DZ : L'ALGERIA SUL FINIRE DEGLI ANNI 1970
Milano 1994. C'era una volta un bel paese giovane e relativamente povero, ma dignitoso e pacifico. Uno dei più grandi paesi africani, si estendeva dalle coste del Mediterraneo alle sabbie del Sahara. Aveva conquistato la libertà dopo una durissima lotta contro la potenza europea che lo aveva colonizzato a partire dal 1830. Una potenza che, già in piena epoca di decolonizzazione, non voleva proprio saperne di liberarlo. Eppure la stessa potenza aveva già concesso la libertà ad altre sue colonie e aveva subito una sconfitta quando si era intestardita a voler restare in una sua lontana colonia asiatica. Ma il bel paese africano bagnato dal Mediterraneo, la potenza (che per altro si atteggiava a faro dell'autodeterminazione dei popoli e aveva tanto tempo addietro coniato il motto "Libertà, uguaglianza, fraternità") non voleva proprio lasciarlo. Anche perché essa, dirimpettaia sulle sponde nord dello stesso mare, lo considerava più come qualcosa di simile a una sua provincia che non una colonia e poi perché vi abitavano tanti suoi strani cittadini chiamati "piedi neri". Ma c'era anche chi sosteneva, forse le solite malelingue, che la potenza non voleva andarsene, perché il sottosuolo di questo suo insieme di "dipartimenti" conteneva grandi giacimenti d'oro nero. Alla fine, nel 1962, malgrado i lupi cattivi di un branco che si faceva chiamare OAS e anche grazie all'intervento di un "principe buono" (in verità un generale grande di statura e d'acume), il paese "Cenerentola" della nostra favola fu libero e pareva votato al più promettente futuro.
E invece, qualche decennio dopo, la"favola" si é trasformata in tragedia. E l'Algeria é ora preda d'una sanguinosa guerra civile. Ho soggiornato a lungo in quel paese, imparando a stimarlo molto, tra il 1976 e il 1979 e naturalmente sono molto addolorato per quanto ora vi succede. Ovviamente, anche l'Algeria di allora aveva i suoi problemi (poco cosa rispetto agli attuali), ma sembrava seriamente indirizzata verso uno vero sviluppo, lento ma costante, saggiamente utilizzando i proventi delle sue maggiori ricchezze (il gas naturale e in misura minore il petrolio) per costruire strade, porti, fabbriche, scuole, infrastrutture varie e potenziare l'agricoltura. Tutto il nord, da Annaba a Orano, da Algeri fin quasi alla zona pre-sahariana era un immenso cantiere. Era un paese fiero della sua indipendenza, ma molto tollerante verso gli stranieri (in genere anche i francesi) che gli apportavano il "know-how" che gli avrebbe permesso di decollare e diventare autosufficiente. Certo, non lo si poteva definire democratico in senso occidentale. Ma non era nemmeno ottusamente nazionalista o proibizionista come tanti altri paesi arabi, tipo anche certe satrapie della penisola arabica sulle cui mancanze in fatto di diritti umani, democrazia, ecc., l'Occidente ancora oggi chiude tutti e due gli occhi per i motivi che ben sappiamo.
Erano gli anni dei cosiddetti petrodollari. I guru della politologia e della futurologia economica vaticinavano che i paesi ricchi di petrolio avrebbero messo in ginocchio l'Occidente assetato di idrocarburi. In tutti i paesi petroliferi si costruiva molto e le società d'impiantistica del nord del mondo vi facevano affari d'oro... giallo. Per via del suo "liberalismo", l'Algeria era il paese preferito dai dipendenti di queste società. Repubblica "democratica e popolare", il suo socialismo sembrava improntato a un sano pragmatismo. Il presidente Boumediene, uno dei capofila dei paesi non allineati, cercava di mantenere l'equidistanza tra Washington e Mosca e sosteneva (e non era il solo) che i veri motivi di conflitto della nostra fine di secolo non erano quelli tra est e ovest, ma quelli tra nord e sud, o in altre parole tra paesi ricchi e paesi poveri. Crollato l'impero sovietico, anche la storia sembrerebbe dargli ragione... se non fosse che oggi i paesi poveri del sud del mondo hanno ancor meno voce in capitolo di allora. In genere, il villaggio globale nordcentrico, che ha già tante sue gatte da pelare, li ignora, o quasi. A quindici anni dall'indipendenza, la cosa che colpiva di più dell'Algeria era la voglia di fare, di progredire, di fondere insieme quel tanto di positivo (tipo una lingua internazionale come il francese) lasciato dalla colonizzazione con la sua tipicità di paese islamico a due passi dall'Europa, di non contare soltanto sulle riccchezze del sottosuolo per garantirsi un futuro decente e di creare molte future occasioni di lavoro per i suoi figli che crescevano a ritmo vertiginoso. In sostanza, sembrava aver trovato una sua giusta "terza via". Gli stranieri che vi lavoravano erano molto numerosi e non erano sottoposti a tutti i controlli polizieschi tipici di altri paesi arabi - come la Libia e l'Arabia Saudita - o delle "democrazie popolari" dell'est europeo. Agli italiani, molto benvoluti, non occorreva nemmeno il visto sul passaporto. S'andava e veniva senza nessun problema. Era persino permesso portare una bottiglia di superalcolico a testa e qualsiasi libro o pubblicazione che non fosse pornografica (sebbene i controlli fossero molto blandi anche in questo campo).
Anche nell'Algeria di allora, la povertà (ma niente di simile anche a paesi non del terzo mondo, come ad esempio il Brasile) era diffusa ma dignitosa. E poi sembrava veramente che si stessero facendo gli sforzi giusti per vincerla e per distribuire più equamente la ricchezza procurata dal gas e dal petrolio. Qualche anno prima, per fermare l'avanzata del deserto, era partita anche l'operazione "diga verde", un colossale rimboschimento a sud di Algeri, dai confini col Marocco a quelli con la Tunisia. La radio trasmetteva anche un buon programma in francese con notiziari e molta buona musica leggera dell'antica potenza colonizzatrice. In fatto di stampa quotidiana, chi sapeva il francese poteva scegliere tra il locale "El-Moudjahid", un foglio sul tipo di alcuni giornali di partito italiani, e il parigino "Le Monde". E nelle librerie non mancavano i libri francesi. A pochi chilometri dalla capitale c'erano delle spiagge bellissime. A circa 600 chilometri a sud di Algeri incominciava, con Ghardaia e la sua oasi, il paese da cartolina illustrata e da leggende del deserto.
A parer mio, il golpe militare che nel 1992 impedì il secondo turno delle elezioni che stavano per essere vinte dal FIS (Fronte Islamico di Salvezza) fu un gravissimo errore. Come ogni persona deve poter essere libera di vivere a modo suo purché non leda i diritti altrui, così ogni paese dovrebbe potersi scegliere il governo che preferisce, anche se potenzialmente illiberale. Certi metodi degli estremisti islamici sono condannabilissimi, e particolarmente esecrabile é indubbiamente il massacro dei sette marinai italiani sulla nave Lucina, tanto più che non si trovavano nemmeno sul suolo algerino, erano lì solo per pochi giorni e quasi certamente non erano nemmeno al corrente della situazione del paese. Ma sono condannabilissimi anche i campi di concentramento dove sono tenuti prigionieri migliaia di attivisti del FIS e le probabili altre forme di repressione su cui sembra vigere il "black-out" quasi totale. Certo, finirà anche questa brutta storia e l'Algeria tornerà a risorgere, ma quando e come? La risposta, come in una celebre e bellissima canzone, la sa solo il vento... forse il Ghibli.
Giuseppe Serpagli
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Ad Algeri, una bellissima città tipicamente mediterranea con ancora molte caratteristiche francesi, si poteva circolare liberamente giorno e notte, con molto meno probabilità di essere derubati che non, ad esempio, nella Milano di oggi. Nel limitato orario di apertura dei bar, specialmente quelli della rue Didouche Mourad, una delle vie principali della città, si poteva bere persino la birra (alcolica!). E nei ristoranti non mancava il vino; ottimo quello rosso, ma col pesce, naturalmente, era preferibile un buon bicchiere di "Blanc de blancs". Almeno nelle grandi città del nord, le donne erano libere di vestire e di lavorare come volevano. E per i maschi che avevano impellenti bisogni sessuali c'erano i bordelli. Come quello di Ghardaia, molte "pensionanti" del quale, per via dei tanti italiani che lavoravano nei grandi cantieri della vicina Hassi R'Mel - dove si trovano alcuni tra i più grandi giacimenti di gas naturale del mondo - avevano imparato le più comuni parolacce italiane.
Non c'era il culto della personalità del presidente Boumédiene, che vidi da lontano qualche mese prima della sua morte, avvenuta per cause naturali nel dicembre del 1978. Malgrado le voci sentite in Italia in quegli anni, non mi capitò mai nessuna imposizione poliziesca e ho sempre potuto spostarmi liberamente (naturalmente nel rispetto degli usi e costumi locali) e parlare con tutti (evitando, ovviamente, certi imbarazzanti argomenti, come il caso Ben Bella). Burocrazia interna tanta, questo sì, ma un italiano é già più che rassegnato a ben altri tormentoni del genere in patria. Qualcosa, come le poste, funzionava meglio che in Italia. C'era apertamente qualche serio problema con il Marocco a proposito dell'ex-Sahara spagnolo, si mormorava di una certa insoddisfazione degli abitanti della Kabylia, ma niente lasciava presagire che nel paese si sarebbe sviluppato un forte movimento d'integralismo islamico e tanto meno l'odio verso gli stranieri.
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