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Mircea Cărtărescu

e il mito della reintegrazione

 

Alvaro Barbieri,

Università di Verona

 

      “Amico, come lottare contro la chimera?” Comincia così, nella traduzione italiana di Bruno Mazzoni[1], l’allucinata inchiesta condotta dall’io narrante (o meglio scrivente) di Travesti, romanzo di Mircea Cărtărescu apparso in Romania nel 1994. Come si capirà dal séguito dell’opera, l’“amico” chiamato in causa dall’apostrofe incipitaria non è altro che un’ipostasi della voce emittente, un doppio fantasmatico inchiodato ai territori crudeli dell’adolescenza, irretito dai sortilegi di un passato indecifrabile. Tutta l’opera si dà programmaticamente come “lotta con la [...] chimera”[2], come “scontro psichico”[3] ed esercizio di anamnesi. Specillando le pieghe sanguinanti di una memoria lacunosa e di un immaginario turbato, il protagonista cerca di fare luce sulle sue idee fisse e sui nodi segreti della sua esistenza. Questa indagine dolorosa, perseguita attraverso la scrittura, ha finalità terapeutiche: si tratta infatti di guarire da una paralisi mentale nutrita di nevrosi e pensieri ossessivi. Victor, soggetto enunciante del racconto, sente con sicurezza che tutti i suoi incubi promanano da un unico mistero primario che interessa la psiche e la carne. Questo mistero, questo groviglio inestricabile (frequente l’immagine del viluppo), è precisamente l’oggetto della quête, la chimera menzionata nell’interrogativa iniziale. Il testo è molto esplicito al riguardo e fornisce numerosi riscontri. Per ragione di brevità, mi limito qui a riportare un passaggio emblematico: “Mi tengo adesso come all’ultimo filo di speranza, con l’idea che è forse possibile guarire tramite la scrittura. Per dipanare insomma [...] questa matassa, questo groviglio di viscere, questo mandala che mi sta intessuto nel cervello. Se la scrittura è, come si dice, una terapia, se può guarire, dovrebbe poterlo fare ora. Imbratterò pagina dopo pagina, userò i fogli come garze che s’impregneranno non d’inchiostro, ma della suppurazione della mia antica ferita”[4].

        Per mettere ordine nella sua mente tormentata, Victor, un giovane scrittore di successo, si isola in una località di montagna, Cumpătu. Lì, in una residenza solitaria sui Carpazi, si impone di interrogare ostinatamente il suo passato, fissando lo sguardo su un magma di ricordi paurosi, di visioni terrifiche. In particolare, la sua attenzione si concentra su un fatto accaduto in un agosto di molti anni prima, durante una settimana trascorsa a Budila, allorché si trovava in colonia estiva insieme ai compagni di liceo.

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Durante una festa in maschera all’aperto, Victor era rimasto sconvolto dall’apparizione di un suo coetaneo, Lulu, pesantemente truccato e vestito da donna, con grossi seni di ovatta, ciglia finte, una “parrucca lussureggiante, rosso fuoco, e un neo appiccicato sul mento”[5]. Ma l’evento traumatico si era compiuto più tardi, all’interno del vasto e fatiscente edificio che ospitava gli studenti. Con aria ammiccante e mosse lascive, Lulu aveva afferrato la mano di Victor premendosela sul pube: “Improvvisamente, mi ha preso la mano e, sollevandosi la minigonna, me l’ha messa sullo slip di merletto e per un attimo ho sentito, attraverso di esso, il suo sesso duro e umido” (corsivo mio)[6]. Nel ricordo atterrito e disgustato di Victor, il sesso di Lulu è duro e insieme umido, presenta cioè nello stesso tempo le manifestazioni maschili e femminili dell’eccitazione. Ma l’accostamento confliggente di tratti sessuali virili e muliebri era già emersa con conturbante evidenza nella descriptio del liceale travestito: “I seni rotondi, di una dimensione grottesca, ma le braccia muscolose, con mani quadrate e potenti”[7]. È questa frizione irrisolta di contrari a far esplodere nell’inconscio di Victor la certezza spaventosa di lontani orrori rimossi. Il contatto schifoso col sesso di Lulu diventa “il centro osceno e misero”[8] della sua vita, mentre la figura ripugnante del travesti si incista nei suoi pensieri come una “divinità dell’abiezione”[9], “un idolo colorato vistosamente”[10]. D’altra parte, il terrore suscitato dagli stati metamorfici e dall’ambivalenza sessuale è un motivo che attraversa tutta l’opera rivelandosi progressivamente mediante indizi, tracce, allusioni, rinvii espliciti e anticipazioni disseminati in vari momenti del racconto e spesso cristallizzati in figure ritornanti[11]. Anche in questo caso riduco all’osso l’esemplificazione, allineando soltanto pochi indispensabili prelievi. La fisicità ambigua e artificiosa di Lulu è assimilata al corpo mutante delle farfalle: “Quand’ero piccolo prendevo delle farfalle [...] e ne trapassavo il corpo vermicolare con uno spillo, così come avevo visto fare. [...] Con uguale crudeltà e piacere ti immobilizzerei in queste pagine, Lulu, guarderei come ti contorci, come stravolgi gli occhi, come sbatti le tue elitre fatte di abiezione, di paillettes e di plastilina

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...”[12]. E ancora: “È chiaro che allora non prestavo alcuna attenzione a Lulu, che sarebbe comunque diventato uno degli assi portanti della mia vita, allo stesso modo in cui il verme con le sue antenne e le sue zampettine è l’asse della farfalla”[13]. Più avanti, la giunzione dei sessi è rappresentata plasticamente nell’unione di due amanti: “La penetra ancora, da dietro, stringendole il seno, accarezzandole i fianchi e i glutei. Lei si porta una mano tra le gambe, sentendo con le dita la fusione dei sessi”[14]. Ma l’icona più potente dell’ermafroditismo è offerta dalla statua di ninfa di una fontana, che nello sguardo stravolto e alterato del protagonista assume d’un tratto le forme di una mostruosità bisessuata: “tra le cosce piene e delicate, la ninfa aveva un sesso da maschio, di satiro pronto all’accoppiamento”[15].

        Come si vede, l’orrore per l’ambivalenza sessuale si associa a quello per le osmosi e le trasmutazioni di stato (la natura metamorfica della farfalla)[16]. L’irrequietezza mutante dei corpi e della materia si esprime anche nelle immagini di disfacimento, necrosi e vita formicolante. I muri sono invariabilmente gonfi d’acqua, scrostati, fioriti di muffe e infestati da miriadi di insetti brulicanti che si annidano nel marciume delle crepe. I profili e le superfici degli oggetti si deformano e colano liquefatti come in certi quadri di Salvador Dalí, il cui nome è espressamente ricordato in apertura di romanzo[17]. Mucide e cadenti sono certe case bucarestine visitate dal protagonista nei suoi vagabondaggi, ma fatiscente e putrida è soprattutto la vecchia costruzione della colonia estiva: “Castello della decomposizione!”[18]. Negli incubi e

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nelle visioni terrifiche di Victor, le sostanze si modificano e si rimescolano in modo incessante, degenerando verso forme corrotte. La distanza tra la carne e la materia inerte si assottiglia in una climax di comparazioni: “Le pareti rugose erano scarlatte come dei budelli. Le loro porte, sempre più rade, sembravano ferite ovali, cucite grossolanamente. [...] Il lucchetto pendeva rotto e avvilito dalla porta, come uno scroto scarlatto e peloso”[19]. Di più. Quando ci si avvicina al cuore del mandala e l’angoscia cresce smisuratamente, crolla la distinzione tra biologico e materico[20]. Così, le stanze della memoria infantile e dei segreti sono chiuse da ributtanti serrature di carne: “un lucchetto molliccio, di carne, osceno, pulsante evidentemente di vita, un lucchetto con venuzze azzurrognole e porpora, con pieghe nella pelle, pendeva appena al di sopra della maniglia. Soffocato da ondate di furia e di disgusto, ho afferrato il lucchetto e l’ho strappato dagli anelli. Il sangue marrone è schizzato in tutte le direzioni, macchiando la porta fino a terra e bagnandomi le mani”[21]. A questa modalità di coscienza alterata, che riguarda gli squarci onirici e visionari, si aggiunge, in linea generale, una percezione amplificata dei colori, con prevalenza di tonalità acriliche e radiose. C’è come una sensibilità visiva sovreccitata, neobarocca, che potenzia l’intensità delle cromie:

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“l’enorme casa rosa [...] faceva ora brillare le finestre gialle come una fiamma di sodio”[22]. E a tale riguardo bisognerà notare come la varietà e il rilievo acido delle tinte siano tratti perfettamente inseribili entro le modalità percettive caratteristiche della postmodernità. Come ha scritto Remo Ceserani, “il moderno era in bianco e nero; il postmoderno è in ektachrome”[23]. D’altronde, la meravigliosa policromia del mondo trova una potente incarnazione nel ragno cosmico delle visioni di Victor. Al centro di un groviglio filamentoso di putredine e mucillagini si annida uno smisurato aracnide, terribile e splendente di colori accesi[24]. La bellezza metamorfica e vorace dell’esistente brilla nel mezzo della materia in decomposizione.

        Questa ridda di geroglifici, tracce e frammenti compone il quadro fluttuante da cui Victor cerca di estrarre il senso segreto della sua storia personale. L’eremo di Cumpătu è, come dicevo più sopra, il luogo della riflessione e dell’anamnesi. La colonia estiva di Budila si pone invece come spazio della visione disorientante e dolorosa, che smuove strati profondi, ma non schiude la rivelazione. Sull’asse Cumpătu/Budila si polarizza la topologia della narrazione, che trova puntuale (e inquietante) corrispondenza nei dati temporali. Quando si ritira a Cumpătu per lottare con la sua chimera, Victor ha trentaquattro anni e si accorge di come la sua biografia sia spartita in due segmenti uguali dall’esperienza di Budila: “Allora, diciassette anni fa... Diavolo! ora noto la coincidenza delle date: nel 1973 avevo diciassette anni, mentre ora ne ho trentaquattro”[25]. Budila, con l’agghiacciante mascherata della femmina-maschio, divide esattamente a metà la parabola esistenziale del protagonista. La comparsa del travesti si colloca, sotto ogni profilo, al centro della vita di Victor. Anche cronologicamente.

        Come ho appena ricordato, la visione di Lulu vestito da donna non basta a sciogliere il nodo, non porta al cuore del mandala. Pure essa costituisce una molla potente, un grilletto, un punto di innesco. Lo shock prodotto dall’apparizione di Lulu fa riemergere d’un tratto memorie incerte e sfrangiate, risveglia traumi lontani, fantasmi sedimentati nelle zone più remote dell’inconscio. La guarigione definitiva dell’io narrante passerà attraverso la ricomposizione di tutti questi messaggi frammentari risaliti a fatica da un passato impenetrabile, quasi da un mondo sommerso. Lo scioglimento dell’enigma, offerto in chiusura di romanzo come un improvviso bagliore di conoscenza, è in realtà il culmine di un lungo processo di rammemorazione, una lancinante presa di

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coscienza che comincia dalla scossa ricevuta a Budila. Al momento della rivelazione finale scopriremo che la verità nascosta, acquattata nei nascondigli dell’infanzia, riguarda proprio l’identità sessuale di Victor[26]. Le pagine conclusive spiegano le ossessioni del protagonista, illustrano l’eziologia dei suoi incubi.

        A lettura ultimata resta però l’impressione che l’intimo segreto della storia non stia tanto nella vicenda biografica di Victor, ossia in un ‘caso clinico’ di ermafroditismo, quanto piuttosto nell’arcano della coincidentia oppositorum, nella nostalgia dell’androgino primordiale. A dispetto delle dichiarazioni esplicite dell’io narrante, che sembra voler identificare la soluzione dell’enigma con la riemersione di un dramma infantile rimosso, la chimera tanto ricercata e inseguita nel corso del racconto potrebbe consistere nel mistero della perfezione originaria, indistinta e libera da qualsiasi attributo, simbolizzata dall’unione dei due sessi nella medesima persona. Una delle potenti allucinazioni del protagonista può forse autorizzare questa ipotesi di interpretazione. Egli si vede avanzare con sforzo verso il sole. D’improvviso dal globo di fiamma esce un raggio infuocato, che avvolge il suo corpo in un abbraccio incandescente. In una istantanea combustione ossa, fibre e tessuti sono dissolti, restituiti allo stato preformale e indeterminato del caos primigenio. In tal modo, l’io è reintegrato nella condizione indifferenziata degli inizi, espressa dalla misteriosa fusione del maschile e del femminile: “La lava divina [...] mi ha riportato a ciò che ero stato da sempre, ciò che avevo smesso di essere, ciò che sarei stato per un migliaio di eternità, per un eone di eoni: chiome d’oro fino alla vita, seni rotondi femminili sul petto muscoloso, fianchi larghi, che nascondono tra le loro curve il sesso virile[27].

        Certo, il polimorfismo e l’ambiguità sessuale sono tematiche riportabili alla sensibilità postmoderna[28], ma Cărtărescu le potenzia rifunzionalizzando il mitologema dell’androgino, la creatura perfetta delle origini nella quale si annullano le opposizioni bipolari[29]. La riflessione sui temi dell’ermafroditismo riceve profondità dalla riattivazione di un archetipo tradizionale già complicato da una forte carica di letterarietà per le sue innumerevoli rivisitazioni ottocentesche. Al solito, Cărtărescu imposta un discorso plurivoco, articolato su molteplici livelli di senso, che incrocia diverse implicazioni ideologiche, diversi registri stilistici, diverse retoriche e modalità rappresentative.

 

 

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[1] Cfr. Mircea Cărtărescu, Travesti (a cura di Bruno Mazzoni), Roma: Voland, 2000: 7.

[2] Ibidem: 42.

[3] Ibidem: 28.

[4] Ibidem: 14.

[5] Ibidem: 93.

[6] Ibidem: 97.

[7] Ibidem: 96.

[8] Ibidem: 97.

[9] Ibidem: 94.

[10] Ibidem: 95.

[11] Tra queste figure-emblema ritornanti, che prendono forma nei bagliori visionari e negli incubi di Victor, si staglia con particolare forza l’immagine misteriosa della sorellina morta-scomparsa (cfr., p. es., ibidem: 27-28, 101-102). L’importanza centrale di questo personaggio, scaturito dal ricordo di una vecchia fotografia, emergerà in modo lampante nella rivelazione finale.

[12] Ibidem: 9.

[13] Ibidem: 19.

[14] Ibidem: 29.

[15] Ibidem: 67. Segnalo di passata che in un episodio precedente (ibidem: 35-36), Cărtărescu sembra trasfondere nella statua della ninfa il terrore e il disgusto provati dal protagonista. La figura in bronzo appare come fulminata dalla nausea insostenibile di una visione schifosa e terrifica. Come Victor, anche la ninfa soccombe di fronte all’orrore di un’immagine che trae “origine dai meandri contorti del ricordo”.

[16] Va detto che Travesti intrattiene vistosi rapporti intertestuali con il libro precedente di Cărtărescu, Visul, una raccolta di tre racconti uscita in Romania nel 1989 e ora disponibile in traduzione italiana: Cărtărescu, Nostalgia (a cura di Mazzoni), Roma: Voland, 2003. Anche nelle prose di Nostalgia compaiono con ricorrenza ossessiva i temi dell’ambivalenza sessuale e dell’instabilità metamorfica, nonché il motivo dell’erotismo come ostacolo alla piena realizzazione dell’artista e al dispiegarsi della sua attività creatrice. In particolare, nel racconto intitolato I gemelli viene anticipata la scena della sconvolgente apparizione di Lulu travestito: “Lulu, una specie di pagliaccio volgare che, a un ballo in maschera, durante una vacanza estiva dove eravamo stati insieme, si era truccato e si era vestito da donna, e la vista di quel travestimento mi aveva fatto così male che dovetti tenermi a una parete” (Cărtărescu, Nostalgia, cit.: 98).

[17] Idem, Travesti, cit.: 7.

[18] Ibidem: 83.

[19] Ibidem: 53.

[20] Questo rimescolamento del corporeo e del materico si ripresenta nell’equazione corpo = libro, ripetuta ogni volta che Victor parla delle sue smisurate, titaniche ambizioni creatrici. Ricalcando un percorso ben riconoscibile di brucianti frustrazioni e di deliranti sogni compensativi, il protagonista immagina di poter comporre un giorno il romanzo universale e onniaccogliente in cui si troveranno raccolti tutti i significati del mondo: “Pur di scrivere il Libro, mi sarei lasciato scorticare la pelle da dosso, e con la mia pelle viva, con capillari, terminazioni nervose e glomeruli sudoripari, avrei rilegato l’onnicomprensivo volume” (ibidem: 18); “libro prodotto non soltanto dalla mia mente, ma secreto dalle ghiandole del mio corpo, espettorato dai miei polmoni, estratto dai miei testicoli, eviscerato dal mio addome, sprizzato dalla mia carotide” (ibidem: 58-59); “Sono tutt’uno col testo che mi si è avvinto al corpo e mi avvelena” (ibidem: 77); “Potranno ritrovarmi così come mi sono augurato da sempre: putrefatto da tanto, leggero come l’aria, con il capo abbandonato sul mio manoscritto, poggiato sopra, tutt’uno con esso... Lui carne della mia carne, io testo del suo testo...” (ibidem: 118). Il tema del Libro assoluto, di una Scrittura prima che produce e contiene l’intero universo, è ricorrente nelle prose di Cărtărescu. La totalità dell’esistente trova origine e giustificazione in un’opera-mondo che si dilata in ogni direzione, inglobando sia la proliferante eterogeneità dei realia sia le infinite dimensioni dell’immaginazione e del sogno. Sul motivo del Testo Universale nella narrativa di Cartarescu, cfr. Maria Bulei, “Con Baricco e Cărtărescu alla ricerca del Libro”, Quaderni della Casa Romena di Venezia, 2 (2003): 329-336 [= http://www.oocities.org/serban_marin/mariabulei2.html].

[21] Cărtărescu, Travesti: 103. L’immagine dei lucchetti di carne che sprizzano sangue quando vengono forzati si trova già ne Il mendebile, racconto di apertura di Nostalgia: “un lucchetto enorme, molle come fosse di carne, pendeva dalla porta. [...] Al centro delle mille sale dalle pareti trasparenti stavamo io, steso in terra, e la bimbetta nel vano della porta spalancata, e alle sue spalle, dall’atrio del castello fino alla stanza centrale, centinaia di porte aperte con i lucchetti insanguinati” (Idem, Nostalgia, cit.: 11).

[22] Idem, Travesti, cit.: 23.

[23] Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino: Bollati Borignhieri, 1997: 158.

[24] Cfr. Cărtărescu, Travesti, cit.: 50: “Aveva il torace di un colore porpora-viola pallido, i cheliceri del più scintillante turchese, l’addome del colore delizioso del ciclamino, con peletti di quel verde che a malapena si stempera nel giallo dei limoni, con punti di rosa e pressoché invisibili anelli fresia. Il colore nocciola, l’oltremare, il giallo canarino, l’ocra e il mogano, il verde-azzurro che trascolorava gradatamente, con passaggi d’acque infiniti, nell’azzurro verdastro, il giada, il blu-pavone [...] luccicavano e scintillavano e si confondevano e si separavano, scomparivano e riapparivano sulla pelle umida dell’enorme ragno”.

[25] Ibidem: 10.

[26] Ibidem: 119-121.

[27] Ibidem: 107.

[28] Muovendo dalle acquisizioni di Ihab Hassan, David Harvey ha stilato un temario contrastivo che compendia in forma schematica le caratteristiche antitetiche di moderno e postmoderno. In questa tabella di tratti distintivi, il “genitale/fallico” del moderno si contrappone al “polimorfo/androgino” del postmoderno. Cfr. David Harvey, La crisi della modernità, Milano: Il Saggiatore, 1993: 62.

[29] Sul tema antropologico dell’androgino e sulle sue riprese letterarie, cfr. Mircea Eliade, Il mito della reintegrazione (introduzione e traduzione a cura di Roberto Scagno), Milano: Jaca Book, 1989: 57-89.