Bisogna conoscere un poco Napoli per capire
a fondo questo straordinario romanzo di Michele Serio.
Bisogna essersi aggirati per viuzze dal marciapiede
strettissimo e spesso inesistente, rimanendo sorpresi,
in qualche gomito tra edifici anonimi e scrostati, da una cappella,
da un palazzo, da una chiesa dall'architettura pesantemente
barocca. E poi bisogna essere scesi nelle cosiddette "catacombe",
che nulla hanno in comune con quelle cristiane: si tratta
in realtà di condotti umidi e asfittici, di grotte
e di corridoi, con le pareti bucherellate da tacche su
cui si inerpicavano, con l'agilità di scimmie, gli
addetti alla manutenzione delle fognature. Talora le gallerie
sfociavano in qualche convento, cui queste creature del buio,
che immagino smilze e nere di sporcizia, accedevano per
avere fugaci contatti sessuali con giovani suore. Probabilmente
i feti finivano nelle catacombe stesse.
Ancora, bisogna avere visto la cappella del
mitico principe di San Severo (bellissima a suo modo,
orribile per chi detesti la sovrabbondanza degli arredi),
che conserva nel sottosuolo impressionanti statue di uomini
composti dal solo sistema venoso, senza traccia di carne
e di ossa. O gli altarini, le edicole, i lumini sparsi
nei vecchi quartieri della città. Segni in apparenza di un cattolicesimo
fervente, se non fosse per l'impressione che sotto la sua
scorza si acquatti tutt'altro culto. Quello del sangue,
forse, che ha in San Gennaro la sua espressione più
palese e clamorosa, ma che rappresenta anche la più
sconvolgente rottura con la spiritualità del
cristianesimo. Non casuale, forse, in una città il cui cardinale
è stato indiziato (anche se poi assolto) di pratica
dell'usura.
Il barocco che prevale nell'architettura napoletana
può essere bello, ma non è né
leggiadro né allegro. Anzi, è piuttosto macabro,
molto più di quello delle tetre basiliche spagnole di
cui imita le forme. Tutta Napoli, a ben vedere, è
molto meno gaia di quanto appare e di quanto pretende essa
stessa. L'umorismo popolare, così insistentemente
celebrato, racchiude venature di ironia cinica, di sarcasmo,
persino di cattiveria. Nelle strade polvere, miseria,
ingegnosità, malinconia, intelligenza si accavallano a strati,
fino a costituire la volta di cupi anfratti dell'anima,
tortuosi e poco accessibili quanto i cunicoli sepolti
nel suolo. Sulle cancellate appaiono, d'improvviso, teschi
stilizzati e ossa incrociate. Il sentore di mille salse
piccanti si mescola a un altrettanto acuto sentore di
morte e di disfacimento.
Questa faccia poco turistica di Napoli ha avuto
i suoi cantori. Il primo, e uno dei più duri,
fu uno scrittore di romanzi d'appendice quasi dimenticato,
Francesco Mastriani. Ma altri autori più nobili
si sono avventurati a guardare nel profondo del labirinto partenopeo.
Uno su tutti, grandissimo: Raffaele Viviani. Un drammaturgo
potente, capace di creare un teatro tutto suo, inimitabile
in quanto direttamente modellato sull'anima nera della
sua città. Ma si potrebbero citare numerosi altri
scrittori, fino a Edoardo De Filippo e oltre. In molti
di costoro, però, il colore finiva col prevalere, la macchietta
affiorava anche nelle pagine più drammatiche, la morale
finiva col ridursi all'elogio del buon cuore. Peggio ancora
se l'autore scriveva di Napoli ma non era di Napoli, da
Dumas in avanti. L'ipotesi migliore era ed è il
surrealismo; la peggiore la farsa, amara quanto si vuole.
Per descrivere la Napoli nera e nascosta servono
invece i toni della tragedia; serve non il moralismo,
ma una scelta di campo dal lato dell'amoralità
(che non è immoralità). Più, se del caso,
un'arma espressiva ulteriore, che fu poi tra quelle usate da
Viviani: l'iperrealismo. Di tutto questo, e d'altro
ancora, si è servito Michele Serio per farci scendere
nella sua pizzeria infernale.
Si noti come Serio riesca a far vivere personaggi
veri e spessi senza, se così posso esprimermi,
"mischiarsi" realmente a essi. Tutto il testo è
costellato di osservazioni, sempre intelligenti e spesso
eleganti, che non appartengono per davvero all'universo
dei protagonisti, i quali si esprimono in tutt'altra maniera.
Serio getta sulle sue creature uno sguardo quasi da entomologo;
le spia e le analizza in segreto. In fondo, si tratta
di quel distacco quasi filosofico che, da sempre, ha consentito
ai napoletani di sopravvivere a miserie, sciagure e anche
a impulsi autodistruttivi propri.
Nel suo gioco vagamente beffardo, Serio si
diverte poi a turbare un quadro umano dotato di una
sua stabilità facendovi irrompere un po' di
tutto: demoni, creature assurde, scheletri animati,
entità perverse interiori o esteriori. E' come se, accoccolato
in un angolo, volesse vedere come reagisce la società
da lui descritta all'emergere di una congerie di mostri.
Ma non si tratta in realtà di zombies,
anche se ne possono avere le apparenze, e il romanzo
non è affatto un horror. Quei mostri sono altrettante
materializzazioni dell'anima nera della città,
e se ne uccidono gli abitanti, o si accoppiano con loro
negli amplessi più estremi, lo fanno come ombre
che, divenute indipendenti, avviluppassero il loro portatore
fino a soffocarlo o, perché no, a fecondarlo.
Vengono dal sottosuolo, ma non per uscirne,
bensì per dimostrare che sottosuolo e superficie
combaciano. E forse, in questa dimostrazione, o in questo
reciproco riconoscimento, sta l'unica speranza possibile.
Per Napoli e per noi. Poco importa se alla fine i mostri esplodono,
causando un cataclisma. E' come l'incontro tra materia
e antimateria, che assieme formano un tutto. Quanto al
cataclisma, se c'è disperazione, esso può
rappresentare l'unica terapia possibile.
Non so bene come la critica italiana abbia
accolto Pizzeria Inferno. Suppongo
che una parte di essa abbia puramente e semplicemente
ignorato il romanzo; che un'altra parte lo abbia coperto
di elogi per poi accantonarlo; che pochi, pochissimi,
abbiano sollevato qualche obiezione marginale, magari stilistica
o lato sensu estetica. Ripeto, non lo so. So però
che l'Italia è il paese in cui metro di valutazione
positiva sono le mezze misure, le tinte a pastello, la
frase ben fatta anche se priva di contenuti. Se l'opera
non si inquadra nell'aurea mediocritas dominante,
più che esprimere dissenso o disprezzo, la si accantona
e si cerca di dimenticarla.
Il fatto è che Pizzeria Inferno
non si lascia né accantonare né dimenticare.
Viola tutti i canoni estetici, scandalizza, sconcerta,
prende alle viscere, scuote. Suscita ogni gamma di sentimento
tranne l'indifferenza. Produce, insomma, tutti gli effetti che
causa Napoli se guardata da vicino. Di Napoli fa parte come
ne fanno parte le catacombe e le statue sanguigne del
principe di San Severo.
Un romanzo così, impastato di intelligenza
e di cattiveria smisurate, durerà quanto l'anima
nera che riflette. Starei per dire che durerà
per sempre.
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