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La metafora e il mito in Hans Blumenberg

 

 

Cristian  Baumgarten,

Pontificia Università Lateranense di Roma

 

La materia da cui spunta la riflessione di Blumenberg sono i simboli, i miti e le metafore. Il Libro, il Naufragio, il Riso, la Caverna, rappresentano “frammenti” in cui si riflette la complessità del mondo. Una complessità in cui l’uomo ha il compito di mettere ordine. Quest’ordine viene continuamente revocato e rinnovato. Secondo l’autore, il contenuto della metafora produce un acquisto di conoscenza; in questo senso la sua analisi riguarda la metafora nella sua specificità. Esistono le cosiddette metafore-guida. Esse contengono un sostrato, un nucleo iniziale, un’immagine, una figura. “Tali figure si ripetono nella cultura filosofica, ma anche nella cultura scientifica, o in quella letteraria: hanno una loro peripezia attraverso metamorfosi, piccole variazioni, fino alla scomparsa, all’esaurimento, quando la metafora si ribalta in sé stessa, si inverte nei suoi termini[1].

Fino ad una ulteriore elaborazione, Blumenberg considerava che le metafore fossero in numero ridotto. Le aveva nominate «metafore assolute», ritenendole in qualche modo “un alfabeto, come se l’umanità, nella sua storia culturale, avesse continuato a muovere alcuni pezzi su una scacchiera che rimane la stessa[2]. Dopo anni di lunga e dettagliata ricerca, considererà che difatti, esistono innumerevoli di questo tipo di metafore. Si può dire innumerevoli, perché se ne creano e se ne distruggono continuamente. Parlando dei miti, invece, si possono paragonare con le «variazioni» nella musica: “E’ per mezzo di questa variabilità che i miti si distinguono dai testi sacri, nei quali neanche uno ‘iota’ può essere modificato. Allo stesso modo dei nomi anche i miti mirano all’unico obiettivo di impadronirsi del mondo non-familiare[3].

Prima di tutto, dobbiamo tracciare i confini del mondo della metafora, per non confondere il suo ruolo e minimizzare la sua utilità. Le metafore non forniscono “un aiuto ai concetti, i quali poi le perfezionerebbero; non si tratta cioè di costruire dei supporti, per poi, arrivati a produrre quello che ci si proponeva, liberarsi di queste stampelle; la metafora non è più un artificio che serve temporaneamente e in modo transitorio[4]; le metafore, come vedremo, rappresentano un orientamento attivo ed incancellabile del pensiero umano. Rivelano strutture polisemantiche, intrinseche al

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mondo, “condensano la molteplicità delle relazioni possibili che fanno da sfondo ad ogni astrazione; rappresentano il limite e l’alone indicibile, i presupposti impensabili di ogni pensato[5].

Nella visione del nostro autore, alcune metafore, cariche di significato, per esempio la Lebenswelt, rappresentano un mondo d’esperienza che passa oltre la sfera della dicibilità. Ricordando Valéry: «Ciò che non è ineffabile non ha alcuna importanza», stiamo di fronte alla paradossalità: se c’è un dire così trasparente in e a se stesso da non lasciare nessun confine al non detto, di ineffabilità, quel dire non ci interessa, non può produrre conoscenza. E’ chiaro che Blumenberg fa giocare la frase di Valéry sulla scia della notissima affermazione di Wittgenstein, secondo cui dobbiamo tacere di ciò di cui non possiamo parlare. Un altro esempio potrebbe essere quello del «prato» che «ride»: “Ci rimanda all’elemento del volto (pensando a Lévinas): qualcosa ci spinge oltre la dicibilità; qualcosa ci spinge anche oltre la visibilità, oltre il conoscere e oltre il puro e semplice vedere[6]. E’ in questo senso, osserva Blumenberg, che si può parlare di un’affinità fra la mistica e il mito. Caratteristico per entrambe sarebbe proprio il rifiuto di cercare e di dare risposte a delle domande. Se gli si chiede ancora perché il mito non abbia bisogno di rispondere a delle domande, egli replica: «Il mito […] inventa prima che la domanda diventi pressante e affinché essa non diventi pressante»”[7]. Il pensiero cerca nella metafora uno strato primario, “la soluzione nutritizia delle cristallizzazioni sistematiche, ma vuole anche far conoscere con quale «coraggio» lo spirito si espone allo scoperto nell’arditezza delle sue immagini, e come in questo coraggio di arrischiare progetta la sua storia[8].

La verità della metafora, considera Blumenberg, è una pragmatica. Il loro contenuto orienta nel mondo, determina un comportamento. Esse offrono una struttura al mondo, danno una rappresentazione del tutto della realtà, che non si può mai sperimentare o dominare. “Esse indicano le certezze, i presentimenti, le valutazioni fondamentali e portanti che regolarono atteggiamenti, aspettative, azioni e omissioni, aspirazioni e illusioni, interessi e indifferenze di un’epoca[9].

Il pensiero sul mito di Blumenberg, è radicalmente opposto all’impostazione illuministica mossa dal pregiudizio della ragione che considera il mito come «accecamento», secondo la formulazione resa celebre dalla «dialettica negativa» di Adorno. Contemporaneamente, esso si oppone alla visione romantica, per la quale il mito rappresenta particolarmente l’affermazione gioiosa della vita, una libera e piena manifestazione della natura: linea teorica che parte da Vico e arriva a Schlegel. “Certamente, è vero –e in questo Blumenberg concorda col romanticismo– che il mito è una manifestazione della libertà; soltanto, tale libertà non è un dato originario, bensì il

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risultato di un processo, un prodotto, una conquista anzi proprio del rischiaramento. La mitologia, «in quanto rielaborazione di un più antico patrimonio di rappresentazioni opprimenti e angosciose» non costituisce allora «la condizione originaria, bensì una liberazione rispetto ad essa»; si tratta dunque, di una «libertà secondaria», derivata, che si è potuta realizzare solo «attraverso un processo di superamento[10]. La funzione del mito è per Blumenberg, quella di liberare l’uomo dall’angoscia di fronte all’«assolutismo della realtà» (da non confondersi col senso di primordialità): “Assolutismo della realtà significa che l’uomo quasi non controllava le condizioni della propria esistenza e, ancora più importante, semplicemente credeva di non controllarle[11]; l’uomo, per la sua condizione originaria, è esposto alla sovrapotenza dell’essere in uno stato naturale negativo che rende la vita impossibile. Questa situazione, l’uomo la vive, la patisce con angoscia. Angoscia intesa da Blumenberg, come “intenzionalità della coscienza senza un oggetto. Essa rende equivalente l’intero orizzonte, come totalità delle direzioni dalle quali «qualcosa può sopraggiungere»[12]; l’uomo si sente debole di fronte ad un orizzonte indeterminato, totalmente aperto. Per questo motivo, “l’angoscia viene continuamente razionalizzata in paura, tanto nella storia dell’umanità quanto in quella dell’individuo[13].

Siccome nell’opera Paradigmi per una metaforologia del pensare, l’autore riesamina il rapporto fra fantasia e logos, dovremmo chiarire quali sarebbero i confini reali fra le due dimensioni, nel contesto di un rischio del rovesciamento delle loro identità: “Il mito non è una fertile riserva di senso per la sempre più esangue ratio della scienza, né esso si pone con una valenza utopica rispetto alle «crisi di legittimazione» della società contemporanea. Blumenberg non mira a stabilire un rapporto di compensazione ovvero di complementarità fra mito e ragione. Il mito non è un surrogato della ragione, bensì una sua peculiare e autonoma forma di manifestazione. Sullo sfondo, mai del tutto esplicitato ma non per questo meno evidente, opera qui un presupposto, in senso lato, naturalistico; la ricognizione fenomenologica di Blumenberg si sostiene sulle basi di un’antropologia filosofica, sostanzialmente antiroussoviana, che vede la condizione umana quale si determina dopo la rottura di una primigenia irrecuperabile fusione col mondo, come assoggettata alla dura necessità di uscire allo scoperto, fuori dalla protezione della caverna originaria. Esposto e insicuro, non garantito dall’automaticità di comportamento dell’istintualità animale, l’essere umano deve con fatica costruire le istituzioni che lo custodiscano e lo preservino[14].

Esiste fra il carattere finito, mortale della nostra esistenza e l’infinità della coscienza un dramma incommensurabile. Una tensione incessante fra l’immemoriale della nostra origine e l’attuale coscienza. Con altre parole, Blumenberg sottolinea questa

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tensione come quella fra la preesistenza e l’esistere, fra «tempo di vita» e «tempo del mondo». In questo senso, il mito acquista, secondo lui, una funzione distanziante dall’«assolutismo della realtà», un valore di depotenziamento critico. Dunque non è più la ragione che assume questo compito critico di valutare i problemi fondamentali dell’esistere: “Le storie del mito «non venivano raccontate per rispondere a domande, ma per scacciare il disagio e l’insoddisfazione, che sono la prima condizione perché possano sorgere delle domande. Ovviare alla paura e all’incertezza significa già impedire che sorgano oppure che si concretizzino le domande relative a ciò che le suscita e le alimenta»[15]. I miti non sono, come da sempre ha voluto l’allegorismo razionalistico demitizzante, risposte distorte a problemi ben posti, bensì “procedure narrative, «significatività» liberamente prodotte le quali esse stesse generano problemi[16].

Non si può parlare in Blumenberg di un passaggio dal sistema delle metafore e dei miti al contesto di un pensiero filosofico e scientifico; di una transizione dal mythos al logos, in termini husserliani, dal «mondo della vita» alla teoria: “Blumenberg dimostra come tale transizione non esista, come le metafore e i miti non siano strutture prelogiche provvisorie, che sarebbero poi sostituite da idee chiare e distinte. La trasformazione ‘cartesiana’ dell’intera conoscenza in pura concepibilità è riduttiva e talvolta fuorviante. Esistono altri modi del discorso che non sono affatto più poveri di significato rispetto agli enunciati ‘scientifici’ o descritti. […] Come già sapeva Vico, vi è anche una «logica della fantasia», che, peraltro, non si manifesta esclusivamente durante i primi stadi della civiltà o della vita individuale. Essa costituisce il «substrato» per le operazioni di pensiero, il «catalizzatore» che arricchisce continuamente i concetti, senza consumarsi[17].

Abbiamo nelle metafore degli atteggiamenti pre-riflessivi, modi originari di situarsi e rivolgersi al mondo. E ancora il motivo per cui “Vico aveva dichiarato la lingua della metafora altrettanto «propria» quanto il linguaggio comunemente ritenuto tale, sennonché egli è ricaduto a suo modo nello schema cartesiano allorché ha riservato per la lingua della fantasia un’epoca primitiva della storia. L’esibizione di casi di metafora assoluta, offre l’occasione a riesaminare il rapporto fra fantasia e logos, e precisamente nel senso di considerare l’ambito della fantasia non soltanto come substrato per operazioni di trasformazione a livello concettuale per cui, per così dire, un elemento dopo l’altro potrebbe venire sottoposto a elaborazioni e modificazioni sino a esaurimento della disponibilità di immagini ma piuttosto come una sfera catalizzatore, alla quale il mondo concettuale certamente di continuo si arricchisce, senza tuttavia modificare o consumare questo sfondo costitutivo primario[18].

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I miti e le metafore non sono semplici strutture prelogiche, destinate alla chiarificazione dei concetti. Non si esauriscono nel loro ruolo di «sostrato» o «catalizzatore», appunto perché la conoscenza non va confusa con la concettualizzazione.

        Esistono, dicevamo, per Blumenberg «metafore assolute», che non possono ridursi o dissolversi nei concetti. Sono dei «paradigmi» che hanno una vera storia. “La metaforologia si presenta così come una disciplina, in via di costituzione, che offre la cornice per comprendere meglio le teorie filosofiche e scientifiche, che «cerca di ritoccare le sottostrutture del pensiero stesso, la soluzione nutritiva delle cristallizzazioni sistematiche, ma vuole anche far conoscere con quale ‘coraggio’ lo spirito si espone allo scoperto nell’arditezza delle sue immagini, e come in questo coraggio di arrischiare progetta la sua storia»[19].

La metafora e il mito rappresentano un orizzonte di intelligibilità, riforniscono di senso i nuovi problemi. Il mito, in questo senso è al servizio del logos, “ha la funzione di «depotenziare» lo strapotere della realtà, il suo «assolutismo». Ciò significa che, quando gli uomini credono di non avere nelle proprie mani il controllo della realtà, cercano spiegazioni per l’inspiegabile[20]. Cercando di familiarizzarsi, avvicinarsi il mondo, la «paura» si razionalizza attraverso il mito. In questo modo ci si allontana da un’angoscia che non ha ancora un nome. A sua volta, la metafora “non è una regressione intollerabile dal logos al mito, ma il quadro ‘tropico’ di riferimento del pensiero. […] Anche le forme più astratte di conoscenza trovano le loro radici nel ‘precategoriale’, a cui prescrivono un ‘progetto’, un campo di proiezioni possibili[21].

Il bisogno di razionalizzazione che rimanda al piano elevato del contenuto dottrinale e dogmatico, sul piano del mito si risolve nella semplice dimensione del racconto. Il mito si realizza solo nella dimensione della coscienza ricettivo- ermeneutica. Tramite un processo produttivo storico della ri-narrazione, il mito si contrappone all’immobilismo antistorico e al culto esagerato dell’arcaico. Esso indirizza sempre all’orizzonte della sua ricezione, piuttosto che a quello della sua origine. La dimensione originaria del mito si percepisce nella funzione del “racconto”:L’esigenza del raccontare, richiamando l’attenzione del lettore, è primaria anche rispetto alla coerenza dottrinale. In quanto racconto, il mito è sempre libero da contraddizioni, nel senso che esse non lo vincolano ad alcun onere di verifica[22].

Alla storia del mito non si può fissare nessuna versione originaria o definitiva. La sua ricezione coincide in un certo senso con la sua nascita. Siccome diventa così impossibile parlare di una genesi del mito, è invece obbligatorio parlare di una loro «epigenesi» che si attua nella ricezione. Nello stesso modo, è nella ricezione che dev’essere ricercato il significato di un’opera, e non nel suo preteso «valore intrinseco».

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[…] L’origine del mito è essa stessa lavoro sul mito, leggere il mito significa costruirlo. Quanto più forte e motivata è la distruzione operata dalla critica, tanto più forte diviene l’azione di ricomposizione che si attua nella lettura[23]. La ricezione, è essa stessa una produzione. Su questo terreno tematico, Blumenberg sostiene che il mito ha una sua crescita, morte e rinascita, oltre la sua sfera teoretica comprensibile. Il mondo delle sue immagini e proiezioni si rinnova incessantemente.

Guardiamo al mito come ad una memoria dell’immemoriale, come ad uno spazio scenico nudo; il mito è visto come “un’appropriazione del senso virtualmente infinita, il limite sempre sfuggente e che nessuna parola afferra una volta per tutte al di qua del quale la ragione, indifferentemente, dispiega teogonie o lavora alla morte di Dio, edifica le più audaci costruzioni intellettuali o ne smantella i presupposti, fonda o sfonda. Ed è precisamente la consapevolezza di questa originaria indifferenza (o, più esattamente, di questo costitutivo essere in rapporto con il caos, come dicevano i romantici) che fa del mito il luogo (teatrale o ludico) di un esercizio di emancipazione piuttosto che il veicolo (terroristico) di un autoritarismo violento[24].

 

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© ªerban Marin, June 2005, Bucharest, Romania

 

Last updated: July 2006

 

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[1] Pier Aldo Rovatti, Blumenberg, il naufragio, in Idem, Il declino della luce, Marietti Editrice, Genova 1988, pp. 113- 114.

[2] Ibidem, pp. 114 e segg.

[3] Hans–Ludwig Ollig, Blumenberg in difesa del mito, in “Il Nuovo Areopago”, no. 1 (9), 1984, p. 124.

[4] P. A. Rovatti, op. cit., p. 120.

[5] Remo Bodei, Introduzione, in Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigmi di una metafora dell’esistenza, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 9-10.

[6] Ibidem, p. 122.

[7] H.–L. Ollig, op. cit., p. 130.

[8] H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Il Mulino, Bologna 1969, p. 9.

[9] Ibidem, p. 10.

[10] Gianni Carchia, Introduzione, in H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, Il Mulino, Bologna 1992, p. 8.

[11] H. Blumenberg, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna 1991, p. 25.

[12] Ibidem, p. 26.

[13] Ibidem, p. 29.

[14] G. Carchia, op. cit., p. 9.

[15] H. Blumenberg, Elaborazione del mito cit., p. 231.

[16] G. Carchia, op. cit., pp. 11-12.

[17] Remo Bodei, Introduzione, in H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna 1984, p. 19.

[18] H. Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino, Bologna 1989, p. 7.

[19] H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Il Mulino, Bologna 1969, p. 9.

[20] R. Bodei, op. cit., p. 20.

[21] Ibidem, p. 21.

[22] Ibidem, pp. 21-25.

[23] Ibidem, pp. 26-30.

[24] Sergio Givone, Le voci contraddittorie degli dei e il silenzio di Dio, in «Filosofia’90», Laterza, Bari–Roma 1991, pp. 47-48.