Un grande omaggio alla città di Napoli da un Grande della Narrativa italiana Valerio Evangelisti
trattasi di un mirror di un articolo presente sul sito ufficiale di Valerio Evangelisti http://www.eymerich.com/ viene riproposto in questa sede quale elemento di diffusione di cultura e quale omaggio personale a Valerio Evangelisti

NAPOLI DENTRO

(Introduzione all'edizione francese di M. Serio, Pizzeria Inferno, Metailié, 2002)


Bisogna conoscere un poco Napoli per capire a fondo questo straordinario romanzo di Michele Serio. Bisogna essersi aggirati per viuzze dal marciapiede strettissimo e spesso inesistente, rimanendo sorpresi, in qualche gomito tra edifici anonimi e scrostati, da una cappella, da un palazzo, da una chiesa dall'architettura pesantemente barocca. E poi bisogna essere scesi nelle cosiddette "catacombe", che nulla hanno in comune con quelle cristiane: si tratta in realtà di condotti umidi e asfittici, di grotte e di corridoi, con le pareti bucherellate da tacche su cui si inerpicavano, con l'agilità di scimmie, gli addetti alla manutenzione delle fognature. Talora le gallerie sfociavano in qualche convento, cui queste creature del buio, che immagino smilze e nere di sporcizia, accedevano per avere fugaci contatti sessuali con giovani suore. Probabilmente i feti finivano nelle catacombe stesse.
Ancora, bisogna avere visto la cappella del mitico principe di San Severo (bellissima a suo modo, orribile per chi detesti la sovrabbondanza degli arredi), che conserva nel sottosuolo impressionanti statue di uomini composti dal solo sistema venoso, senza traccia di carne e di ossa. O gli altarini, le edicole, i lumini sparsi nei vecchi quartieri della città. Segni in apparenza di un cattolicesimo fervente, se non fosse per l'impressione che sotto la sua scorza si acquatti tutt'altro culto. Quello del sangue, forse, che ha in San Gennaro la sua espressione più palese e clamorosa, ma che rappresenta anche la più sconvolgente rottura con la spiritualità del cristianesimo. Non casuale, forse, in una città il cui cardinale è stato indiziato (anche se poi assolto) di pratica dell'usura.
Il barocco che prevale nell'architettura napoletana può essere bello, ma non è né leggiadro né allegro. Anzi, è piuttosto macabro, molto più di quello delle tetre basiliche spagnole di cui imita le forme. Tutta Napoli, a ben vedere, è molto meno gaia di quanto appare e di quanto pretende essa stessa. L'umorismo popolare, così insistentemente celebrato, racchiude venature di ironia cinica, di sarcasmo, persino di cattiveria. Nelle strade polvere, miseria, ingegnosità, malinconia, intelligenza si accavallano a strati, fino a costituire la volta di cupi anfratti dell'anima, tortuosi e poco accessibili quanto i cunicoli sepolti nel suolo. Sulle cancellate appaiono, d'improvviso, teschi stilizzati e ossa incrociate. Il sentore di mille salse piccanti si mescola a un altrettanto acuto sentore di morte e di disfacimento.
Questa faccia poco turistica di Napoli ha avuto i suoi cantori. Il primo, e uno dei più duri, fu uno scrittore di romanzi d'appendice quasi dimenticato, Francesco Mastriani. Ma altri autori più nobili si sono avventurati a guardare nel profondo del labirinto partenopeo. Uno su tutti, grandissimo: Raffaele Viviani. Un drammaturgo potente, capace di creare un teatro tutto suo, inimitabile in quanto direttamente modellato sull'anima nera della sua città. Ma si potrebbero citare numerosi altri scrittori, fino a Edoardo De Filippo e oltre. In molti di costoro, però, il colore finiva col prevalere, la macchietta affiorava anche nelle pagine più drammatiche, la morale finiva col ridursi all'elogio del buon cuore. Peggio ancora se l'autore scriveva di Napoli ma non era di Napoli, da Dumas in avanti. L'ipotesi migliore era ed è il surrealismo; la peggiore la farsa, amara quanto si vuole.
Per descrivere la Napoli nera e nascosta servono invece i toni della tragedia; serve non il moralismo, ma una scelta di campo dal lato dell'amoralità (che non è immoralità). Più, se del caso, un'arma espressiva ulteriore, che fu poi tra quelle usate da Viviani: l'iperrealismo. Di tutto questo, e d'altro ancora, si è servito Michele Serio per farci scendere nella sua pizzeria infernale.
Si noti come Serio riesca a far vivere personaggi veri e spessi senza, se così posso esprimermi, "mischiarsi" realmente a essi. Tutto il testo è costellato di osservazioni, sempre intelligenti e spesso eleganti, che non appartengono per davvero all'universo dei protagonisti, i quali si esprimono in tutt'altra maniera. Serio getta sulle sue creature uno sguardo quasi da entomologo; le spia e le analizza in segreto. In fondo, si tratta di quel distacco quasi filosofico che, da sempre, ha consentito ai napoletani di sopravvivere a miserie, sciagure e anche a impulsi autodistruttivi propri.
Nel suo gioco vagamente beffardo, Serio si diverte poi a turbare un quadro umano dotato di una sua stabilità facendovi irrompere un po' di tutto: demoni, creature assurde, scheletri animati, entità perverse interiori o esteriori. E' come se, accoccolato in un angolo, volesse vedere come reagisce la società da lui descritta all'emergere di una congerie di mostri. Ma non si tratta in realtà di zombies, anche se ne possono avere le apparenze, e il romanzo non è affatto un horror. Quei mostri sono altrettante materializzazioni dell'anima nera della città, e se ne uccidono gli abitanti, o si accoppiano con loro negli amplessi più estremi, lo fanno come ombre che, divenute indipendenti, avviluppassero il loro portatore fino a soffocarlo o, perché no, a fecondarlo.
Vengono dal sottosuolo, ma non per uscirne, bensì per dimostrare che sottosuolo e superficie combaciano. E forse, in questa dimostrazione, o in questo reciproco riconoscimento, sta l'unica speranza possibile. Per Napoli e per noi. Poco importa se alla fine i mostri esplodono, causando un cataclisma. E' come l'incontro tra materia e antimateria, che assieme formano un tutto. Quanto al cataclisma, se c'è disperazione, esso può rappresentare l'unica terapia possibile.

Non so bene come la critica italiana abbia accolto Pizzeria Inferno. Suppongo che una parte di essa abbia puramente e semplicemente ignorato il romanzo; che un'altra parte lo abbia coperto di elogi per poi accantonarlo; che pochi, pochissimi, abbiano sollevato qualche obiezione marginale, magari stilistica o lato sensu estetica. Ripeto, non lo so. So però che l'Italia è il paese in cui metro di valutazione positiva sono le mezze misure, le tinte a pastello, la frase ben fatta anche se priva di contenuti. Se l'opera non si inquadra nell'aurea mediocritas dominante, più che esprimere dissenso o disprezzo, la si accantona e si cerca di dimenticarla.
Il fatto è che Pizzeria Inferno non si lascia né accantonare né dimenticare. Viola tutti i canoni estetici, scandalizza, sconcerta, prende alle viscere, scuote. Suscita ogni gamma di sentimento tranne l'indifferenza. Produce, insomma, tutti gli effetti che causa Napoli se guardata da vicino. Di Napoli fa parte come ne fanno parte le catacombe e le statue sanguigne del principe di San Severo.
Un romanzo così, impastato di intelligenza e di cattiveria smisurate, durerà quanto l'anima nera che riflette. Starei per dire che durerà per sempre.