Al
tempo in cui io passavo tutti i dì con il mio Maestro, non era difficile
che il giorno volasse mentre eravamo insieme: mi lasciavo rapire dalla
magia della sua voce, ascoltavo in silenzio cercando di assorbire quanto
piu' possibile la sua sapienza, e mi immergevo nella sua mente sottile,
ascoltando non solo con le orecchie le sue argomentazioni, sempre
complesse e sempre interessanti. Mi
precedeva, camminando lungo gli strapiombi della montagna e della vita, più
esperto di me nel cammino che dovevamo compiere, e mi allungava una mano
quando mi vedeva incerta, anche se più spesso gli piaceva cedermi il
bastone, di modo che potessi contare sulle mie forze più che sulle sue, e
sulle mie capacità di venirne fuori. M'indicava
i fiori che incontravamo, mi parlava delle proprietà medicamentose delle
erbe, dei portentosi segreti celati nei minerali, m'insegnava le virtù
pietose e terribili di certe sostanze, con cui si poteva mettere fine ad
una vita in cui il dolore non era più tollerabile, e poi ci fermavamo,
magari a metà giornata, per consumare un pasto leggero: aspettavo sempre
che fosse lui a rallentare il passo, a dare segni di stanchezza, per poi
fingere d'essere stanca a mia volta: “Maestro”
chiedevo gentilmente “Potremmo fermarci un poco?” Nella
nostra vita spartana non c'era spazio per lussi inutili: ci sedevamo sulle
pietre, o sull'erba quando non era bagnata, il Maestro con il viso al sole
ed io di fronte a lui, e consumavamo quanto portavamo nelle bisacce. Mentre
mangiavamo non parlavamo mai: avevamo troppo rispetto per il cibo che
consumavamo, ed eravamo entrambi attenti a non sprecarlo, consapevoli fino
alle ossa di quanta fame ci attorniasse. E
se talvolta, come nella mia ingenuità di giovinezza m'accadeva, cedevo il
mio pasto a chi per via mi rivolgeva un gesto mendico ed uno sguardo
famelico, il mio Maestro mi rimproverava: avrebbe fatto lo stesso, per me,
quel mendicante? Quando avrei
imparato che nutrire il mio corpo era il mio primo dovere, perché potesse
poi servirmi quando ne avrei avuto bisogno? Il
mio donare scapestrato, senza giudizio, era l'unica cosa che lo
esasperasse davvero, forse perché leggeva meglio d'altri nel mio animo,
ed intuiva che la mia generosità, lungi dall'essere lodevole, era invece
il segnale dell'assenza di valore che io attribuivo alla mia persona. Mi
voleva bene, il mio Maestro, anche se non lo disse mai. Ma
ne avevo forse bisogno? Quando,
con lo stomaco dolente per la fame, guardavo ovunque pur di non guardarlo
mentre mangiava, e d'improvviso egli s'allungava verso di me, e con voce
brusca m'intimava di mangiare la porzione che avea lasciato indietro, non
parlava la sua offerta meglio di quanto avrebbero fatto mille parole? E
se provavo a protestare, perché questo era quello che sentivo nel cuore,
che non era giusto che si privasse per me, allora s'irritava davvero, e
diceva che avrei dovuto portare nel cuore anche il peso della colpa di
averlo costretto a rinunciare a parte del suo già scarso pasto, e che
forse la prossima volta ne avrei tenuto conto. Ma
di rado c'erano queste asprezze tra noi: di solito parlavamo quietamente,
e persino quando confutavo in qualche modo i suoi ragionamenti, o le sue
parole, come quando avevo scelto di chiamarmi Silente ed egli m'aveva
detto ch'era un nome troppo pieno di buio, mi rispondeva pacato ma fermo,
come appunto m'aveva risposto quella volta, con una domanda che conteneva
già la risposta: “Ti ho detto di non usarlo?” M'aveva
raccolta il mio Maestro, quando, troppo giovane per tollerarlo, il dolore
della vita mi stava facendo deviare verso percezioni distorte, gettando il
seme del caos nella mia mente fragile, ma a nulla erano servite le sue
molte premure, i suoi consigli ed il suo sprone: ormai correvo verso un
precipizio e nulla poteva più fermarmi. Ma quando molti anni dopo da quel
precipizio ero riemersa, e tornata a cercarlo l'avevo trovato ad
aspettarmi, l'avevo ritrovato tal quale l'avevo lasciato, con il bene
profondo di sempre che mi manifestava parcamente, eppure visibile in ogni
sua parola e azione. Non
sempre c'era il sole: c'eravamo trovati anche in giornate di nebbia, a
peregrinare nelle valli come anime dannate, in cui i suoni erano attutiti
ed il freddo pungente penetrava sotto gli abiti: e se qualche volta,
consentendo alle mie richieste, egli permetteva ad entrambi di riposare in
qualche grotta, ne approfittava comunque per darmi lezioni pratiche: mi
mostrava come s'accende un fuoco, come ci si ripara dalla possibilità di
essere visti dall'esterno, accumulando massi ed erbe davanti all'entrata,
e solo qualche volta quando, pago delle molte parole spese, s'era
stancato, mi chiedeva il dono del silenzio per riposare un poco. Aveva
una vita dura, il mio Maestro, una vita che s'era scelto, e della quale
era ragionevolmente lieto, ma che tuttavia sottoponeva il suo corpo a dosi
stancanti d'esercizio fisico e mentale, per cui, quando gli accadeva di
potersi fermare un momento, raramente poteva resistere al bisogno di
dormire. Io
lo sapevo, e di solito restavo in silenzio accanto a lui mentre riposava,
ma una volta che quasi mi costò la vita commisi l'imprudenza di
allontanarmi. Più per noia che per curiosità, mi addentrai nella caverna
in cui sostavamo. Le pareti recavano testimonianza del passaggio di uomini
antichi e dimenticati, polvere ormai, uomini che avevano lasciato impresse
le orme delle loro mani sulle pareti, e rozzi disegni d'animali selvaggi.
Entusiasmanti, quei disegni, pensavo sempre: l'arte umana al suo apparire,
i primi vagiti di una creatura che avrebbe reso la vita più lieve al
mondo, penetrando in molti campi dell'esistenza umana. E mentre camminavo
seguendo i disegni, sparsi a casaccio, senza un'apparente logica, non davo
peso al mio addentrarmi in caverne e cunicoli: ero anzi meravigliata di
come, persino in spazi angusti, fosse fiorita in qualche creatura ormai
dissolta la voglia di lasciare una traccia della sua esistenza. Mi
resi conto di aver perso la percezione del tempo, trasportata dai miei
pensieri, nel momento in cui feci per tornare indietro e non riconobbi la
strada. M'ero mantenuta salda la convinzione che se, seguendo i disegni mi
fossi addentrata, seguendoli all'inverso accanto al mio Maestro sarei
tornata. Ma dovetti accorgermi che non era tanto semplice: il tizzone
ardente che m'aveva illuminato il cammino pareva volesse spegnersi da un
momento all'altro, e mi lasciai prendere dal panico. Invece di alitare con
delicatezza sulla fiamma, diedi due forti soffiate, che nelle mie
intenzioni avrebbero ravvivato l'ormai esile fiamma, e che invece la
spensero. Restai
come un animale improvvisamentre abbagliato da un fuoco: immobile e
terrorizzata, solo che io ero sprofondata nella tenebra e da essa
accecata. “Maestro!”
Gridai forte, e l'eco mi rispose beffardo, ripetendo il mio richiamo -
sempre più fiocamente - man mano che rimbalzava contro le pareti. Ci
mise un giorno intero, a trovarmi, o così stimammo poi, perché la
percezione del tempo ci aveva abbandonati entrambi, ormai, e di gran
lunga. Quando mi trovò io avevo perso la voce, da tante volte che avevo
gridato, ed ero rannicchiata su me stessa, per difendermi dal gelo
mordace. Assetata, con gli occhi spalancati nel buio, vidi venire un fioco
bagliore nella mia direzione. Tanto ero stravolta che non mi mossi, non
indicai la mia posizione, benché avessi sentito fin da subito che per
forza quello doveva essere il mio Maestro. Ma
Egli mi vide, e s'avvicinò con passi veloci. S'abbassò
vicino a me, mi prese il viso fra le mani per guardarmi gli occhi,
supposi, e mi stupii quando sentii che qualcosa mi bagnava le guance,
perché non stavo piangendo, oppure era possibile piangere senza
accorgersene? “Maestro”
mormorai senza voce, ma egli mi azzittì. Mi chiese soltanto se avessi
dolore da qualche parte, ed io spiegai che no, avevo solo tanto freddo. Mi
avvolse nella sua mantella e mi sollevò; con l'altra mano prese la
lanterna e seguì un percorso che s'era chiaramente approntato: pezzetti
di ramoscelli, sassi, carbone di legna, segnavano la via che aveva
percorso e che insieme percorremmo a ritroso, fino alla caverna da cui
tanto avventatamente m'ero allontanata. Mi
depose come se fossi un oggetto sacro sul pagliericcio su cui aveva
riposato, mi coprì e poi si sedette a guardarmi finché mi addormentai.
Quando mi svegliai era intento a ravvivare il fuoco. “Ho sete”
mormorai soltanto. Allora prese la brocca di latta e mi versò in bocca un
infuso amaro. “Issopo?” domandai, ma egli fece cenno di no ed io non
investigai oltre. Mi
avrebbe spiegato poi che, benchè ci fossimo inerpicati in quel monte
desolato proprio per raccogliere la preziosa pianticella, che avremmo poi
fatto essiccare e rivenduto nelle farmacie dei conventi, essa non sarebbe
stata adatta a me: non era d'un digestivo che abbisognavo, ma d'un tonico,
e per questo, mentre io dormivo, era uscito alla ricerca di radici di
Gentiana, con cui poi m'aveva preparato il decotto dal sapore amarissimo. Ma
ancora più stupefacente era stato, al mio risveglio, scoprire che aveva
sistemato rami di sambuco un po' ovunque, e che nell'aria
viziata dal fumo del fuoco di legna s'era mescolato uno strano
aroma, pungente ma gradevole. Mi
aveva vista guardarmi intorno, era evidente, e perciò mi dette una
spiegazione, a suo modo lapidaria eppure chiarissima: “Ci fermeremo un
po'.” Durante
il primo pasto del giorno domandai il perché della presenza del Sambuco,
ed egli mi spiegò che il Sambuco aveva la proprietà di allontanare i
demoni, nei quali non credevamo, precisò subito con un sorriso arguto, ma
dai quali era comunque bene proteggersi… E
l'odore nell'aria? Bacche essiccate, e vecchio legno trito di ginepro:
perché potessi respirare un'aria più sana senza tuttavia ammalarmi per
l'aria gelida dell'esterno. Restammo
tre giorni, cosa che non era bene, perché avemmo modo di dare fondo alle
nostre scarse provviste, e tuttavia ci godemmo quei giorni quasi fossero
una vacanza dalla nostra solita vita. Il
mio Maestro mi raccontò persino episodi della sua lontana giovinezza, nei
quali ammise, con voce strana, d'avere difficoltà a riconoscersi, ed io
raccontai della mia infanzia: di quel che ricordavo, perlomeno. Parlammo a
lungo, in quei giorni: nascosti in quella caverna umida, che il fuoco
bastava appena a illuminare, ma non a riscaldare, ed il cui fumo a volte
era così fastidioso da farci lacrimare e tossire, parlammo delle cose del
mondo e delle sue ineluttabili leggi, e nelle notti fredde parlammo di Dio
come noi lo concepivamo, perlomeno finché il sonno, unico giudice della
qualità dei nostri discorsi, non coglieva uno dei due… Potevamo
ignorare il mondo, chiusi in quella caverna, ma la fame no, non potevamo,
e perciò venne il giorno in cui dovemmo abbandonarla. Quel
giorno il mio Maestro fece una cosa insolita: raccolse un poco d'acqua in
una mano, con l'altra prese della terra e formò una poltiglia liquida
colore fango. Si avvicinò al luogo da cui avevo appena rimosso il
pagliericcio, e vi depositò una larga pietra su cui, con un dito intinto
nel fango, disegnò il simbolo alchemico dell'argentum. Non
disse una parola, né durante né dopo, ed io non mi permisi domande. Se
avesse voluto spiegarmi qualcosa, prima o poi lo avrebbe fatto. Tornammo
così alla nostra solita vita randagia, come fossimo in fuga da qualcosa,
sempre in movimento da una landa ad un'altra, in cerca delle erbe e dei
minerali da rivendere, talvolta già ordinati, talvolta in cerca nella
semplice speranza di trovare qualcosa, qualunque cosa, lasciandoci alle
spalle la caverna ed i suoi segreti, ma il pensiero di quei suoi strani
gesti mi rodeva come un tarlo rode il legno. L'argento, meditavo mentre
camminavo. Perché l'argento? Gli uomini del passato indicavano
nell'argento la Luna, ma anche il cambiamento. La Luna, l'estro, la
germinazione delle sementi, pensavo mescolando confusamente i pochi
concetti che mi erano noti, mentre m'inerpicavo dietro a lui, per poi
concludere, sconsolata, di non capirci niente. Una
sera mi decisi: era stata una giornata proficua, una giornata di bottino
grosso, come lo chiamavamo, perché avevamo raccolto erbe preziose e rare,
sia pure con il massimo del rispetto: lasciandone intatte le radici,
limitandoci a raccogliere steli e foglie dalle piante più ricche, senza
depredare la colonia vegetale, ed avevamo predisposto le giare dentro cui
le mettemmo a macerare. Il
mio Maestro era di buon umore, lo vedevo, perché ben due volte mi sorrise
con entusiasmo, mentre mi spiegava l'arte della macerazione delle erbe. Io
ascoltai e assimilai, come sempre, ponendo poche domande e tutte
pertinenti, ma alla fine del giorno, quando ormai il lavoro era stato
compiuto, e lo stomaco se non del tutto appagato comunque sedato dalla sua
fame smodata, ed ambedue ci preparavamo al sonno nel nostro riparo di
fortuna, trovai il coraggio di rompere il silenzio e gli mormorai che
volevo chiedergli qualcosa. “Chiedi
pure. Ti ho forse mai negato le risposte?” “L'argento,
Maestro. Perché l'argento, perché la pietra. Io non capisco.” Emise
un sospiro. “Stai
crescendo, Silente. Non lo sai, non te ne accorgi, ma stai crescendo e
dunque cambiando. Stai abbandonando il tuo doloroso vissuto per entrare in
una nuova vita: e qui sta il cambiamento. Ma l'argento simboleggia anche
la Luna: e tu stai per diventare donna.” “Lo
sono già” dissi stupita. Possibile che non lo sapesse? “No.
Lo sei nel corpo soltanto, una donna. Nella mente sei fragile come una
bambina, che va tenuta per mano, incoraggiata e persuasa. E' per questo
che sono qui, per aiutarti a crescere.” Tacque,
come se la spiegazione fosse finita, ed io aspettai un po' prima di
tornare a rivolgergli la parte di domanda rimasta senza risposta. “E
perché la pietra. Perché la pietra, Maestro? Non sarebbero andate bene
le pareti della grotta?” “La
pietra sei tu, e non sai di esserlo.” “Non
ho un cuore di pietra, Maestro.” ribattei. Ero un pizzico indignata. “Nessuno
lo sostiene. E' la tua Anima, che è di pietra, non il tuo cuore. Hai
sostenuto prove cui pochi avrebbero retto, una tale messe di dolore che è
quasi incomprensibile tu sia ancora viva, e libera dal cinismo e dal
Male.” “E'
stato, Maestro. E' stato. Io cerco di non pensarci e di essere coraggiosa.
Non ho neppure voglia di attribuire colpe: è stato. A me basta l'essere
stata capace di allontanarmi. Non chiedo altro che di vivere, da ora in
poi, una vita sana e lieta.” “E'
in questo che sei di pietra. Ma anche questo deve cambiare, o a nulla
saranno valsi i tuoi molti sforzi. Ti sei allontanata ed è stato un bene,
ma ti sei allontanata troppo.” Sentii
che si agitava, nel pagliericcio. Lo stavo facendo spazientire? “Non
ti lasci toccare. Non permetti a nessuno di avvicinarsi. Sei dura come la
roccia… Anche se apparentemente friabile come lo scisto.” Sentii
crescermi dentro un senso di rivolta. Non
mi piaceva quanto stava dicendo. No, non era vero. Ero paziente e
disponibile e cortese con tutti, io. Non era giusto che mi descrivesse in
maniera tanto distorta. “Maestro,
non voglio più sentire.” Lo dissi con più enfasi di quanto avrei
voluto, e sentii la sorpresa nella sua voce quando si limitò a dirmi che,
per ora, andava bene anche così, e che era meglio ci mettessimo a
dormire. Ma
il sonno, che ben presto lo colse, ed io me ne accorsi dal suo respiro
farsi profondo, scelse di ignorarmi, lasciandomi in balia dei miei
pensieri, e molte volte, quella notte, cercai di pensare ad altro, di
svagarmi, ma le sue parole rimbombavano nella mia mente come massi
rotolanti e verso l'alba, ancora desta, decisi di alzarmi. Presi la
coperta e mi avviai verso l'imbocco della grotta. Il
giorno iniziava a malapena a colorarsi, e l'aria era gelida come acqua
ghiacciata, ma io mi sedetti su un masso, mi avvolsi nella coperta e
stetti a rimirare come il mondo si destava dal sonno della notte. Meraviglia,
pensavo nella mia mente stanca per la mancanza di riposo, è questa la mia
unica forma di meraviglia possibile: questa solitudine montana,
quest'asprezza durissima e dolcissima, la possibilità di contemplare, da
sola e nel silenzio, la bellezza del mondo. Non
m'importa, dissi in silenzio al mio Maestro addormentato, non m'importa più
di nulla. Stiano lontane da me le labbra ardenti degli innamorati, le
bugie a fin di bene e le false amicizie: mi basta questo, per vivere. Mi
basta poter stare in questa pace solenne, e non chiedo di più al mondo
che di poterlo contemplare e descriverne la bellezza in stupide novelle. Mi
accorsi stupita di avere gli occhi pieni di lacrime, e mi ripetei
l'oltraggio che avevo letto in un libro e nel quale mi ero riconosciuta:
monade chiusa in una cella dell'esistere. Oh
sì, era vero. E alla fin fine anche Anima di roccia: altroché, aveva
ragione il mio Maestro, tanto per cambiare. E quanta gente ci s'era
schiantata contro… “Stai
piangendo” disse alle mie spalle la voce del Maestro, così mi girai e
lo vidi: aveva sulle spalle una coperta, e l'aria di chi si è appena
alzato dal letto. “Piango
per la bellezza del mondo” mentii. “La
bellezza del mondo” ripeté sottovoce, come se volesse meditarci su. E
quando guardò fuori, in piedi nell'imboccatura della nostra grotta
sopraelevata, io ebbi all'improvviso la sensazione di percepire quanto
fosse antico, e di quanta accumulata sapienza fosse latore. “Il
mondo” disse senza guardarmi “è davvero un posto bellissimo, e solo
un uomo molto stolto può non rendersene conto. Ma non dirmi che piangevi
per questo, o mi avrai detto una menzogna. Forse la prima d'un qualche
rilievo, da tanti anni che ti conosco.” “No”
mormorai, immediatamente contrita. “Non era per questo. Mi scuso,
Maestro.” Forse
si attendeva un chiarimento, qualche parola di spiegazione, ma le mie
labbra restarono chiuse ed io tornai a guardare il mondo là fuori, almeno
finché lui non si allontanò per badare ad Amaltea, la capra che ci
forniva il latte e che sempre ci accompagnava, insieme all'asino Enkidu,
nel nostro stancante pellegrinare. Quella
vita non ci garantiva un agio economico: passavamo troppo tempo a
sopportare le asprezze del cattivo tempo, ed eravamo esposti a pericoli
d'ogni sorta, come quella volta in cui il mio Maestro cadde in un dirupo,
e se anche non perdette la vita, perse la scioltezza nel camminare, perché
si storse malamente una caviglia e per molto tempo la sua andatura divenne
claudicante, tanto che il bastone con cui prima più che altro si
divertiva ad ammonirmi, ora doveva usarlo come sostegno, e non solo nelle
salite ripide che caratterizzavano certi monti. Ma
si riprese, e bene: mantenne l'uso del bastone, come mi spiegò un giorno,
per tenere memoria dell'incidente, per ricordare a sé stesso quanto
vicino fosse stato a perdere la salute e la serenità, ma senza
lasciarsene amareggiare: era stato un insegnamento, uno dei tanti della
vita. Questa
era la nostra vita d'allora: di giorno in cerca, occupati a trovare i
preziosi doni della Natura, intervallando le nostre ricerche, quando
fruttuose, con gli acconci trattamenti per preservare le proprietà delle
sostanze contenute nelle erbe, e di notte a riposare nelle grotte o in
ripari di fortuna quando ci andava male, ché le frasche non potevano
competere con la nuda roccia quanto a protezione dai venti o dalle pioggie. Ma quando potevamo profittare dell'ospitalità di qualche stamberga abbandonata, nella sera tenera, quando la luce lasciava il posto alle stelle, ma ancora non era del tutto buio, e se mi sforzavo potevo vedere il lucore dei suoi occhi, in cui si specchiava il tremulo fuoco della lanterna, la voce stanca del mio antico maestro mi accompagnava al sonno, dicendo parole quiete che sedavano le mie paure, e quando stavo gia' con gli occhi chiusi, quando proprio il sonno era così vicino che il confine con la veglia era ormai sottilissimo, allora sentivo la sua mano fra i miei capelli, una carezza lieve e benedicente che aveva il coraggio di farmi solo quando pensava che ormai dormissi, e sulla quale io sempre mi proibii di commentare. |