerazione di carattere generale e di metodologia: non riduciamo la documentazione processuale a mero ed univoco strumento di indagine sulla sola giustizia penale. Come ha ben rilevato Claudio Povolo, il processo è “fonte spesso insostituibile” nell’ambito di uno studio storico-sociologico di un territorio o di una comunità. Per tutti, basti pensare allo splendido affresco di una intera “cultura popolare” fatto da Carlo Ginzburg nel volume “Il formaggio e i vermi” proprio partendo dalla vicenda processuale del mugnaio Menocchio, inquisito dal Santo Uffizio alla fine del ‘500. Ritornando a queste fonti, preziose e poliedriche, all’archivio del vero e proprio Consiglio di Dieci appartiene la serie dei “Processi Criminali delegati”, composta complessivamente di 604 buste di incartamenti processuali, cronologicamente solo dal 1750 in poi (per le già citate ragioni), ripartite per le principali città o territori del dominio da Terra e da Mar[17]. Per la Dalmazia e Albania ci sono pervenute 32 buste per complessivi 129 incartamenti processuali. Scorrendo i capi di imputazione, al primo posto è l’omicidio (27), spesso perpetrato in famiglia o a scopo di vendetta, o come aggravante di un tentativo di furto. Seguono poi le “violenze” (26), venendo queste onnicomprensivamente ad identificare molestie, più o meno efferate, commesse in famiglia, o contro le pubbliche autorità, o contro la popolazione, talora corrispondenti a “tentativi” falliti di omicidio. Seguono poi statisticamente gli incendi dolosi, contro beni dello Stato, ad esempio i boschi[18], o contro beni di privati, probabilmente a scopo di vendetta personale o per rappresaglia. Al quarto posto gli “abusi di potere”, ovvero irregolarità commesse da pubblici rappresentanti – laici, militari ma anche religiosi – nell’esercizio del loro ufficio (11). I restanti capi d’imputazione si spargono tra “frodi” (9), comprensive di frodi daziarie ma anche di falsi monetari; “sedizioni”, ovvero formazioni di vere e proprie “bande armate” a scopo di taglieggiamento nei confronti delle popolazioni piuttosto che di opposizione al sistema politico (9), “offese alla religione”, cioè bestemmie e altri atteggiamenti contrari alla dottrina cristiana (7), furti, anche sacrileghi (5) (ma la bassa incidenza non deve trarre in inganno, essendo quasi sempre il furto presente anche nei processi per omicidio), violenze e sedizioni, “intacco” cioè frode alle casse di un ufficio pubblico o di altra istituzione, è la nostra appropriazione indebita (5), deflorazione (3), ammutinamento (2), incesto, anche con l’aggravamento di infanticidio (2).

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Per personale verifica, devo dire chhe il panorama criminoso di questi territori, malgrado la cattiva fama corrente nella Dominante e riferita poc’anzi, poco si distoglie da quello di altre province del dominio da Terra, come ad esempio il rettorato bresciano, anch’esso terra di confine, dove sembrano pullulare bande armate al seguito di signorotti locali o composte da fuoriusciti, banditi da strada, malviventi pronti a tutto per sopravvivere[19]. Ai Capi del Consiglio di Dieci è invece da riferirsi la serie “Processi e Carte criminali”, organizzata per località o per magistratura delegata, comprendente anche due buste attribuite al “Provveditore Generale in Dalmazia ed Albania”, per il periodo 1507-1764. Purtroppo tale documentazione[20] molto raramente comprende interi e completi incartamenti. Trattasi per lo più di “frammenti” in materia penale, quali denuncie, informazioni, costituti, capitoli a difesa. Ma, nella scarsità della documentazione non vanno neppur essi ignorati.

Le serie processuali testé citate pootranno – anzi dovranno – essere integrate dalla consultazione delle Parti, ovvero delle deliberazioni, emesse dal Consiglio di Dieci ad esse attinenti e conservate nelle serie dei registri, e rispettive filze, dei “Comuni” e dei “Criminali”, nonché dalle lettere periodicamente inviate dai Provveditori Generali ai Capi del Consiglio di Dieci, che, a differenza di quelle conservate negli archivi del Senato e nella serie specifica dei “Provveditori da Terra e da Mar”[21], informavano il Consiglio centrale sull’andamento dell’ordine pubblico, sulla criminalità e sull’amministrazione giudiziaria[22]. Ed infine la serie delle “Raspe dei Rettori e altre cariche”, attribuibile all’archivio proprio del Camerlengo del Consiglio di Dieci[23]. Tale documentazione trae origine dal contributo fisso che spettava alla Cassa del Consiglio su tutte le sentenze emesse in processi da esso delegati, sia con procedura ordinaria, o servatis servandis, o con proprio rito di segretezza[24]. La serie è ordinata alfabeticamente per località o per magistratura, all’interno in ordine cronologico, ed è composta complessivamente di 67 buste[25]. Al Provveditore Generale in Dalmazia ed Albania corrispondono le buste numerate 23 e 24, comprendenti le raspe dei Provveditori Francesco Grimani, Alvise Contarini III, Domenico

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Condulmer, Giacomo Da Riva, Giacomo Gradenigo, Alvise Foscari III, Paolo Boldù, Alvise Marin, per gli anni dal 1753 al 1795 (purtroppo con lacune). Con quest’ultima segnalazione concludo questo mio intervento di carattere squisitamente archivistico, nella speranza di aver adeguatamente solleticato il vostro desiderio di conoscenza storica anche attraverso nuove vie di ricerca, ricordando comunque che gli Archivi, per loro stessa natura, rappresentano non uno itinere, ma mille e mille ricchissimi percorsi, talvolta ancora inesplorati.

 

 

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[1] Levante veneziano. Aspetti di storia delle Isole Ionie al tempo della Serenissima (a cura di M. Costantini e A. Nikiforou) [Quaderni di Cheiron, 2], Roma, 1996.

[2] Il Mediterraneo centro-orientale tra vecchie e nuove egemonie. Trasformazioni economiche, sociali e istituzionali nelle Isole Ionie dal declino della Serenissima all’avvento delle potenze atlantiche ( secc. XVII-XVIII) (a cura di Costantini), Roma, 1998.

[3] A. Viaggiano, “Venezia e le isole del Levante. Cultura politica e incombenze amministrative nel Dominio da Mar del XVIII secolo”, Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti 151 (1992-1993): 753-795.

             [4] Cfr. S. Romanin, Storia di Venezia, vol. IX, Venezia, 1853-1863: 132-133.

                                                              [5] Ibidem.

                                                              [6] Ibidem.

[7] Sulla distribuzione delle cariche veneziane presenti in Dalmazia e Albania confronta il sunto offerto in A. Da Mosto, L’Archivio di Stato di Venezia, II, Roma, 1940: 17-19.

[8] Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi sarà citato ASV), Collegio, Relazioni: b. 69, ad datum.

                                                              [9] Ibidem.

                                                              [10] Ibidem.

                                                    [11] Ibidem: no. 69, 1756.

                    [12] ASV, Collegio, Relazioni: b. 69, 1748, 30 agosto, spedita da Zara.

[13] Z. G. Grecchi, Le formalità del processo criminale nel dominio veneto, I, Padova, 1790: 14; cfr. anche G. Maranini, La Costituzione di Venezia dopo la serrata del Maggior Consiglio, Firenze, 1927: 432-434.

[14] Sulla formazione del processo penale in area veneta Cfr. C. Povolo, “Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVII”, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (a cura di G. Cozzi), Roma: 155-258. Sul “rito del Consiglio di Dieci”, Cfr. Povolo, Il processo Guarnirei. Buie-Capodistria, 1771, Capodistria (Slovenia), 1996: 9-32, e bibliografia ivi citata; M. Dal Borgo, “Contrabbando e bande armate nella campagna trevigiana (sec. XVIII)”, Storiadentro 3 (1980): 13-19.

                                          [15] ASV, Archivietto: b. 23, fasc. 144.

[16] La vicenda è stata ben indagata e descritta da Povolo, Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del ‘600 all’anonimo manoscritto dei Promessi Sposi, Venezia, 1993: in particolare 57-64.

[17] Tale serie fu oggetto di schedatura analitica – nell’ormai lontano 1978-1980 – su iniziativa del professore Gaetano Cozzi, nell’ambito della ricerca “I giudici nella Repubblica di Venezia”, finanziata dal Centro Nazionale delle Ricerche, e portata a termine da chi scrive, in collaborazione con Laura Riannetti. I repertori, consegnati al Dipartimento di Studi Storici, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi Ca’ Foscari di Venezia, non sono ancora a libera consultazione al pubblico.

[18] Su reati contro il patrimonio boschivo nella vicina regione dell’Istria si veda Dal Borgo, “Il Consiglio di Dieci e il patrimonio boschivo Istriano. I processi del fondo «Processi criminali delegati»”, Histria Terra. Supplemento agli Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria 2 (1997): 33-59.

[19] Cfr. Dal Borgo, “Lungo l’Oglio: la criminalità bresciana nel secondo Settecento”, Rive e rivali. Il fiume Oglio e il suo territorio (a cura di C. Boroni, S. Onger, M. Pegrari), Brescia, 1999: 133-152.

       [20] In grave disordine e ancora oggetto di inventariazione analitica da parte di chi scrive.

                                                    [21] Cfr. l’Indice no. 321.

[22] ASV, Capi del Consiglio di Dieci. Lettere dei rettori ed altre cariche: bb. 303-304, per gli anni 1656-1796; Cfr. Indice analitico no. 95.

[23] Il Camerlengo era organo interno per la gestione contabile della cassa propria del Consiglio di Dieci, cassa non sottoposta ad alcuna revisione o controllo per motivi di segretezza. Il termine raspa, in linguaggio archivistico, sta ad individuare registri di sentenze. Serie di raspe sono pertanto presenti anche in archivi di altre magistrature veneziane (ad esempio in Avogaria di Comun).

[24] Tale materia fu ridisciplinata nel 1728 m. v. (=1729), 9 febbraio, dall’allora Camerlengo Andrea Renier e approvata dallo stesso Consiglio di Dieci il successivo 4 maggio.

[25] Cfr. l’inventario analitico Camerlengo del Consiglio di Dieci, Raspe dei Rettori (a cura di Dal Borgo): no. 466. Cfr. anche Dal Borgo, “Per una ricerca sulla criminalità a Zante nel secondo Settecento: le “raspe” dei rettori nell’archivio del Camerlengo del Consiglio di Dieci (Archivio di Stato di Venezia)”, Atti del Convegno Panellenico, 23-27 settembre 1997, Zante, 1997: 327-335.