Rendena

Periodico a diffusione mirata di varia umanità - 07 / Maggio 1996
Associato U.S.P.I. - Direttore responsabile Valter Paoli
Coordinatori editoriali Giuseppe Leonardi e Piergiorgio Motter
Autorizzazione Tribunale di Trento nr. 898 del 13 marzo 1996

Collaboratori:
Vittorio Ducoli - Daniele Ribola - Dante Ongari - Sergio Trenti
Antonio Scarazzini - Cesare Maestri - Tranquillo Giustina
Claudio Dallagiacoma - William Belli - Rudy Cozzini

Editoriale

Il periodico Rendena - con questo numero - ha finalmente ed ufficialmente il suo Direttore nella persona dell'ingegner Valter Paoli.

Dirigere una pubblicazione di valle, assurta in poco più d'un anno a qualificata rassegna culturale, non è certo un hobby o un onore prebendizio. Dirigere una rivista, poi, così innovativamente aperta ad ogni collaborazione, ad ogni sollecitazione, ad ogni dibattito propositivo sulla complessa "realtà rendenese", è responsabilità a tal punto impegnativa ed ardua da richiedere - sin dal primo momento - l'augurio d'una gestione che sappia arricchire e ringiovanire sempre più l'interesse dei lettori nei confronti della storia, cultura, tradizioni della loro valle. Il nostro augurio quindi!

Proprio in questi giorni è nelle librerie una delle opere più significative e rivelatrici dell'amore di un rendenese per la sua terra "Fiabe e leggende della Rendena" di Nepomuceno Bolognini. Di lui perciò - personaggio singolare e glorioso della nostra storia risorgimentale, oltre che letteraria, Rendena sette intende offrire una lunga nota che degnamente lo ricordi. Da parte sua Giuseppe Leonardi, tenace propugnatore in tutti i suoi articoli d'una vera cultura della montagna, annuncia ed illustra sin da questo numero l'iniziativa editoriale che affiancherà il periodico, vale a dire la collana "I Quaderni di Rendena" destinati ad una specifica ed esclusiva biblioteca di valle.

Si onora poi la rivista, anche questa volta, d'ospitare una franca e schietta "memoria" del grande scalatore Cesare Maestri, l'uomo che con le sue straordinarie imprese e con i suoi coraggiosi scritti ha reso celebri i nostri luoghi in tutta Europa.

L'impegno infine di Claudio Dallagiacoma, di farci conoscere - del patrimonio storico ed artistico rendenese - ogni più qualificante tesoro, s'accosterà (con il suo Obiettivo) al magistrale studio dell'ingegner Dante Ongari su "Cartografia e letteratura alpinistica della Val Genova".

Come a dire che, ancora una volta, il nostro periodico non deluderà le attese dei lettori. Non le deluderà veramente!

Piergiorgio Motter - editore

Pelugo, primo maggio 1996.

Figura eccelsa - del Risorgimento italiano e della cultura trentina - Nepomuceno Bolognini, può essere considerato, a pieno titolo, lo scrittore rendenese per eccellenza.

Di lui, che visse e sofferse in prima persona l'intero travaglio dell'indipendenza politica e morale della sua terra, è in questi giorni nelle librerie la raccolta "Fiabe e leggende della Rendena", l'opera alla quale era forse, affettivamente, più legato.

Nell'annunciare la stampa - da parte di Ediren (Tione) - d'un così prezioso gioiello, "Rendena sette" vuole qui presentarlo, autentico "evento di valle", attraverso un breve saggio di Tranquillo Giustina, colui al quale l'editore ha affidato la composizione e la realizzazione dello splendido volume.

L'Editrice Rendena di Tione si onora di invitare la S.V. alla presentazione del volume di

Nepomuceno Bolognini

"Fiabe e leggende della Rendena",

che avrà luogo domenica 26 maggio 1996 alle ore 16:30,

presso la sala convegni dell'Hotel Parco Estense di Vigo Rendena.

Interverranno con l'editore Piergiorgio Motter

il professor Giuliano Beltrami che illustrerà la raccolta ed

il curatore del libro Tranquillo Giustina.

Nepomuceno Bolognini

di Tranquillo Giustina

Guidato dal cuore.

Era nato il 24 marzo 1824 a Pinzolo, in Rendena, dove il padre - il valligiano Vigilio Bolognini - all'estremo limite della piana di Carisolo possedeva ed amministrava un'attiva fabbrica di cristalli.

Intrapresi i suoi studi a Trento, per continuarli a Verona e a Cremona (non senza qualche distrazione risorgimentale), s'iscrisse - al termine di essi - all'allora rinomato Ateneo di Pavia, partecipando in quella città ai moti studenteschi e alle sollevazioni popolari del 1848.

Aggravatasi la sua posizione politica, in una Lombardia dispoticamente controllata dall'Austria, ritornò a Pinzolo dove lo scoppio della prima Guerra d'Indipendenza lo spinse con i "Corpi franchi" all'azione nelle Giudicarie e in Val di Sole, e - pochi mesi dopo - con la "Legione trentina" nei vari combattimenti di Mezzana Corte, di Cascina Mandella, e di Casteggio.

La tremenda e definitiva sconfitta di Novara (1849) e il conseguente "Trattato di Milano" convinsero il giovane rendenese a ritornare all'impegno universitario, grazie al quale - accanitamente perseguito - il 4 dicembre 1850 si laureò in giurisprudenza, subito impiegandosi presso lo studio legale Ducati di Trento (come minutante) allo scopo d'ottenere - dopo l'obbligatorio tirocinio - l'ambìta abilitazione professionale.

Alla grande illusione seguì la delusione della sua vita. Diffidato ed impedito dalla polizia stessa - con pesanti motivazioni politiche - d'esercitare l'avvocatura, si ritirò al paese natìo ove diresse per qualche tempo la Vetreria paterna, prima di cederla definitivamente (1859) al tenace imprenditore modenese Alessandro Garuti.

Scoppiata la seconda Guerra d'Indipendenza, Nepomuceno Bolognini - dopo essere accorso in Piemonte ed avere combattuto nell'esercito regolare - si arruolò (agli ordini di Garibaldi) tra i "Cacciatori delle Alpi" e, con l'eroe nizzardo, partecipò l'anno seguente alla "Spedizione dei Mille" nella Divisione Medici (1860) e - non molto dopo - agli ardimentosi quanto infelici tentativi di Sàrnico (1662) e di Bezzecca (1866), inutilmente miranti alla penetrazione italiana nel Trentino.

Fu in seguito all'amaro esito dell'invasione giudicariese del 1866 che egli (pur nominato "sul campo" colonnello) si ritirò sdegnato dall'esercito, e nel suo nuovo e disincantato amor di patria dedicò tutto se stesso al "risorgimento" di quella sua regione per la quale aveva speso, senza alcun riscontro né riconoscimento, l'intera giovinezza.

Aveva oltre tutto capito che non il territorio bisognava liberare e redimere, ma lo spirito o, meglio, la condizione culturale della propria gente.

Ebbe così inizio per lui una vita nuova! Nel 1872, coadiuvato dal fraterno amico Prospero Marchetti, in vista delle stupende montagne della sua valle, egli ideó e fondó a Pinzolo l'ardita "Società degli Alpinisti del Trentino" avente lo scopo di educare virilmente la gioventù attraverso quei coraggiosi incontri e quei nutriti "Annuari" che dell'associazione costituivano l'autorevole indirizzo e la gagliarda voce.

E furono proprio gli "Annuari" - riportanti, tra l'altro, le cronache e gli interventi delle sempre più affollate assemblee - a rivelare la versatilità letteraria e storica d'un uomo che per primo, nel Trentino, avrebbe dato valore e nobiltà alla conoscenza delle caratteristiche etniche, delle tradizioni, delle leggende, delle credenze, delle consuetudini, dei linguaggi stessi d'una terra ancora asservita allo straniero, ma che - nelle aspirazioni - si considerava e si proponeva come la più italiana tra le regioni coinvolte nel lungo e faticoso risorgimento.

Eppure tanta passione e tanta dedizione non giovarono per nulla a risollevare la condizione finanziaria d'un magnanimo che - passati ormai i sessant'anni - continuava esemplarmente a dare senza ricevere mai.

Per fortuna (anche se è desolante dirlo) egli riuscì ad avere - per sopravvivere - un modesto incarico presso la milanese "Società italiana di esplorazioni geografiche e commerciali" per la quale - come segretario e come redattore del periodico aziendale "Esplorazione commerciale" - lavorò fino al 1898 quando, malandato in salute e dimenticato da molti, fu costretto a ritirarsi a riposo, per morire due anni dopo (il 19 luglio 1900) assistito con amore dalla moglie Maria e dalla figlia Emma, e confortato dal pensiero d'essere sempre stato, nella sua vita, guidato dal cuore.

L'alfiere d'una cultura nuova

Nepomuceno Bolognini, dunque, si trovò a vivere la propria giovinezza nel momento cruciale del Risorgimento italiano.

Nato all'indomani dei moti carbonari, e alla vigilia (se così si può dire) di quelli mazziniani - dalla spedizione in Savoia del 1834 alle riforme liberali in Toscana e in Piemonte del 1846 - egli per tutta l'esistenza non coltivò nel cuore che l'idea fondamentale dell'unità e dell'indipendenza d'Italia, anche se contemperata (e a volte esasperata) dalla sua condizione di suddito austriaco e dalla sua intelligenza concretamente pratica di "rendenese".

Erano anni di straordinario fervore intellettuale. Con innovazioni e sperimentazioni interessantissime. Il primo "romanticismo" - un "romanticismo" anche linguisticamente raffinato - lasciava il passo alle più accessibili ideazioni ed immaginazioni del secondo Ottocento. Del primo "romanticismo" rimaneva - con l'eletta produzione artistica - la suggestione di alcune nobili esistenze. E di alcune (come quelle del Foscolo, del Pellico, del Berchét, del Prati, dell'Aleardi, del Mercantini) venturose esperienze.

La passione patriottica prendeva il posto dell'ispirazione. E sulla creazione prevaleva l'esaltazione degli ideali portati avanti non dalle argomentazioni dei letterati, ma dalle motivazioni dei popoli anelanti a una loro autonomia.

In tal senso - nel periodo di questo "secondo romanticismo"- Nepomuceno Bolognini fu senza dubbio (per il suo Trentino) una delle grandi figure sia come patriota che come scrittore: anche se, travolto dal suo sogno politico non seppe né volle dedicare le necessarie energie a questa specie d'avanguardia letteraria che stava sbrecciando le roccheforti culturali di mezza Europa.

Vengono alla mente qui le parole che Benedetto Croce scriveva a proposito di un altro conclamato autore garibaldino, Ippolito Nievo: parole che mirabilmente ci aiutano a comprendere e a valutare pure l'opera e l'arte di Nepomuceno Bolognini.

"Forse dal freddo e risoluto soldato delle guerre del Risorgimento - disse il Croce del Nievo - sarebbe uscito un uomo politico, un competente amministratore della cosa pubblica, un promotore delle armi, dell'agricoltura, dell'economia nazionale, dell'educazione del popolo italiano; e probabilmente l'opera artistica - con la quale aveva riempito l'ozio costretto, aspettando il momento dell'azione - sarebbe diventata per lui secondaria".

Ed aggiungeva sicuro: "L'arte per l'arte non era il suo più intenso e supremo amore, come negli animi in tutto e per tutto artistici; e perciò essa non avrebbe potuto avere in lui un più ampio svolgimento e raggiungere la perfezione".

Naturalmente - di fronte a così autorevole conclusione - non altro giudizio critico intendiamo esprimere circa il nostro scrittore rendenese. Dobbiamo però qui aggiungere che per ponderare ancor più obiettivamente la produzione letteraria del Bolognini non si può - prescindere da una conoscenza chiara ed aperta nei riguardi di quella corrente (come abbiamo detto) d'avanguardia letteraria che dalla seconda metà del secolo scorso - con l'emblematico nome di "folklore" - era venuta ad interessare (e a rivoluzionare) l'intero campo intellettuale europeo.

È ben vero che la parola "folklore" (mentre al suo nascere stava rigorosamente ad indicare quella che si potrebbe chiamare l'inesplorata "cultura del popolo") a poco a poco - corrompendosi l'iniziale accezione - venne babelicamente a significare ogni estemporaneo, generico, artificioso, spesso affrettato processo creativo ed estetico.

Ma poiché Nepomuceno Bolognini (nella storia del genuino "folklore") fu per il Trentino uno degli alfieri della nuova scuola - uno dei grandi - sarà allora cosa opportuna spendere per la conoscenza di questo movimento di "artistiche espressioni popolari" qualche parola in più. Movimento che uomini coraggiosi (prima ancora che sensibili al tesoro nascosto di tante preziose tradizioni orali) ebbero il gusto e il genio di secondare e di portare avanti.

Il fascino del folklore

La parola "folklore" - nel senso originario del termine - venne coniata, proposta, e diffusa, dall'archeologo Ambrose Merton nel 1846 (attraverso la rivista londinese "Athenaeum" dove egli si firmava con lo pseudonimo "William John Thoms") per raccogliere sotto un unico nome tutta quella letteratura (e quella tradizione orale vicina ai generi letterari) che costituiva - pur nella molteplicità delle fonti, degli indirizzi, delle voci - il "sapere del popolo".

Ora se alcuni - stante la superficiale pretesa del vocabolo - si sentirono autorizzati a fare d'ogni erba un fascio, altri (veri sostenitori d'un movimento decisamente innovatore) colsero e difesero il carattere spirituale ed etico d'una "sapienza popolare" che affondava le sue radici nelle aspirazioni, nei sentimenti, nelle fantasie, nelle speranze, nelle illusioni, nelle superstizioni, nelle chimere, nei misteri delle commozioni e delle espressioni dell'animo umano.

A tutto ciò dava un apporto il trionfante clima tardoromantico che vedeva in ogni uomo e in ogni situazione le infinite soggettività creative dell'arte.

Questo era il "folklore" che aveva avvinto - grazie agli spiriti più accorti - tutti i cultori del verbo letterario "popolare" dai fratelli Grimm, esponenti della grande letteratura tedesca, all'austero Niccoló Tommaseo, ricercatore di preziosità linguistiche minori, al Berchét delle "Vecchie Romanze" spagnole, ad Alessandro D'Ancona (sostenitore appassionato) e a Giuseppe Pitré (raccoglitore insuperabile) di tutte le tradizioni culturali del popolo, fino al grandissimo Leon Nicolaevic Tolstój, colui che al folklore avrebbe dato il contributo artistico più determinante e più alto.

Era l'anno 1882 (a dire - dello scrittore russo - qualcosa di più). Con immensa rassegnazione, ma anche con immenso amore per l'avvenire dei suoi figli, egli aveva seguito la famiglia a Mosca. E là, come per una folgorazione, s'era reso conto in quale basso, umiliante, deleterio livello di cultura vivessero i proletari di quella città. Fu allora che (già scosso da un precedente viaggio in Europa) entrò in una crisi profonda; una crisi religiosa e filantropica che gli fece addirittura ripudiare i cànoni classici dell'arte. "L'arte è menzogna, - prese a sostenere - ed io non posso amare la menzogna".

Tornato in fretta a Jàsnaja Poljàna cominciò (ci sia consentita la divagazione, che aiuterà a comprendere il travaglio morale apportato in lui dal "folklore") a comporre libri di lettura, sillabari, piccoli compendi per i figli dei contadini della sua vasta tenuta e delle tenute vicine.

"Fede in Dio e fiducia nell'uomo": questo il programma su cui si imperniò la lotta di Tolstoj contro la "menzognera cultura paludata" incapace d'essere "cultura popolare". Sicché i libri di lettura ch'egli scriveva e pubblicava per la sua scuola (dove quotidianamente e con una commovente dedizione insegnava) rappresentarono per il "folklore" di tutta Europa una rivelazione in favore dell'istruzione del popolo, dell'unione fraterna tra le classi sociali, e soprattutto d'un linguaggio elementare, semplice, piano, comprensibile, liberato da parole ambigue o artefatte, ricco d'una saggezza nuova.

E in verità talmente sofferto e coinvolgente era l'imperativo di questa nuova corrente letteraria nel convertito a un così rivoluzionario credo creativo che neppure la famiglia riuscì a capire le ragioni di questa specie di apostolato mentale. Il caso appunto di Sofia Andreevna, la moglie di Tolstój (colei che gli aveva dato più di dieci figli, e che tanto lo aveva sostenuto e favorito sentimentalmente nei molti anni di matrimonio), la quale ora s'andava, a poco a poco, staccando da lui non comprendendo "come potesse un uomo della levatura intellettuale del marito perdere, anzi profanare il suo tempo insegnando a leggere ai figli dei servi, coltivando con loro la terra, imparando a tagliare la legna, e cercando e trascrivendo per loro fiabe e leggende spesse volte (quanto meno all'apparenza) insignificanti".

Ecco quindi immaginabile come - in una Milano di fine secolo, sazia, ingolfata, quasi nauseata di letteratura e d'arte - Nepomuceno Bolognini offrisse con la modestia e la riservatezza del suo carattere (e al tempo stesso nella totale indifferenza della cultura ufficiale) la parte migliore delle sue energie alla ricerca e all'offerta delle realtà più valide e più indicative del ricco ed insospettato patrimonio folkloristico trentino.

Il banditore instancabile

Da una tale ventata culturale (che ben s'innestava nel clima pre-decadente di quell'estremo Ottocento) Nepomuceno Bolognini rimase immediatamente colpito e conquistato.

Tutte le qualità egli aveva per essere - d'un movimento così popolare e carismatico insieme - il tenace pioniere e il banditore instancabile.

Del pioniere egli aveva effettivamente la consapevolezza dei propri inadeguati mezzi. La scarna semplicità dell'immediato ed essenziale linguaggio. L'amore innato e sconfinato per la gente delle sue valli. Del banditore invece la meraviglia continua, lo stupore incessante, la fede entusiasta per ciò che della vita trentina (in fiabe, in poesie, in canti) era ancora ignorato ed incontaminato retaggio di pochi.

In tal senso il Bolognini poteva scrivere alla misteriosa destinataria ed interlocutrice della sua corrispondenza: "Per il folklore, signora mia, avviene come per le ciliege, che assaggiatane una si continui anche sopra pensiero, senza sapere quando si finirà. In tali studi e ricerche, anzi, la materia cresce sotto mano, e così avviene precisamente a me che, avendo cominciato per fare qualche cosa, continuo quasi seriamente".

E quanto seriamente continuasse lo stanno a dimostrare le sue opere! Si può anzi affermare che, del ventaglio di occasioni culturali che la nuova "scuola" prospettava e propiziava, egli non ne trascurò alcuna, rivolgendo i suoi racconti e le sue leggende ai fanciulli, le sue maitinade ai giovani, le sue minuziose esposizioni sugli usi e costumi del Trentino agli adulti, senza dimenticare (con un particolare "saggio") coloro che ormai riponevano o ritrovavano la loro esperienza e la loro certezza nei proverbi. A tutti poi rivelando l'ardimento e il trasporto che gli infondevano i richiami sublimi e le meraviglie recondite delle sue montagne.

Che se - dalla giovinezza alla maturità - volle tenersi dentro (lontano da inchiostri e da velleità letterarie) questo amore pieno ed esclusivo per la sua terra, una volta sedata la tempesta patriottica, e conclusa la saga garibaldina, egli ritornò con volontà operativa e creativa alle sue radici (e alle sue nostalgie). E poichè - schedato e sorvegliato dal controllo austriaco - solo sugli "Annuari" della "Società degli Alpinisti Tridentini" aveva modo di esaltare "il suo caro e sfortunato paese", - diede inizio cinquantenne ormai - a una lunga serie di scritti sul Trentino dove - scoprendo e collezionando testi e tradizioni orali destinate a scomparire - chiariva che si sarebbe occupato specialmente (come in realtà fece) della "sua" Rendena: "mia, voglio dire, - spiegava - nel senso che essa mi fu culla, e perché credo e crederò sempre cosa giovevole il raccogliere e l'annotare tutto quanto riguarda la vita intima passata e presente dei nostri montanari per investigarne poi la storia recondita e lontana, e dedurne previsioni per l'avvenire".

Scelse così, senza incertezze e senza ripensamenti, la via popolare delle cantilene, delle storie fantastiche, delle vicende leggendarie, dei temi etnografici, dei motivi sapienziali, dei ricordi didascalici, fino a darci - da ultimo - l'originale capolavoro sugli "Usi e costumi del Trentino" attraverso il quale possiamo renderci conto dello studioso ch'egli era, della vasta cultura che lo sosteneva, della convinzione con cui seguiva e favoriva l'ingresso del "folklore" in ogni impegno culturale del popolo ("il folklorismo cammina ora a passi sicuri, da gigante, per l'universo intero"), ma specialmente dell'amore con cui dava tutto se stesso all'arricchimento spirituale della sua gente; quell'amore che lo faceva trepidare d'ogni più piccola consuetudine, d'ogni più insignificante usanza, d'ogni più fanciullesca alacrità, d' ogni più ingenuo sentimento: un amore per sua natura effusivo, partecipe, altruistico, simile alla giovane età impertinente e chiassosa "sì bene cantata - sono parole sue - del Cervantes":

"L'avaro nasconde le sue ricchezze, l'ambizioso i suoi vasti disegni, il saggio la sua felicità e la sua sapienza. L' amore, solo l'amore chiassoso, dice tutto".

Una piccola antologia

Di questo amore, capace di serbare le amarezze per sè e di offrire le cose belle agli altri, vogliamo qui dare il saggio di una piccola antologia, a dimostrazione della vivacità e raffinatezza linguistica del Bolognini che nulla aveva da invidiare alla prosa forbita di un Giovanni Ruffini, di un Ippolito Nievo, di un Giuseppe Rovàni. O a quella più chiara, e più immediata ancora, di un Guerzoni o di un Abba.

Ecco il racconto - ad esempio - di un giovanile rientro alla valle dalla sede delle scuole superiori, ch'era Cremona.

"Noi si veniva dagli studi liceali, compìti in una bella città lombarda, e si tornava ansiosi ai patrii monti trentini. Su pel delizioso lago di Garda, col primo battello a vapore che lo solcava, si era arrivati alla gentile città di Riva in due compagni, giovani, con pochi denari in tasca, molte speranze in cuore, maggiori fantasticherie in mente, e soprattutto una gran voglia di vedere e di osservare.

Fra noi due si progetta di fare un'escursione viziosa fra monti e vallette secondarie pria di restituirci trionfanti ai domestici focolari. Spuntava appena l'alba del dì seguente, la fresca e divina alba che indora i monti e fa palpitare tutta la natura, e noi ilari e lesti ci avviammo per la sassosa via, che tende al paesello di Ballino, attraverso boschi di ulivi e vigneti ridenti. Si varcò il Magnón, così denominato perché il torrentello insolente gettandosi contro i detriti calcarei d'una morena, colà insinuata, la scalza, la fa franare a valle, asportandone i ciottoli a ruina della sottoposta pianura di Riva, sicchè il nome di Magnón - mangiatore - è pienamente giustificato. Guadagnammo la sponda opposta, rasentammo un po' in alto il melanconico laghetto di Tenno dalle acque azzurre e tranquille, e in meno di tre ore di cammino si arrivò a Ballino".

Questo era - del Bolognini - il linguaggio più autentico: un linguaggio che avvinceva i lettori e li faceva partecipi d'una narrazione ove realtà e poesia erano un'unica cosa.

Come in quest'altro brano:

"Nuvoloni neri correvano pel cielo e minacciavano altro acquazzone, per cui ci affrettammo su per la valletta solitaria, boscosa, angusta, ora a dolci ma più sovente a rapide salite, e pria che ci cogliesse la notte o la pioggia, arrivammo al simpatico piano di Algóne. Sono vaste praterie, ove allora pascolavano mandre di mucche delle vicine malghe, e si vedeva, quasi abbandonato, un fabbricato che fu una vetreria, la quale pochi anni dopo doveva ripigliare il lavoro e fiorire utilizzando le abbondanti legne dei boschi circostanti. Il luogo, per la sua quiete, è proprio delizioso: i prati del piano sono rinserrati da una cornice di faggi che vanno su su, per le costiere, a raggiungere e a mescolarsi colla selva dei pini; la quale a sua volta s'innalza terminando in macchie di mughi, d'un verde più scuro, rotte qua e là da qualche vecchio larice; e, sopra tutti questi verdi diversi, le grigie rocce calcaree e le bianche nevi perpetue. Le tinte non potrebbero essere più belle, né più variate!".

Se poi a queste preziosità descrittive aggiungiamo le ricche pagine dove la facile vena sentimentale e la poetica acutezza psicologica prendevano al Bolognini la mano, allora è spiegabile il rammarico ch'egli (come, del resto, fu detto del Nievo) non abbia avuto l'arte quale suo unico e supremo amore.

"Il fanciullo - non è che uno dei brani più delicati - s'è fatto un robusto giovinotto, e la fanciullina un'avvenente ragazza. Il rigoglio della vita sussulta entro tutte le loro fibre; nuovi se non vasti orizzonti si presentano alla loro fantasia; inconsci desideri, misteriosi bisogni tumultuano nei loro cuori. Vaganti pei monti s'arrestano facilmente sulle sponde fiorite di qualche fonte, di qualche laghetto dalle acque tranquille; vi guardano dentro; si compiacciono della loro figura riflessa; si compongono in vari atteggiamenti. S'accarezzano i capelli, il fazzoletto da collo, o qualche altra parte dell'abbigliamento che par loro non abbastanza civettuola. Si specchiano a lungo e si pavoneggiano. E giacché ho toccato gli specchi, a giustificazione del giovinotto e della giovanetta beati d'un'acqua tranquilla che si presta alla loro nuova esigenza, le farò osservare, se ciò abbisogna, che i primi specchi furono sempre le superfici delle pure e lucenti acque delle fonti".

E tutto questo a dimostrare come anche il folklore - l'incompreso folklore - avesse una sua propria, intima, vitale, anche se talora umile, semplice, fragile carica di poesia.

Attraverso la decantazione dei secoli

Ora il genere letterario al Bolognini più congeniale - aperto (come la cultura popolare esigeva) all'immaginifico, e scevro d'erudizione - fu quello ch'egli, dotato di una sensibilità estrema, riservò alla novellistica, e più precisamente alla leggenda e alla fiaba. Un genere che spalancava al lettore il regno della meraviglia e del mistero. Regno dove fra l'uomo e la natura non esisteva divisoria alcuna. La natura (con le sue creature fantastiche) mostrava d'avere un'attivita sentimentale affine a quella dell'uomo: e nell'uomo viveva appieno il senso onnipresente ed incantato della partecipe natura intorno. Un'abilità narrativa tanto invitante quanto immediata. Un'arte nel saper graduare i momenti del reale e dell'arcano, dell'imponderato e dell'inevitabile, del portentoso e del drammatico, tesi a tener desta l'attenzione - pur con orditi semplici, con esseri inermi, con epiloghi fanciulleschi - sull'onda fluente d'un discorso al tempo stesso raffinato e piano.

E appunto favorendo questo gioco accorto - e consumato - di sensazioni insolite, e di eventi inopinabili, egli offriva alla gente comune - legata alla dura povertà, alla cruda fatica, all'amara sofferenza - la possibilità di evadere dalla quotidianità, di alimentarsi di sogni, di popolare il proprio mondo di maghi, di fate, di visioni, di prodigi, di accadimenti gioiosi, o comunque imprevisti: e tutto questo (a rimanere nella nostra Rendena) in infantili favole (Il compare Lupo), in storielle amorose (Le due sorelle), in episodi magici (La Regina dalla coda), in cronache paesane (El sass del Bargianéla), in aneddoti grotteschi (Zampa di gallo), in racconti religiosi (La selvaggia Rendena), in novelline ingenue (Schiena di mulo), in francescani fioretti (Il rivo di San Martino), in tradizioni esemplari (El tóf del Mal Neò), in vicende incantate (Il lago di San Giuliano), in allegorie bucoliche (L'ort de la Regina), in tenebrosi eventi (Barzóla), in antiche agiografie (Mortàso).

Un narratore insomma d'indiscussa avvedutezza artistica e - contemporaneamente - di onesta consapevolezza del proprio ruolo e del proprio limite. Capace cioè - pubblicando i suoi racconti - di confessare la sua profonda riconoscenza a chiunque, in un modo o nell'altro, glieli avesse suggeriti: ma pronto anche a tacitare (e diciamo pure a sottilmente ed elegantemente demolire) ogni malevolo, piccato d'accusarlo di plagio per certe fiabesche storie di evidente derivazione classica.

Per questi presuntuosi (e a volte anonimi) stroncatori, malati di letteraria albagìa, egli ebbe la lezione più pacata, ma certo anche più efficace in difesa delle sue creazioni fantasiose.

Già aveva avvertito di non voler dar a credere che fossero tutte nate nella sua "bella e poetica valle". Ma parlando di fiabe e leggende in generale aveva argutamente coinvolto nella stessa critica la maggior parte dei favolisti del Settecento e dell'Ottocento dicendo: "Alcune di esse ci vennero dalla più remota antichità, come Cenerentola, che ha la sua fede di nascita nell'Egitto, in quella Ródope storica la quale, perduta la pianella, o quella calzatura che aveva al piede, fra la calda arena di quella regione, divenne per un fatto così semplice la sposa fortunata del re Psammetico".

"O come l'altra - provocatoriamente aveva aggiunto - dell'anello fatato, dalla leggenda accennata da Platone, di quel tal Gige che, semplice mandriano del re di Lidia, dopo un forte terremoto vedutasi accanto una larga fessura nella terra pensò di scendervi e vi trovò un cavallo cavo di rame, entro il quale giaceva il cadavere d'un gigante con un grosso anello d'oro al dito.

Ladruncolo per natura, porta via l'anello e s'avvede subito che quello lo rendeva invisibile. Con sì potente talismano al dito si impossessa della bella e voluttuosa regina, poi col di lei aiuto assassina il re, e s'impadronisce del trono di Lidia".

E - subito dopo - più documentatamente ancora: "Ben antica poi doveva essere quella di Florio e di Biancofiore, che fu cantata in francese e in tedesco, e diede origine al Filocópo, primo lavoro del Boccaccio, e correva oralmente per l'Italia assai prima delle Crociate, come accenna il trovatore Rambaldo di Vaqueiras, il fido amico e compagno di Bonifacio II Marchese di Monferrato".

Così Nepomuceno Bolognini - come chi, messo mano all'aratro, era convinto di tracciare un solco buono e di non doversi volgere indietro - acutamente scriveva.

Lontano da accademiche diatribe e da vane polemiche, per amore di quella "cultura popolare" che tanto gli stava a cuore, traduceva in pagine fiorite e raccolte nella sua terra quei princìpi di bellezza e quegli ideali di verità ch'erano passati - come le leggende e le fiabe - attraverso la decantazione dei secoli.

La profonda conoscenza

La decantazione dei secoli, abbiamo detto. Ma potevamo dire l'ascolto e il vaglio della straordinaria disposizione umanistica che (nella sua modestia "d'omo sanza lettere") Nepomuceno Bolognini si portava dentro.

E faremmo, a questo punto, veramente torto ad ogni estimatore dell'uomo retto e del trentino colto ch'egli fu se qui non ricordassimo le pagine inimitabili - documenti perenni della nostra letteratura - attraverso le quali con riferimenti e con citazioni continue egli rivelò la profonda conoscenza che possedeva di quanti., prima di lui, avevano contemplato e cantato il mondo. Da Omero a Simónide, da Eschilo a Platone, da Teocrito a Terenzio, da Catullo a Virgilio, da Orazio a Seneca, da Strabone a Plinio, da Quintiliano a Stazio, da Plutarco a Giovenale, e poi da Guinizelli a Cavalcanti, da Dante a Jacopone da Todi, da Lorenzo il Magnifico a Poliziano, da Ariosto a Pulci, da Villani a Sacchetti, da Galileo a Goldoni, per giungere a Foscolo, a Leopardi, a Manzoni, a Giusti, senza dimenticare Calderòn, Goethe, Heine, Puskin, Longellow, Swinburne, e tanti altri.

Eppure a nulla servirebbe questa nutrita e lusinghiera elencazione se non venisse valutata e - diciamo pure - goduta nel contesto d'una ricchezza d'opere che ancor oggi rende inspiegabile la scarsa considerazione in cui il Rendenese, nella sua stessa valle, per oltre un secolo fu relegato.

Ma veniamo ad alcune tra le pagine più belle, poichè il tempo in fondo è un grande galantuomo, e sa alla fine riconoscere (e restituire al suo valore) ciò che è stato scritto con tanta purezza di cuore, e con tantà fedeltà etnografica.

"Pareva che i silenzi delle nevi e le vaste ombre della foresta simboleggiassero la profondità e il raccoglimento del pensiero, come le acque ruinose e precipitanti a valle - che si udivano rumoreggiar da lontano - la forza e l'audacia del volere che ovunque sa scavarsi la sua via. Una natura così imponente sembrava quasi volesse rivelare parte dei suoi misteri, come per abilitarci a leggere nel libro di Dio per dirla con una frase di Kepléro".

Ma la sua capacità verbale e la sua commossa humanitas sapevano andare ben oltre.

"I monti sono le pietre miliari nella storia del mondo. L'Ararat, l'Oreb, il Sinai, sono i monti della manifestazione; l'Atlante, il Caucaso, l'Etna, i Pirenéi, le Alpi, i monti dello sforzo, del terrore, della separazione; l'Olimpo, il Tabor, i monti della gloria; e il Calvario il monte della redenzione.

M'abbandonai così ad un mondo di fantasticherie svegliate dai prafondi silenzi di quelle solitudini dalla voce grandiosa e potente della natura. - La voce della natura - sveglierà le nazioni! cantò, anzi gridò Shelley".

Poesia - come si vede - nella poesia. Parole meravigliose, quasi bibliche! Portate dal Bolognini alla significazione suprema quando, inebriato della sua valle, scriveva:

"Fummo presto in fondo, entro una folta selva di abeti, mentre già imbruniva.

- Oh, l'odore resinoso, il crepuscolo della foresta, la sacra naturale quiete, i solenni silenzi! Venti d'autunno! Quando io passeggiavo nel bosco, sull'imbrunire, ho sentito i vostri lunghi sospiri, salienti in alto dolorosamente. -

Così cantò il massimo poeta americano, Walt Whitman. E questi versi rispondevano perfettamente allo stato d'animo in cui mi trovavo".

In realtà solo attraverso la luce di queste parole si può comprendere appieno da quale onestà intellettuale e ricchezza interiore venne dettata tutta la sua opera.

"M'assisi sulla neve in estatica contemplazione di quei massi enormi e fantastici, e dell'immensità dello spazio azzurro che ci copriva e circondava. Pensai: Quanti secoli hanno veduto queste rupi che non possiamo considerare senza sognare?.. Dove confina questo cielo sì splendido la cui misura ci spaventa?

Da ogni parte ci avviluppava l'infinito, né si poteva girare lo sguardo, formare un pensiero, non sentirsi annichiliti. Velleio scrisse che Epicuro per primo s'avvide esservi la Divinità dall'impressione che la natura medesima fa sullo spirito degli uomini. E dev'essere vero. Cos'è mai infatti il piccolo globo ove noi abitiamo in mezzo a tanta grandiosità infinita? Una piccola nave galleggiante sulle acque".

Pagine che apparterranno per sempre - senza bisogno d'essere profeti - alla più bella e consolidata letteratura trentina, come quelle - forse migliori ancora - dedicate dal Bolognini all'attività alpinistica vera e propria, delle quali ben pochi, nelle Giudicarie medesime, non solo non si resero conto, ma neppure s'accorsero.

Restituendo bene per male

Orbene d'una così scarsa attenzione - per non dire d'una così ostile indifferenza - della valle verso uno dei suoi figli più eletti non è cosa facile dare una spiegazione esauriente.

Certamente (e questo va detto) già Vigilio Bolognini, il padre di Nepomuceno, non era stato - nei primi decenni dell'Ottocento - amato ed apprezzato dai suoi compaesani.

Fortissima a quel tempo - come del resto nei secoli precedenti - era la contrarietà dei residenti nei riguardi dei forestieri che entravano in valle a lavorare, mentre la maggior parte dei Rendenesi doveva emigrare. Or ecco che egli, gestendo una fabbrica di cristalli da tavola di bellissima fattura, aveva introdotto in Rendena - nei vari settori della produzione - maestranze specializzate boeme. E già tale scelta o preferenza non era - a quelli di Pinzolo - piaciuta. Quando poi - in un Trentino austriacante - le travolgenti vicende napoleoniche portarono (nel febbraio del 1810) i Francesi nella Rendena (con fucilazioni a Pinzolo, a Mortàso, e a Tione) e la Ditta "Bolognini e Pernìci" venne, dal Governo francese, premiata con medaglia d'argento come azienda attiva, produttiva, ed artigianalmente gradita, allora la benestante famiglia Bolognini si trovò ad essere bollata come filofrancese, nemica quindi dell'Austria, e delatrice d'ogni eventuale nostalgia absburgica espressa nell'ambito del paese.

Ad accentuare la malevolenza e la diffidenza verso i Bolognini fu poi la volta del giovane Nepomuceno, il quale - tornando in valle dagli studi di Cremona e di Pavia - andava rivelandosi sempre di più (al vigile controllo politico del luogo natìo) come una pericolosa testa calda, e più ancora un autentico seminatore di irredentismo. Tutti in paese poi - nel cruciale 1848 - vennero a sapere com'egli avesse partecipato nei "Corpi franchi" ai vari tentativi lombardi di penetrazione nelle Giudicarie e in Val di Sole. Come fosse stato tra gli sconfitti a Malé. E come, raggiunta fortunosamente la Lombardia, ed organizzata la Legione Trentina, si fosse attestato al Caffaro con altri settecento volontari, per lo più giudicariesi e solandri, in attesa degli eventi.

Se a ciò aggiungiamo la "sorveglianza speciale" che la polizia di Trento gli predispose - dal 1850 in poi - al suo ritorno cioè dal conseguimento della laurea in giurisprudenza a Pavia - e il rifiuto dell'autorità competente a consentirgli l'esercizo dell'avvocatura su tutto il territorio trentino, allora comprenderemo appieno le umiliazioni e gli scoraggiamenti che a poco a poco lo sopraffecero sino a indurlo - prima del 1859 - a svendere la vetreria paterna all'ingegnoso imprenditore modenese Alessandro Garuti e - pur con saltuari e "controllati" ritorni in Rendena - a trasferirsi a Milano per sempre.

Fortunatamente il tempo - con il mutare della situazione storica tridentina - ha lentamente fatto rientrare e dimenticare ogni avversione, ogni discriminazione, ogni diffidenza, ogni incredulità circa il reale valore di un tale uomo e della sua opera. Ma soprattutto sempre più renderà giustizia alla magnanimità e alla grandezza morale con le quali amò la sua Rendena restituendo (in modo veramente "cristiano") bene per male e sfatando oltre tutto con la sua nobile "humanitas" quella taccia di "garibaldismo" e di "anticlericalismo" che (dopo le notizie ledrensi del 1866) s'era trovato incolpevolmente attribuita.

In realtà - nel quadro generale della cultura rendenese - Nepomuceno Bolognini diede alla sua valle ciò che nessun altro scrittore aveva dato mai.

Cominciando - come sappiamo - dalla fondazione a Madonna di Campiglio (il 2 settembre 1872) di quella "Società degli Alpinisti del Trentino" avente come scopo primo la redenzione culturale di tutta la regione sudtirolese.

Da allora non vi fu "Annuario" della Società che non recasse - di lui - le descrizioni e le esaltazioni più toccanti e più circostanziate dell'amata sua valle. Da "La vera Tosa" a "La Valle di Genova". Da "San Vigilio di Pinzolo" a "Santo Stefano di Carisolo". Da "Le Danze Macabre" a "La leggenda di Carlo Magno". Da "Le Maitinade" alle "Fiabe e leggende della Rendena". Da "Le leggende del Trentino" agli "Usi e costumi del Trentino" con quell'ultima lettera (1891), estrema elegìa ad una Rendena che non lo aveva voluto comprendere.

Effettivamente da allora iniziò il rientro al silenzio dell'uomo stanco. Il rientro al silenzio, soprattutto, dell'uomo emarginato e vinto. Quel rientro al silenzio religiosamente simile allo stato d'animo con cui aveva chiuso una delle sue lettere più belle.

"L'itinerario dell'escursione stava per compiersi. Mi trattenni un momento a bearmi in quell'incantevole angolo della valle che sta fra la malga di Nambróne e quella dell'Amola; e un altro po' alla Fontana del Prévet per bere un sorso di quell'acqua deliziosa: poi in poco più di un'ora ero già al Cìngolo sulla via che da Campiglio mette a Pinzolo, che si raggiunge in meno di mezz'ora. Dieci minuti pria d'arrivare al simpatico paese si rasenta la chiesuola di San Vigilio, celebre per la sua Danza Macabra. Ebbi voglia d'entrarvi un minuto. La statua di legno della Madonna miracolosa, che si porta in processione in certe solennità o per invocare la pioggia o per avere il bel tempo quando proprio necessita, era lì nella sua nicchia, col lampadino acceso ai piedi, e il bambino tra le braccia, sfarzosamente vestita in tutto il suo splendore".

Caderzone 21 marzo 1996

L'obiettivo di Claudio Dallagiacoma

Le Seghe dei Strólegh

Ognuno a suo modo - attraverso i secoli - ha voluto stabilire il giusto confine tra la val Rendena e la val Genua. Per molti (diciamo, anzi, per i più) fu sempre la chiesa cimiteriale di Santo Stefano a fare da vigile sentinella a quel confine. Per altri invece fu il luogo dove l'antica e selciata stradina si biforcava con il sentiero che saliva all'eremo di San Martino. Per altri ancora - e la cosa non era poi così inverosimile - fu il tratto in dolce ascesa detto Bocca di Genua. Per altri infine fu il guado di Frassanìda o lo spigolo iniziale del versante di destra, detto Monte Pisonàto.

Ma non mancò qualcuno - anche se qui siamo totalmente nel regno della leggenda - che volle porre il confine nella "stretta" selvaggia e fragorosa della Sarca di val Genua dove sorgeva una tozza e rudimentale segheria a più lame (le "Seghe dei Strólegh": le seghe degli indovini, o dei maghi), oltre cui i demoni e le streghe confinati in val Genua dal Concilio di Trento non potevano venire.

"Qui, o amico, - scrisse allora Nepomuceno Bolognini, il grande etnografo rendenese - ha termine il terreno oltre il quale i demoni e le streghe non possono estendere il loro dominio; e fra due massi che formano quasi una porta, ombreggiata da alcuni castagni e noci, per via affatto piana e silenziosa, attraversi una stradina che diremo neutrale ove al più ti si caccerà tra i piedi qualche vipera, forse perché il primo aspetto che veste il demonio tentatore di Eva fu quello di serpente. La valle ha propriamente qui il suo principio".

Orbene c'erano in quel luogo (come s'è detto) gli impetuosi condotti d'acqua e le cupe ruote che azionavano le "Seghe dei Strólegh": luogo dove chi transitava non mancava di riverire le facce "rabide e scure" dei segantini, prodighi, a seconda, di buoni auspici o di maledizioni per il proseguo in val Genua..

Indubbiamente oscuro ancor oggi - per quanto favoloso - rimane il perché del toponimo tramandatoci, ma reali e suggestivi, oltre che ben visibili, affiorano tuttora dalle sterpaglie i dimenticati ruderi.

Eccoli quindi offerti al lettore - come realmente meritano - con alcune apposite fotografie, prima che l'inesorabile tempo li travolga e cancelli per sempre.

Da Vigo Rendena alle crode di Brenta Remigio Gasperi guida diciannovenne

La storia semplice e dignitosa di una grande famiglia di guide rendenesi salita dalla valle a cercare fortuna fra crode e ghiacciai.

Si potrebbe scomodare benissimo Plutárco con le sue «Vite parallele», una escursione del genere nel mondo della montagna, non sembra minimamente fuori posto quando si parla di Remigio e Oliviero Gasperi, due nomi di tutto rispetto nella storia delle guide alpine della valle Rendena. Più che padre e figlio furono fratelli, uniti dalla passione per la montagna, dal gusto del rischio, da una comune abilità tecnica, da un'identica mentalità di dirittura e di serietà professionale.

Remigio, robusta quercia valligiana, nato a Vigo Rendena nel 1873 fece presto a guardarsi attorno. Il mondo della valle offriva poco a quei tempi. O si faceva fagotto oppure ci si doveva accontentare di campare alla meglio, senza rosee prospettive future.

Remigio decise che la mediocrità non faceva per lui. Si parlava di un nuovo mestiere rapidamente in auge, un mestiere non comodo e pericoloso. Allora le guide alpine erano ricercatissime, nobildonne e nobiluomini ardevano dal desiderio di avvicinarsi ai colossi del Brenta cimentandosi in imprese che oggi farebbero sorridere, ma che, per quei tempi, non erano certo da sottovalutarsi.

Gasperi decise che tutto sommato il mestiere gli piaceva, quei monumenti di pietra lo avevano sempre affascinato. Coraggio ne aveva, madre natura gli aveva anche regalato un fisico d'eccezione e l'istintiva abilità di sbrogliarsi nelle situazioni più pericolose. Tanto valeva quindi tentare. Ed eccolo partire, a piedi naturalmente, per Campiglio, allora ai primi faticosi passi verso la consacrazione internazionale. Dietro l'attuale chiesa sorse una baracchetta tutta in legno, il primo tetto dei Gasperi. Lì trascorreva l'estate, mentre d'inverno faceva ritorno al natio paesello.

A 19 anni il baldanzoso Gasperi era già guida alpina; lo attesta un vecchio libretto dalla copertina color marrone, gelosamente custodito assieme ad altri cimeli dal nipote Otto. Il giovanotto aveva bruciato le tappe e si era rapidamente assicurato una vasta clientela, grazie anche all'amicizia con Fritz Osterreicher, il «patrón» di Campiglio. I clienti dell'albergatore erano i suoi clienti, il lavoro non mancava tanto da permettersi di trascorrere in panciolle le lunghe giornate invernali; gli scudi faticosamente guadagnati, gli davano una tranquillità.

Non ci mise molto a mettere su famiglia, a comprarsi un pezzo di terreno, ad edificare una casetta, mattone su mattone, da rimirare da lontano con giustificato orgoglio.

I suoi libretti sono zeppi di annotazioni lusinghiere. Sperticati sono gli elogi in tedesco. Frasi banali, altre convinte, altre ancora che costituiscono un documento sulla piccola e grande storia della montagna.

Nel 1900 troviamo una annotazione. «La guida Remigio Gasperi ci ha oggi accompagnato nella nostra gita in Val Amola a fissare definitivamente la località ove verrà costruito il nuovo rifugio dedicato all'illustrissimo nostro concittadino Segantini». La dedica porta la firma di Pedrotti e Guido Larcher.

Che ci sapesse fare anche in montagna lo dimostrano l'impresa sul Castelletto Inferiore assieme ad Heinemann e le altre scalate di cui non menò mai eccessivo vanto, poiché preferiva vivere tranquillo senza uscire allo scoperto. Più che gli elogi teneva all'amicizia e alla stima dei suoi clienti, instaurando rapporti durevoli, su un piano di assoluta parità.

Remigio è sempre stato un uomo libero, cortese, ma non servizievole. Trattava tutti da pari a pari e quando prendeva una decisione gli altri erano pregati di fare silenzio.

Clemente Maffei Guerét che lo conobbe dice che mai si sarebbe sognato di disubbidirgli in montagna. «Tu da qui non ti muovi» tuonava il vecchio Remigio ritenendo che un passaggio fosse un tantino impegnativo per la giovane recluta. Lo guardava con tale cipiglio da sbatter sull'attenti. «Se mi muovo - pensava il futuro conquistatore del Sarmiento - questo mi disintegra a furia di calcioni». Poi il sorriso ritornava sul volto della guida, burlone per natura e cuor contento.

Pur nella sua loquacità, tra le mura casalinghe Remigio, se abbondava nelle liriche descrizioni delle sue montagne, taceva accuratamente sugli incerti della pericolosa professione. Un giorno nella chiesa di Campiglio venne appeso un ricordo per grazia ricevuta. Lo avevano portato alla chetichella sia Gasperi che un suo cliente usciti per il rotto della cuffia, da una pericolosa avventura.

L'ultima guida della famiglia. Un banale incidente spezzò la carriera di Oliviero Gasperi

Il vetro di una porta gli squarciò una mano, tagliando tendini e muscoli: da quel giorno perse l'uso dell'arto e fu costretto a rinunciare alla montagna.

Cinquant'anni durò il continuo su e giù per le crode di Remigio Gasperi, attaccatissimo al Brenta anche se non disdegnava le lunghe escursioni sulla Presanella e l'Adamello, assecondando i desideri dei suoi clienti. Ne aveva fatto di strada dopo essere stato la guida delle imperiali maestà austriache, essere passato indenne dalla bufera di una guerra e dalle incognite delle rocce. Se ne sarebbe andato per sempre nel 1951, undici anni dopo la sua ultima ascensione, spento da una malattia che non perdona. Per lui gli ultimi quattro lustri dell'onorata carriera erano stati i più belli e i più felici avendo al fianco il figlio Oliviero, il rampollo che aveva raccolto il suo messaggio di amore alla montagna.

Se l'era tirato su pazientemente, insegnandogli tutti i trucchi del mestiere. Abile il maestro, ottimo l'allievo, a venticinque anni, quando prese moglie, già guida alpina, lanciata verso ambiziosi traguardi. Sempre assieme nella vita privata, lo erano anche in montagna. Si capivano al volo quei due, identici nel modo di pensare e di agire, mattacchioni, capaci di prendersi in giro e di architettare vicendevolmente scherzi birboni. Remigio tra tante virtù aveva anche i suoi vizietti. Per esempio era tremendamente goloso, gli piacevano soprattutto le caramelle. Un giorno assieme al figlio avevano raggiunto un rifugio; l'indomani avevano in programma un'ascensione con un paio di clienti. Remigio, mentre erano a tavola, scorse alcuni confetti che il figlio aveva distrattamente tolto fuori da una tasca. «Cosa sono?», chiese golosamente. «Cosa. Questi? Non vedi sono confetti». «Dammeli!». «Se non vuoi altro!». Oliviero passò i confetti al padre, guardandosi bene dal dirgli che erano sì dei confetti, ma di quelli purgativi e di sicuro effetto.

L'indomani successe il patatràc. Fu la più tormentosa scalata per il buon Remigio, la più divertente per il figlio che schiattava dalle risa. Ad ogni tirata di corda, appena raggiunta una cengia, Remigio Gasperi era costretto ad abbandonare il cliente, allontanarsi una traversata, per una dozzina di metri, al riparo di uno spuntone, discreto quanto imprevisto paravento. Alla fine scoppiò a ridere anche lui minacciando il figlio di tremende ritorsioni. A lungo andare, poiché era un tipo ricco di trovate, trovò il modo per rendergli pan per focaccia.

Si era fatto lui pure la sua brava cerchia di clienti, non viveva di luce riflessa. I clienti erano scelti, gente amica. Quando nacque Otto, il famoso Gottstein, al cui nome è legato uno dei celeberrimi sentieri del Brenta, lo tenne a battesimo imponendogli il proprio nome. Era un periodo felice, prospero. Poi ci si mise di mezzo la guerra ed Oliviero andò ad indossare, guida militare, il grigioverde in valle d'Aosta.

Alla fine della guerra, nella maniera più assurda gli sarebbe capitato l'incidente che lo costrinse per sempre a dare addio alla professione. Fu una porta a vetri a recidergli i muscoli ed i tendini di una mano.

Gliela rappezzarono alla meglio dei medici militari tedeschi (si era verso la fine del 1945) ma non gli sarebbe servita più a niente.

Per Oliviero fu un colpo al cuore, un trauma irreparabile. Avrebbe voluto fuggire lontano dalle montagne, si era interessato mille volte per emigrare in America dove un figlio lo aveva preceduto. Gli mancò sempre la forza di un distacco decisivo dal Brenta. Non era soltanto un alpinista di professione, ma un amante della natura. Il figlio, spesse volte gli andava incontro verso Vallesinella al ritorno dalle sue ascensioni. Portava sempre con sé grandi mazzi di fiori alpini che deponeva sulle tombe dei suoi cari nel cimitero di Campiglio, oppure li portava a casa perché in grandi mazzi rallegrassero l'ambiente. I primi tempi, quando vedeva qualcuno in procinto per partire per una escursione, girava al largo, nascondendo a stento una lacrima.

Guida emerita al pari del padre, Oliviero (chissà quanto gli costò la decisione) proibì al figlio di calcare le sue orme. Si dedicasse allo sci, diventasse un maestro. Una decisione dettata più dalle preoccupazioni finanziarie che da un intimo credo. Voleva che i Gasperi andassero avanti sereni e tranquilli, anche a costo di un sacrificio personale.

(da l'Alto Adige del 16 febbraio 1973)

gl). Franco Giovannini con Arrampicare era il massimo e Rolly Marchi con Le mani dure, hanno scritto due preziosi saggi di alpinismo storico trentino, pubblicati da ALP Vivalda Editori. Ebbene le guide campigliane Remigio ed Oliviero Gasperi hanno avuto l'avventura di vivere ancor prima quel periodo dell'alpinismo dal volto umano, quando la perla dolomitica di Campöi era nelle mani di un'elit di operatori turistici che si erano educati alla cultura mitteleuropea absburgica. Essa si ispirava ad un'imprenditoria turistica ispirata alla Gemütlichkeit (cordialità familiare), per la quale il Turista era il benservito e non l'insopportato colonizzatore. Era il tempo dei Signori ospiti dei Signori, che si interscambiavano servizi e soggiorni alla pari. Sul fine del milleottocento, il cantore di Rendéna, Nepomucéno Bolognìni, scriveva in proposito:

- A Campiglio si eresse un grandioso e splendido stabilimento alpino, che nei mesi estivi anima di vita festosa le solitudini incantevoli di questa regione, e fa correre il denaro dalle tasche colme entro le vuote -.

Di quel periodo rimane oggi con amarezza niente, nemmeno le tombe. Ma dei Gasperi, a loro gloria imperitura, rimangono le vie tracciate in purezza di stile e di ardimento nel talamo del grande castello arrampicatorio delle Dolomiti di Brenta. Tutti, o quasi tutti, i rampagaröi del Brenta, trentini e foresti, hanno almeno una volta percorso una Via Gasperi, perché come disse il geniale sestogradista Cesare Maestri: rampichi la storia dell'alpinismo.

Prime ascensioni:

Alpinismo ieri e oggi

di Cesare Maestri

Ho scritto più volte che se fossi stato un pescatore avrei voluto pescare una balena con amo e verme, perché non lo ha mai fatto nessuno.

E' chiaro perciò che sono un combattente patologico, uno che cerca di fare sempre di più e come tale mi sono più volte chiesto: Come mi comporterei se fossi un giovane che oggi fa dell'alpinismo e vuole eccellere? La risposta è scontata.

Farei quello che non hanno fatto gli altri e se lo hanno già fatto cercherei di farlo meglio. Scalerei più montagne di tutti, le scalerei in fretta, da solo, d'inverno, di notte, con una mano sola, senza ossigeno. Salirei in arrampicata libera dieci metri più in là dei miei chiodi piantati sulla Roda di Vael. Così mi accorgo che la risposta sintetizza il «mio» alpinismo. Quello che ho interpretato per oltre vent'anni.

Qualcuno vuol fare dei paragoni, chiedendosi chi è stato il migliore di tutti, ma non credo che questo confronto sia possibile, perché ogni epoca ha avuto uomini che hanno osato più di altri.

Questo credo possa dimostrare che il mondo è sempre stato suddiviso in gruppi: un gruppo che tira la volata, uno che si accontenta di ben figurare, uno che si fa trainare, uno che pedala per necessità ed un gruppo che si spaccia «per...».

Mai però come oggi l'alpinismo ha vissuto momenti di così frenetica attività: alpinisti tradizionali, specialisti di roccia, ghiaccio, himalayani, andinisti, free-climbers, velocisti, salitori di cascate ghiacciate, escursionisti a tutti i livelli ed arrampicatori sportivi, giovani che hanno superato il momento dettato dalla moda e che probabilmente si avvicineranno alla vera montagna, naturale ambiente dove si svolge l'alpinismo.

Tutte queste esperienze hanno fatto sì che molti alpinisti facciano quello che ieri era riservato a pochi.

Prendiamo l'esempio dell'alpinismo solitario.

Ieri c'erano Buhl, Egger, Aste. Oggi invece c'è una schiera di fortissimi alpinisti che fanno da soli cose incredibili.

Come si è potuto arrivare a così elevate prestazioni?

Molti sono i fattori che hanno contribuito: in primo luogo il desiderio di fare di più, di esasperare l'esasperato, visto che le passate generazioni avevano fatto quasi tutto. Inoltre il miglioramento delle tecniche specifiche, l'alto grado di preparazione atletica, la perfezione raggiunta nel campo dei materiali, dell'equipaggiamento, dell'alimentazione. La caduta di tanti tabù che impedivano a certi alpinisti di avvicinarsi alle grandi pareti, fino a poco tempo fa riservate ad una ristretta cerchia di «eletti».

Purtroppo questo salto di qualità è avvenuto molte volte a scapito della sicurezza e troppe volte è stato pagato con giovani vite, che nella foga di ricercare il risultato, avevano presuntuosamente sdegnato la preparazione alpinistica, ritenendola superflua.

Non ultimo ha contribuito l'esempio dei grandi che con le loro imprese hanno attratto molti giovani alla montagna, creando un vivaio più numeroso, dal quale si sarebbe potuto ricavare un maggior numero di atleti.

I mass-media, dal canto loro, impadronitisi dell'alpinismo, hanno attirato alla montagna schiere di consumatori con evidenti scopi di business. E non a caso hanno esportato dagli Stati Uniti il «free-climbing» (che non dimentichiamo significa «arrampicata libera») spacciandolo per una invenzione californiana; dimenticando che l'arrampicata libera e le pedule hanno costruito la storia dell'alpinismo, che come ognuno sa, è nato sulle Alpi ed è un fenomeno profondamente europeo.

Sia chiaro che questo non vuole essere un processo all'alpinismo. Processo che proprio io non potrei fare, dato che mi sono sempre battuto per la libera gestione di un libero alpinismo, dove ognuno gestisce le proprie scelte in rapporto al proprio grado di preparazione atletico-culturale, o al proprio grado di presunzione. Nessun processo dunque. Ma analisi sì.

Mi arrogo il diritto di farla, senza pretendere di fare «testo», poiché più di uno m'ha riconosciuto il merito di caposcuola di un certo tipo di alpinismo solitario e di un esasperato alpinismo artificiale. Due modi di arrampicare in netta antitesi tra loro, ma probabilmente è stata proprio questa contraddizione a conferirmi la paternità di questa eterogenea kermesse che è l'alpinismo attuale.

Qualcuno è pessimista nei confronti dell'alpinismo di oggi, ma personalmente credo che i giovani alpinisti abbiano assunto nei nostri confronti la stessa posizione che noi avevamo assunto nei riguardi di coloro che ci avevano preceduti.

Ci vorrà qualche tempo, poi queste nuove leve si apposteranno su posizioni meno radicali e capiranno che è antistorico ed irrazionale pretendere di considerare uomini e fatti di ieri in chiavi di lettura moderne.

E mai come adesso le montagne e soprattutto le palestre di roccia brulicano di giovani.

Risulta chiaro che questa corsa alle difficoltà, questo voler bruciare le tappe, questo sdegnoso rifiuto di salire le montagne anche per le vie normali, rinforza la teoria che l'alpinismo rimane uno dei pochi sport al quale bisogna accedere con notevole preparazione tecnica, psichica e con profonda conoscenza della montagna e dei suoi pericoli.

È indubbio che ogni uomo cerca attraverso l'alpinismo un «qualcosa...», secondo il proprio grado di cultura e di sensibilità. Chi cerca l'«azione», chi l'«avventura», chi la sfida con se stesso, agli altri, o alla natura, chi cerca la tranquillità, la fama, chi cerca Dio ed infine chi cerca un «perché» della vita o della morte.

Ma sotto ad ognuno di questi perché c'è sempre e comunque una briciola, o una montagna di audacia, che bene o male è sempre stata una delle molle che ci hanno fatto scendere dagli alberi, per vedere cosa c'è dall'altra parte della collina.

La bellezza dell'alpinismo è, ed è sempre stata, quella di essere uno strumento con cui ognuno può trovare una risposta ai propri perché.

Per questo potrebbe significare anche sport, dove il godimento è soggettivo e non esistono regole se non quelle dettate dall'evoluzione della sua storia.

Uno sport atipico, anarchico, dove l'uomo può ricercare la sua massima responsabilizzazione, il suo diritto alla scelta, alla auto-gestione delle proprie possibilità, nell'assoluto rispetto delle altrui libertà.

Questo significa che non è mai esistito e spero che mai possa esistere un unico alpinismo «rivelato».

Esistono e sono sempre esistite tante forme di alpinismo, quanti sono gli alpinisti che lo praticano.

Che cosa c'è infatti di più grande da poter essere «tutto»?

Soltanto la verità, ma attenzione di «lei» si disse: «Io sono colei che mi si crede».

Antologia: Val Genova

di Dante Ongari

Val Genova o Val di Genova? In una appropriata e minuziosa ricerca toponomastica Dante Ongari fa luce sulla più appropriata dizione. Da questa indagine affiorano interessanti notizie storiche su questo "seno di monte", come lo definì il Mariani che è stato forse il primo turista ad addentrarsi nell'impervio ambiente di Val Genova.

La città di Genova e la val Genova hanno lo stesso toponimo riferibile forse a dei rapporti ambientali caratteristici senza alcun nesso storico tra loro. Il toponimo «Genoa» deriverebbe da voce celtica poi latinizzata in «Ianua» con significato generico di porta o bocca o altro varco diretto tra due ambienti naturali e umani del tutto diversi tra loro. Assai diverso doveva apparire, fin dall'antichità, l'ambiente interno del popoloso porto del golfo di Genova da quello esterno dell'aperto mar Ligure, temuto dai naviganti, da caratterizzare un doppio volto paesaggistico.

L'evidente contrasto ambientale sarebbe assurto forse a emblema della città stessa con la dedica al culto protettore del mito latino di Giano Bifronte, ricordato nello stemma cittadino.

Altro evidente contrapposto ambientale, pur di natura del tutto diversa, sarebbe apparso, da sempre, quello tra la pianeggiante val Rendena animata da una fila di paesi pastorali rispetto all'incasso pauroso di val Genova, sua convalle disabitata e selvaggia, lunga quasi altrettanto. Questo «seno di monte», come lo ha definito Mariani, ch'è forse il primo turista ad addentrarsi nell'impervio ambiente di val Genova e a darne un cenno scritto, già nel 1673. Racchiuso tra la Presanella e l'Adamello, questo seno è percorso dal ramo sorgentizio principale della Sarca che sbocca in Rendena dalla soglia granitica fortemente erosa, alta quasi cento metri, nel piano alluvionale di Carisólo, poco a ovest del paese, a quota 800 m. appena. Questa soglia è la prima barra di una serie di altri quattro gradini rocciosi, più interni del fondovalle che finiscono dopo 16 km. al Pian di Venezia a 1565 m col formare altrettante rapide turbinose della Sarca.

La limitata larghezza della prima soglia della Sarca anzidetta si stende, verso est, alla solitaria chiesetta cimiteriale di Santo Stefano di Carisólo, 862 m di suggestiva esistenza millenaria. L'orlo superiore della soglia stessa, modellato dall'erosione della rapida finale della Sarca, è detto tuttora localmente «Bocca» o «Or» di Genua, presumibile corruzione dialettale della voce «Ianua» quale imbocco o orlo della porta della valle deserta e paurosa. Infatti soltanto nel piano a tergo immediato della Bocca stessa esistevano a quanto pare, fin da tempo immemorabile alcune misere baite di pastori di Carisólo di cui gli ultimi quattro ruderi sono stati demoliti quarant'anni fa per creare il grande bacino idroelettrico con il sovralzo della vecchia mulattiera e la formazione del cosiddetto «Splaz dai Carisöi».

È questo il primo e unico insediamento pastorale permanente o quasi sorto in val Genova che le antiche mappe e tutta la cartografia indicano semplicemente «Genova», senza alcun altro nome aggiuntivo.

Dalla località stessa il toponimo «Genova» è risalito per il fondovalle estendendosi all'intero bacino d'impluvio vallivo col progredire dello sfruttamento delle notevoli risorse naturali d'erba, di legname, venatorie, e da ultimo, per le attrattive alpinistiche, sportive e di parco naturale. Questo singolare solco alpino è caratterizzato dalla relativa bassa quota del suo fondovalle, situato attorno a 900 m circa, rispetto alla massima altitudine dei due versanti opposti: quella nord che, sale alla vetta Presanella con la forte pendenza media di circa il 38% mentre quella sud, che sale alla vetta dell'Adamello con pendenza media ridotta a circa il 16% soltanto. Il profondo solco vallivo pur racchiuso tutto intorno da area glaciale ha la bocca in basso aperta a S-E che crea un'oasi climatica singolare in cui ristagna l'aria umida, favorevole allo sviluppo della vegetazione.

Dalla Rendena l'accesso al ciglio della Bocca di Genua è da ritenersi aperto, con probabile ritardo, con la costruzione della mulattiera selciata in sinistra della Sarca che dal cimitero panoramico di Santo Stefano prosegue in lenta salita al vicino ciglio.

Questa viabilità era promiscuamente utilizzata da tutte le comunità proprietarie di terre di beni o di giurisdizione in Val Genova per il trasporto del legname dalla segheria dei Strólegh alla Bocca di Genua, e da quella del Comune di Massimeno al Pian di Fontana Bona, entrambe scomparse nel secolo scorso. Poi la SISM ha costruito la strada asfaltata in diramazione dal bivio di Carisólo dalla strada statale per Madonna di Campiglio che, protetta da adeguato paravalanghe sul rio S. Martino, porta alla menzionata opera di presa degli impianti idroelettrici dal Sarca al lago di Molveno. Da questa presa, fino all'ultimo circo di valle interno ai Zapéi del Matàrot, 1700 m circa, oltre malga Bédole, la viabilità di val Genova, di quasi 16 km, è stata assai migliorata compresa l'erta salita di Scala di Bò; è tutta in sinistra della Sarca eccetto che nel tratto della rapida della Ragàda da dove passa in destra per circa 3 km a monte del ponte di Santa Maria.

Dal lato storico anziché «di Genova» la valle avrebbe dovuto chiamarsi «di Brescia» in quanto il fondo valle nella parte centrale più piana e sfruttabile è stato per secoli sotto la giurisdizione della chiesa di Santa Maria di Brescia. Il confine della detta pertinenza bresciana risulta chiarito dall'atto notarile del 21 maggio 1244, precisato dagli arbitri delle comunità di Sopracqua di Rendena (Carisolo, Pinzolo, Vadaione, Giustino e Massimeno). Nell'atto si afferma che la detta giurisdizione ecclesiastica bresciana comincia dal piede della rapida della Sarca della Ragàda presso l'attuale ponte anzidetto di Santa Maria e finisce al piede della cascata di Nardìs lungo tutte due le sponde della Sarca e, verso l'alto, sale fin sotto le pareti dirupate della valle senza precisazioni di quote.

Su questa terra era tuttavia concesso l'uso di transito promiscuo a favore delle comunità di Sopracqua anzidette a cui, cinquant'anni dopo, si è aggiunta anche la comunità di Caderzone. Cessata la grande giurisdizione bresciana, estesa su circa oltre 200 ettari, talune prerogative feudali in val Genova sarebbero passate alla Pieve di Lomaso che poi ne avrebbe fatto la cessione a comunità varie di Bleggio e di Rendena.

Per la storia della valle interessa anche la ricerca a quale delle due chiese bresciane dedicate a Santa Maria, erette entro le mura cittadine nell'alto medioevo, faccia riferimento la giurisdizione. Una sarebbe la chiesa di Santa Maria in Solario facente parte del complesso monumentale paleocristiano di San Salvato; e, tramutato poi nel ricco monastero di Santa Giulia a cui appartenevano vari beni anche in Giudicare, sia sul monte Serol di Condino che in comune di Pinzolo e in altre località. Al monastero stesso talune di queste prerogative sembrano durate a lungo anche dopo la fine della giurisdizione in val Genova per cui non sembrerebbe essere questo l'ente religioso titolare del beneficio territoriale in esame. Altra ipotesi più motivata è quella espressa dallo storico Ugo Vaglia dell'Ateneo di Brescia che identificherebbe la chiesa nello splendido vecchio duomo della città, detto la Rotonda, dedicato in origine a Santa Maria Maggiore e allora sede della chiesa vescovile bresciana. La giurisdizione conferita a questa chiesa di probabile istituzione longobarda o franca sarebbe divenuta precaria col passaggio delle Sette Pievi giudicariesi da Brescia a Trento, forse già nell'845 o comunque reso definitivo con la fondazione del potere temporale del Comitato vescovile tridentino, nel 1027. Risulterebbe pertanto più conciliante l'atteggiamento assunto allora dalla diocesi di Brescia col trasmettere dei diritti feudali propri alla Pieve di Lomàso che non la rigida difesa giurisdizionale sostenuta fin dal XIII secolo dal Capitolo vescovile di Verona sui terreni dei paesi trentini di Zuclo, Bolbéno, Breguzzo e Bondo pur contro le richieste delle popolazioni stesse. Di questo contrasto perdura ancora il toponimo di «val del Vescovo» dato alla valletta laterale sud di val di Breguzzo sui monti dell'Adamello. È da supporre tuttavia che la val Genova con i suoi vastissimi circhi di monte su ambo i versanti sia stata bonificata per l'alpeggio molto prima dell'intervento feudale della chiesa vescovile bresciana da parte di pastori risaliti a ritroso della Sarca e del Chiese col dare luogo a degli insediamenti stabili delle comunità di Rendena, forse già prima della dominazione latina come risulterebbe da radicali toponomastici di acque e di piante. Non sono mancati in val Genova nemmeno singoli beni allodiali, esenti cioè da livelli feudali o comunali, come si rileva da atti di compravendita tra privati di terre specie in comune di Carisolo e di Massimeno.

La lunga serie dei passaggi di proprietà e di altri contratti soprattutto d'affittanze di pascoli in val Genova è stata rilevata in numerosi archivi dall'esperto ricercatore solandro Silvestro Valenti pubblicata tra i suoi numerosi, documentati scritti di storia locale.

Sono 138 documenti pubblici che decorrono dal 1194, anno del primo scritto in Rendena, fino al 1904. Gli atti sono stesi in latino fin quasi all'inizio del secolo scorso da notai in massima parte giudicariesi in cui il toponimo Genova ricorre una cinquantina di volte in forma varia: vallis Zenuae, valle Cenoa, valle de Genoa, val Genua. Nel caso di notai di Rendena è spesso riportata la dizione d'uso locale ricorrente «val Genoa» senza la preposizione «di» che avrebbe significato di proprietà o almeno di dipendenza dalla città di Genova da cui è del tutto indipendente.

Inoltre quando questo toponimo è preceduto da nome comune, negli atti scritti manca quasi sempre l'inutile doppia ripetizione della preposizone «di» per cui non è, ad esempio, usata la forma «via di val di Genova» ma bensì «via di val Genova».

All'opposto della semplice dizione d'uso valligiano «val Genova», la cartografia e la letteratura alpinistica del secolo scorso, ha usato spesso la dizione giuridica latina poi italianizzata «valle di Genova» che contrasta con la realtà e soprattutto con la consuetudine toponomastica d'uso sui monti di Rendena in cui la preposizione «di» ne indica l'appartenenza. Strembo, infatti, quale comune proprietario della maggior parte degli alti pascoli di val Genova, aveva deliberato di adottare ufficialmente la sola dizione d'uso locale «val Genova» inviandone la delibera alla competente autorità preposta che non sembra averne preso buona nota. La stessa dizione breve d'uso corrente è stata pure adottata dal Comitato toponomastico del Touring Club Italiano nella ristampa della Carta turistica 1:50.000 Adamello - Presanella per l'edizione sci-alpinistica del Club Alpino Italiano, del 1968. D'allora la cartografia ufficiale dei detti enti turistici usa correntemente la forma toponomastica abbreviata «val Genova». Così nei volumi della serie «Guida Monti d'Italia» tra cui la «Presanella» di D. Ongari, edita nel 1978 e «Adamello I» di P. Sacchi, edito nel 1984. La stessa forma è usata nella nuova «Guida alpinistica e escursionistica del Trentino occidentale» di A. Gadler, edita nel 1981. Inoltre la dizione stessa è pure ricorrente nella recente storiografia della guerra sull'Adamello e in vari periodici d'alpinismo e di scienze naturali. Questa dizione abbreviata è pure stata adottata dalla classica casa editrice germanica d'alpinismo Rudolf Rother Verlag di München nella recente guida dei monti: Adamello - Presanella - Baitone Gruppe di H. v. Lichem. È anche da segnalare il rispetto toponomastico delle pubblicazioni recenti tedesche che di norma usano l'integrale dizione italiana del T.C.I. e soltanto di rado «Genovathal», traducibile comunque «val Genova».

A conclusione di questa ricerca toponomastica si può affermare che tanto la dizione letteraria «valle di Genova» quanto quella locale «val Genova» sono entrambe storicamente valide. È tuttavia preferibile usare la seconda forma più viva, esatta e breve soprattutto nell'abbinamento con altri nomi comuni. Esistono anche altre ipotesi sull'origine del toponimo «Genoa» che non sono finora altrettanto documentabili come quelle qui prese in esame.

Preambolo intorno ad un turista tipo

di Giuseppe Leonardi

Ci sono alpinisti, rocciatori e sestogradisti che sono chiamati a dare il loro contributo di esperienza ai corsi di addestramento per manager (dal latino mánus ágere = usare le mani, darsi da fare). É abbastanza ovvio che un manager della Parke-Davis o il direttore di una filiale della Cómit o un cardiochirurgo di Borgo Trento non possano salire la Via delle Guide sul Crozzón di Brenta. Però, su vie più accessibili, mettendo alla prova sé stessi su pareti relativamente alte ed in luoghi appartati e tranquilli, possono trovare delle nuove idee stimolanti. Possibilmente (sarebbe la condizione ideale) a piccoli gruppi. Bastano pochi giorni fuori dal loro ambito di lavoro per sentirsi mancare il terreno sotto i piedi e aprire gli occhi. Ciascuno di loro ha bisogno di pause rigeneratrici, perché la natura è creativa, è costantemente in movimento, è sempre nuova.

I. Selvatichezza. C'è un tipo di turista che predilige la vacanza in Rendéna, perché le montagne che la circondano, al di sopra dei pascoli più alti, costituiscono un frammento delle ultime grandi riserve di natura non antropizzate ed ancora presenti nelle Alpi Rétiche. Pari al deserto, anche se verticale, le privilegia perché luoghi selvatici nei quali può ancora misurarsi con la solitudine, col silenzio, con l'integralitá di un rapporto spazio-temporale e puó volontariamente escludersi dalle protesi che la organizzazione turistica urbanizzata gli propone ed impone con conseguenze narcotizzanti. Ha già sperimentato che l'alta quota gli propizia intensi investimenti affettivi, perché la utilizza come crogiuolo nel quale puó liberare il proprio vissuto dalle scorie sgradevoli mediante i pericoli evitati, i rischi calcolati, i disagi accettati e le fatiche volontariamente subite.

II. Immobilitá. Mentre le vette in alto si nascondono spesso tra i cumuli delle nuvole e in basso sprofondano le fondamenta nelle viscere della valle, a quel tipo di vacanziero mostrano invece i contraffórti rocciósi, i costóni, gli spallóni, i pulpiti ed i torrióni, sui quali egli intravvede l'asse stabile di salita alla vetta. Intuisce la possibilitá della liberazione dalla quotidiana danza macabra verso gli spazi celesti; tenta la fuga dal modello illusorio della perfezione tecnologica con l'ascesa alla vetta, assurta a simbolo ierofanico, ossia di rivelazione folgorante della luminositá sacrale degli spazi immensi.

III. Dialogo. Lungo l'asse valle-vetta, quel tipo avverte il suo agognato coinvolgimento nella microstoria locale della saga alpinistica. Sa che essa ha avuto un inizio esplorativo, una sua evoluzione acrobatica, una sua mitologia épica, descritta in tante pagine con episodi avventurosi sulle pareti, lungo gli spigoli, nei diedri, sulle vette. Storia ancora viva e nella quale egli può inserirsi per ripercorrerne un capitolo o per scriverne uno nuovo. Possibilitá dunque di dialogo con quella scritta e quella scrivibile, storia minore, ma non insignificante.

IV. Turbativa. Il nostro tipo avverte che l'affluenza è ancora alta, soprattutto nell'alta Valle, ma con risultati talvolta devastanti a causa dello sfruttamento intensivo e pregiudizievole delle risorse naturali e culturali. Sbancate le tane degli orsi liberi, gli stessi ora sopravvivono nei recinti, guardati a vista e foraggiati dai funzionari pubblici.

V. Disaffezione. Nella previsione, non remota, che una disaffezione di quel tipo di vacanziero, poco appariscente ma influente, possa provocare una perdita di immagine e di guadagni economici, esponenti ambientalisti di Austria, Francia, Germania, Italia, Slovénia e Svizzera, hanno costituito una Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi (CIPRA), che si riunisce in permanenza. C'è la convinzione che il presidente gardenese Helmut Moróder, avrà molto da lavorare per impegnarsi contro i pregiudizi duri a morire, ma che a dargli una mano saranno sicuramente, fra non molto, i montanari residenti, quando avranno capito l'antífona, ossia che l'antiambientalismo oltre che non fruttare più, danneggia irreparabilmente l'intera economia delle Alpi, Rendéna compresa.

A i ha ladà

Giuseppe Leonardi

La Rendéna costituisce la parte superiore del grande complesso vallivo, che la Sarca percorre scorrendovi da nord a sud. É un sistema nel quale appare evidente l'opera geologica di due millenari plasmatori del paesaggio retico: il ritiro dirompente delle lingue glaciali e l'azione erosiva dei torrenti alluvionali. Rendéna inizia nella piana di Carisöl dove sfocia la Sarca di Génua e dove riceve l'affluente formato dal confluire delle Sarche di Nambrón con la Sarca di Campöi: ai piedi della Cima Lancia inizia quindi il primo tratto del corso della Sarca vera e propria. Lungo il corso essa riceve a Giustín in sponda sinistra il torrente Flanginéch; in sponda destra il Bidù di Borzách e a Vich il Bidù di Sán Valentín; più sotto riceve a Virdisína i torrentelli la Maftína ed infine `l Finál.

Risalendo la Valle dalla stretta della cappella di San Vilio sono disseminati a rosario, lungo la vecchia carrozzabile, 22 paesi: Virdisína, Vílla, Javré Daré, Vích, Pilùch, Borzách, Spiáz (la Pléf), Chés, Fist, Mortás, Stremp, Bozanách, Cadarciùn, Giustín, Masimén, Vadaión, Pinzöl, Bafdín, Carisöl, Mavignöla, Campöi.

Due sono principalmente i legami millenari che plasmano in un unicum i paesi: la religiosità e la lingua.

La religiosità. Fino all'epoca medioevale i paesi erano riuniti sotto un'unica Pieve, al centro della Valle, dove remote tracce di luogo di culto e successivamente l'esistenza di un nucleo presbiteriale, fissarono il sito del martirio di San Vigilio, vescovo tridentino e apostolo della valle. Successivamente sorsero altre chiese, una in ogni paese, delle quali le più antiche sono Sant'Antoni di Pilùch, San Vili di Pinzöl, Sant Stefan di Carisöl. Quest'ultime sono legate ad un culto praticato per un millenio e sono state erette lontane dai luoghi abitati, contigue all'area cimiteriale ed in evidente simbiosi fra più nuclei abitati. Omogenee sono le manifestazioni delle pratiche religiose: le feste patronali, le processioni, il culto dei morti, i raduni religiosi sulle alte terre presso le cappelle votive: il santuario della Madonna di Campöi, la cappella della Madonna del Potere, la cappella di San Giuliano, l'eremo di San Martino.

La lingua. I 22 paesi costituiscono una specifica area linguistica di cerniera tra quella ladino romancia posta a nord-est e quella lombarda posta a sud-ovest. Nel lungo scorrere dei secoli l'etimo delle parole ha subìto un travaglio inconscio generazionale ed un impreziosimento, dettati dal gusto della specificità, in funzione del nucleo abitativo di nascita. E nella commistione durata oltre un millennio prevalse la parlata longobarda ed il risultato è quello di un'articolazione di un comune idioma, caratterizzato da un dato specifico: l'essenzialità lessicale non dotta. Essenzialità perché la gente per capirsi nei loro bisogni esistenziali, negli scambi e nel lavoro quotidiano, abbisogna di un numero limitato di parole, alle quali poter attribuire ampi significati a seconda dell'articolazione, della fonetica e del tono. L'arcaica lingua parlata rappresenta quindi un unicum genuino, ma non uniforme, perché evidenti, paese per paese, giungono tutt'oggi all'orecchio, le sfumature fonetiche della pronunzia e del significato. Ed in ciò va evidenziato il contributo silente, mai sufficientemente apprezzato e premiato, dell'elemento tipicamente più conservatore dal punto di vista linguistico nel contesto familiare: la domina, la donna, la folna, la fumbla. Nella storia dell'umanità, l'ancilla è l'insostituibile docente della tradizione orale e rimane tutt'oggi la garante della lingua legata al focolare. A lei e solamente a lei va attribuito il merito dell'istruzione primaria al bambino. La sua lingua è la più usata, è la più comprensiva; è quella che ognuna poi arricchisce di messaggi consci ed inconsci, di inflessioni particolari, di costruzioni lessicali e grammaticali anche inventate al momento, quindi in un continuo divenire; la sua è la più gaia di risonanze affettive, è dettata dalle situazioni contingenti, quindi continuamente aggiornata. La parlata materna costituisce il patrimonio orale privato nell'intimo del nucleo familiare, piccolo o grande che sia.

É vero, la sua lingua non fu portatrice di valori universali, perché rivolta ai bisogni primari della vita; fu limitata all'espressione umile e peritura in classi sociali subalterne, in vicende che si sono consumate nel quotidiano di idealità comunitarie ristrette a territori angusti e capaci al massimo di produrre una tradizione orale, fatta di leggende, di canzonieri, di proverbi che si ritrovano simili in altri àmbiti linguistici, in tutte le altre comunità umane.

I protagonisti di tali vicende si sono confusi nella massa degli umili: contadini, malgari, pastori, braccianti, artigiani, soldati, emigranti. Di essi anche un analfabeta riusciva, nella lingua familiare, ad esprimere con grande efficacia una varietà di espressioni, di modi di dire, di paragoni, di proverbi popolari, di aforismi, di sentimenti, di umori spesso coloriti da allegorie.

Proprio per ciò, l'unicum si stempera nella mappa delle 13 repubbliche linguistiche, che accorda alla valle un variegato ventaglio lessicale, non immune da prestiti dalla lingua tedesca.

Ma se nella parlata familiare il popolo di Rendéna (in compagnia con tantissimi altri) si esprime con un lessico scarno, nella intitolazione topografica vanta uno spiccato gusto ad una impensabile ricchezza espressiva. Gli oronimi sono tanti, onomatopeici, sparpagliati dappertutto in valle e sui monti, qualche volta anche lontano dalla displuviale del bacino della Sarca, in relazione coi possessi di boschi, malghe e pascoli, molto sviluppati anche in altre vallate. La denominazione del luogo mediante i toponimi, la sua individuazione, la circoscrizione, furono essenziali per la sopravvivenza del contadino di montagna e per l'economia della sua attività lavorativa: la coltivazione dei campi, lo sfalcio dei prati, lo sfruttamento del pascolo nelle malghe, dell'esbosco, dell'estrazione di ghiaia e sassi nelle cave. La sua sopravvivenza imponeva inoltre l'individuazione delle sorgenti d'acqua, il rifornimento idrico a distanza, la costruzione dei tovi nei quali far scorrere la legna ed il legname e dei sentieri di collegamento; la costruzione di strade per i trasporti; il posizionamento dei confini e dei termini. Con una parola: la perimetrazione dei diritti patrimoniali di uso civico e privato nel territorio rurale.

Tutto ciò era individuato ed indicato specificatamente dalla ricchezza dei toponimi. La corretta pronuncia fonetica, la conoscenza lessicale del significato arcaico, l'individuazione della provenienza etimologica e morfologica, costituiscono i beni immateriali della cultura locale, le testimonianze tramandate della storia minore, il patrimonio delle memorie più minute del passato, che sono il fondamento del presente e la garanzia della continuità culturale futura. Per la salvaguardia, un omaggio va tributato agli umili, che hanno lavorato in silenzio, controcorrente, perché la parlata non venisse spodestata dalla lingua imperante ufficiale. Su tutti spicca la figura materna, prima depositaria delle radici linguistiche, che ha saputo resistere alla moda, alla tentazione, magari anche a prezzo di irrisioni, di italianizzare a tutti i costi anche la dialettica nei rapporti in famiglia, con i figli in particolare.

Si sa benissimo che l'espressione familiare non gode nell'oggi buona salute, come testimoniano le statistiche elaborate a livello scolastico. Una situazione dovuta solo in parte ai flussi migratori ed alla frequentazione turistica. É piuttosto attribuibile alle conseguenze degli arrendevoli comportamenti negli anni 1970/80 (gli anni della grande ricreazione ludica e del boom economico) e della ripulsa nei confronti della cultura agricola e montana di valle.

Maggiore onore va dunque a quelle ancelle del focolare domestico, che sono riuscite a tenere durevole l'insegnamento dell'idioma familiare. A proposito dei flussi migratori vanno ricordate anche quelle spose, che venute da fuori (li dóni foresti) si sono integrate in modo mirabile con la realtà locale, ne hanno capito il valore e con ammirevole volontà ora parlano l'idiòma locale. Sono state le spose, le mamme e le nonne, quelle rimaste aggrappate al patrimonio linguistico indigeno e quelle animate da profondo rispetto per la cultura del nuovo ambiente, le migliori alleate lungo il difficile percorso della resistenza alla omogeneizzazione. A loro soprattutto, va il merito di aver salvato un patrimonio non rinnovabile. A loro va il riconoscimento di aver difeso il bisogno di Heimat, di aver capito che per poter amare l'Heimat, bisogna renderla amabile. E non si tratta solo di amare lo stupore metafisico della placida Sarca, dei pascoli rigogliosi, delle baite pensili, dei torrenti scroscianti e delle selve macchiate del rosso larice. Ma di amare un tipo di gente, che vive in una certa terra incassata tra incombenti guglie cineree e che si rende responsabile d'una vita d'insieme.

Se nella valle il progresso economico si è mantenuto al pari di tante altre, è perché i suoi abitanti hanno tratto dalla dura condanna biblica alle fatiche del lavoro, il vitale motivo di riscatto. Circondati tutt'attorno da provvidenziali bellezze naturali impagabili, da oltre un secolo hanno tratto dalla visitazione e dal soggiorno turistico un'innegabile ricchezza economica. Ma qual'è l'attività produttiva primaria che nel duemila potrà continuare ad ancorare la gente alla valle e che garantisca ai giovani un dignitoso futuro? Non certo l'allevamento del bestiame che da decenni è stato oggetto di ripulsa ingrata e vergognosa! E in generale, il comparto turistico possiede lo slancio vitale per incrementare il fatturato?

Purtroppo negli anni 1980, i responsabili delle scelte promozionali hanno commesso l'errore imperdonabile di non aver sufficientemente afferrata l'occasione per promuovere e sviluppare un'opzione vincente: quella di assecondare e premiare le motivazioni naturalistiche, alpinistiche e storiche di clientela di rango (che ha fatto la scelta di altre stazioni turistiche), attraverso la quale incrementare e consolidare la visitazione turistica in Rendéna.

Al prüm mistér da la prümavéra l'era cürar al prà: nu duìva rastàr gni sass, gni batarìi; al sit al duìva éssar bel net. Tra maç e giügn si scuminzava a sagàr al fin. Sa l'sagàva tüt a man, cu la fafç. Ogni tant bisognàva passàr la lama cu la preda ca `l sagadùr al tignìva na `l so cudér, cu l'acqua, tacà a la cintüra. A s' sagàva da li quatru da la dumàn a li nöf quant ca l'era `l mumént da spàrgiar li antàni o da disfàr fo' mücli da la sira prüma. Vers li üna s' uftava `l fin e a li quatru s'al müclava par la not e s' mitìva na li cuerti col söc. Li cuerti plini e ben ligàdi sa li purtava a casa e cu la ciréla sa li tiràva sa la plessa. Lì a s' disligàva li cuerti e s' müclava al fin. Dop cina a s' plantava la platùla in tera e, cu `l martél, a s' batìva la fafç par avérgala mulàda e pronta al dì dop. A i prüm d'agùst a si scuminzàva a sagàr al còrt, e in utùbar al terzöl. In nuèmbar a s' spargìva `l ladàm, purtà na i pré cu `l caröt o cu la böna.

Alura la gent cu `l nas par aria la disìva: - A i ha ladà...-

Benvenuto Stambecco! Willkommen Steinbock!

Giuseppe Leonardi

Tra tutti gli animali, l'uomo è quello che corre maggior pericolo di estinzione. Perché mentre noi ci preoccupiamo di proteggere i panda e le foche, i panda e le foche non si preoccupano di proteggere noi, anzi vivamente sperano che ci estinguiamo con tutte le nostre atomiche, pesticidi, defoglianti, petroliere e villaggi vacanze.

Stefano Benni

La Compagnia dei Celestini

Maggio 1995. Nella Valle di San Valentino, posta in sponda destra della Sarca, parallela alla Val Borzágo a settentrione e alla Val Bregúzzo a meridione, in località Malga Praína a quota 1567 m, un avvenimento storico è avvenuto al cospetto della catena dei monti dei Corni Vecchio e Alto e del Monte Spazzá.

L'avvenimento capita cinquant'anni dopo dal quel 18 maggio 1945, quando il Prefetto di Torino nominò commissario straordinario del Parco del Gran Paradiso il trentino Renzo Videsótt: un sestogradista che amò il rischio in arrampicata, un veterinario che si ficcò in testa una sfida: fare tutto il pensabile e non soltanto il possibile per salvare dall'estinzione gli stambecchi del Parco del Gran Paradiso, ridotti nelle Alpi a soli 419 capi nel 1945.

Cinquant'anni dopo quell'avvenimento, il nobile mammifero, artiodattilo, ruminante della famiglia dei bovidi è stato reintrodotto, per iniziativa del Servizio parchi e foreste demaniali della Provincia Autonoma di Trento, nel Gruppo dell'Adamello, dopo circa duecento anni dalla sua eliminazione.

Dieci giovani esemplari di stambecchi (Steinbock) provenienti dal Parco Naturale Argentéra in Provincia di Cuneo (ora Parco Nazionale delle Alpi Marittime), pascolano liberi e protetti sulle balze granitiche della Vallína e del Dossón nel versante meridionale dell'Adamello. Sempre in maggio, sull'altro versante occidentale del massiccio Adamello, trenta stambecchi sono stati rilasciati al Ponte del Guat nell'Alta Valle Camónica. L'iniziativa fa parte del progetto Stambecco Lombardia che ha preso avvio all'inizio degli anni Ottanta per iniziativa dei settori Ambiente, Agricoltura e Foreste Regione Lombardia, con la consulenza scientifica del Dipartimento di Biologia dell'Università di Milano, sponsor l'azienda ISAM di Darfo.

Lo stambecco era fino all'anno mille equamente distribuito su tutto l'arco alpino. Nel Trentino occidentale era presente fino alla fine del 1700. Poi la caccia accanita ne distrusse la razza.

A partire dagli anni 1970 è protetto su tutte le Alpi ed ora è presente con circa 30 mila esemplari, suddivisi in grandi colonie che vivono in nicchie ecologiche specifiche in territorio italiano, francese, svizzero ed austriaco.

Rendéna, con un articolo a firma di Vittorio Ducoli, direttore del Parco Adamello Regione Lombardia, ha già anticipato i perché della reintroduzione dello stambecco:

I dieci novelli stambecchi, per ora sparuto drappello giudicariese, cugini dei trenta camúni, immessi contemporaneamente, vanno ad aggiungersi ai 154 capi della colonia ad Oriente nei monti Monzóni della Val di Fassa e ai 1750 della colonia ad Occidente nella Val Camónica. Allora, ben tornato stambecco e lunga vita. Attenderemo di conoscere, fra qualche anno, se le arie del Caré Alto e del Re di Castello ti hanno fatto bene. Per quanto attiene la proprietà degli stambecchi liberati, essi non sono "res nullíus" (cosa di nessuno). Infatti nella coscienza della popolazione la tutela e la valorizzazione della fauna selvatica risponde all'esigenza ormai pressantemente avvertita, della necessità e dell'urgenza di predisporre una disciplina complessiva, che saldi la necessità della conservazione e della difesa del patrimonio di specie, degli ecosistemi e degli ambienti naturali del Paese. Questo complessivo intreccio di interessi mette in luce l'aspetto peculiare e sostanziale della legge, quello cioè di riferirsi al principio base per cui la fauna selvatica, costituendo patrimonio indisponibile dello Stato, deve venir tutelata, nell'interesse della comunità nazionale. Va a questo aggiunto che trattandosi di elemento costitutivo dell'ambiente trova dignità e dovere di tutela nel disposto degli articoli 9 e 32 della Costituzione.

Bibliografia

Col canto difesero la Patria

Giuseppe Leonardi

Non mi risulta che in Rendéna sia stata raccolta e commentata nelle sedi opportune la provocazione di Bepi De Marzi, l'autore del Signore delle Cime, il quale sul quotidiano cattolico l'Avvenire ha lanciato l'allarme: le compagnie di canto invecchiano e rischiano l'estinzione, dopo il Duemila non canterà più nessuno. E l'articolo aveva un titolo che pareva non ammettere repliche: Requiem per il Coro. All'Avvenire il maestro De Marzi ha inoltre dichiarato che "per salvare il coro dall'estremo silenzio ci vorrebbe un ritorno alla poesia, alla bellezza, alla capacità di vivere la naturalezza della cultura; i cori non lo sanno più fare, non hanno più la capacità di interpretare il proprio tempo: i giovani seguono altre strade, l'inventiva dei compositori s'è inaridita o fossilizzata su schemi datati. Perciò la coralità sta morendo e per salvarla ci vorrebbe un miracolo".

Nella dichiarazione profetica di De Marzi c'è del vero e per capirne il senso, occorre risalire ai primordi dei canti alpini, all'epoca dei quali - studiosi e critici - sono in accordo su di un concetto: in principio era la creatività.

Il principio è riferito al tempo in cui isolamento ed emarginazione, sudditanza e soggezione condizionavano la cultura dei nostri paesi ed i canti alpini alimentavano e promuovevano l'aggregazione; a quando l'idealizzazione degli amori giovanili, l'allegria spensierata nelle feste paesane, il rito faticoso della fienagione sulle terre alte, la nostalgia dell'emigrante, il ricordo del compagno caduto in montagna, immisero nel filone del melos popolare i temi della saggezza della gente, ricca di spontaneità, di inventiva e di ingenua e talvolta drammatica improvvisazione. Al tempo in cui parole e melodia, cultura dell'ambiente e stile di vita erano un tutt'uno.

Si esprimeva allora la civiltà musicale dell'impero absburgico, la civiltà mitteleuropea dell'austriaco Franz Peter Schubert (Lichtenthal, 1797 - Wien, 1828) e del tedesco Johannes Brahms (Hamburg, 1833 - Wien, 1897), che rifluiva sulle naturali abitudini canore della popolazione alpina, insegnando poi, dopo la redenzione ai conquistatori italici (popolo di cantori da melodramma), le virtù della musica da camera: l'equilibrio, la disciplina, l'omogeneità, il senso collettivo del canto corale nella rinuncia alla sopraffazione individualistica per l'amore del risultato d'insieme.

In quel tempo si inserisce anche il misfatto storico e l'inutile strage causati dalla Grande Guerra 1914/18, che diede origine ad alcune fra le più genuine melodie conservate dalla coralità popolare. Cantate nelle retrovie dai soldati in attesa dell'ultimo assalto, battezzate dal sangue dei caduti, sublimate dalla miseria dei prigionieri in Russia, le canzoni rappresentarono, dopo il rientro dei belligeranti nell'Heimat, un patrimonio incancellabile, autentico e sofferto.

Gli anni passarono e le canzoni armonizzate da esperti musicisti appassionati divennero il repertorio dei cori di montagna.

É naturale, pertanto, che ogniqualvolta mi accade di partecipare al canto o assisto al concerto del coro, la mia mente evochi struggenti rimandi a luoghi e fatti.

24 agosto 1915, il massacro del Bassòn. É la notte del plenilunio sul fronte di guerra degli Altipiani di Vézzena. Le Brigate Ivrea e Treviso del Regio Esercito italiano attaccano di sorpresa il Costesín ed il trinceróne del Bassón, dove stanno asserragliati i difensori dell'Impero austroungarico. Il Battaglione Bassáno attacca tra la Cima Vézzena e il munitissimo Forte Verle. L'esito dell'attacco in forze è per i reparti attaccanti italiani inconcludente e tragico. Scrisse Fritz Weber*:

- Adesso i primi italiani emergono dalla nebbia. Sono Alpini. Si fermano incerti nella zona battuta, quando li coglie una nuova valanga di piombo e di ferro. Qualcuno grida, fa dei gesti, cade a terra colpito. Un altro si piega in due e cade sui reticolati, tenendo sempre in mano il fucile. Un'intera fila è falciata dalle mitragliatrici. Stramazzano, tenendo ancora strette in pugno le lunghe tenaglie. Sul pendío davanti al forte Verle, dove mi trovo, si aggira un cappellano militare. Egli va da un caduto all'altro. Dalla foresta escono soldati della Sanità con le barelle. Il primo assalto è respinto. Esso fu sferrato quasi esclusivamente dagli alpini del Battaglione Bassáno era diretto contro il settore compreso tra i forti di Cima Vézzena e Vérle. Lungo il pendio gl'italiani riuscirono a penetrare in uno dei punti di appoggio non occupati da noi. Ne vennero però ricacciati poco dopo. Più tardi, vi trovammo abbandonati numerosi strumenti musicali: gli Alpini erano venuti all'attacco al suono delle loro canzoni.

Dolomiti d'Ampezzo*

Nel luglio 1916, secondo anno di guerra, nelle prime linee italiane sul ciglio di Fontana Negra, posta fra la Tofana di Roces e la Tofana di Mezzo nelle Dolomiti Ampezzáne, fervevano gli ultimi trasporti delle armi e del materiale occorrente per l'azione di attacco. Alle ore 16 tutti i reparti si trovavano ai posti prestabiliti ed il capitano Rossi rivolse poche parole d'incitamento agli Alpini pronti all'assalto. Alle ore 22 la fanfara della 94a compagnia, al riparo di alcuni massi, iniziò un allegro concerto: inni e canzoni alpine suonate con un crescendo, che volevano distogliere l'attenzione degli Austriaci dal prevedere un attacco. Il maestro di fanfara Giuseppe Sacchét ebbe anche la sorpresa di udire, subito dopo l'esecuzione, un incitamento con un:Brafo Pepi, proveniente dalle linee austriache. A questo episodio si riferisce il poeta Piero Jahiér quando scrive:

- E la fanfara suonò ancora i suoi ottoni nella notte tremenda finché durò l'assalto, siccome ha detto il capitano Rossi della 96a Monte Anteláo: ora aiutate i vostri compagni a morire bene.

E Jahiér conclude:

- Non sono morti nei ringhi delle palle tedesche. Sono morti negli squilli delle trombe italiane e riposano nell'Inno degli Alpini.

Nell'inverno del 1916, un'enorme valanga era caduta sul Masaré di Fontana Negra ed aveva investito i baraccamenti del battaglione Monte Anteláo, seminando morte e distruzione. Seguí una lotta frenetica degli scampati per disseppellire i morti. Quando ritrovarono vivi tre Alpini, la fanfara dell'Anteláo suonò la Marcia delle Tofane in segno di giubilo per lo scampato pericolo.

Domenica, 13 agosto 1916*. La 96a compagnia dell'Anteláo, fanfara in testa, parte dal Castelletto e si accampa nell'abetina dei Vervéi, pronta all'assalto.

22 maggio 1917, ore 22.10. Una potente mina austriaca fa saltare in aria la trincea posta sulla Quota 2.668 m, un presidio degli Alpini, nelle Dolomiti del Lagazuói. Erano stati usati dagli austriaci 240 quintali di esplosivo, contenuti in 1.033 cassette trasportate a spalla. Il presidio italiano fu annientato sotto un cumulo di macerie e di terra bruciata. Un'ora e mezza dopo l'esplosione, gli Alpini ingaggiarono un furibondo attacco per il possesso di quanto rimaneva e giunti per primi, presidiarono le rocce ancora fumanti. Fu allora che da un angolo della Cengia Martini si levò un suono di fanfara:

E tu Austria che sei la più forte

fatti avanti se hai del coraggio.

Subito dopo alcune voci intonarono spavalde quel canto che si diffuse per tutto l'anfiteatro roccioso, trasformandosi in un coro di cento, mille voci vibranti che fecero echeggiare tutta la vallata.

Giugno 1918, terzo anno di guerra, prima linea del Piave. Il fiume divide le armate contrapposte: l'argine sinistro è difeso dagli Austriaci, l'argine destro dagli Italiani e il corso dell'acqua è terra di nessuno. Scrive ancora Fritz Weber:

- Durante la notte scorsa abbiamo fatto fuoco contro le posizioni italiane per uno strano motivo. Dall'altra parte del Piave le gente cantava, come l'aspirante ufficiale Nehr è venuto ad informarmi. Si trattava di un coro vero e proprio, formato da molte centinaia di persone. Quando ho appreso il motivo per il quale ero stato svegliato, ho dato all'aspirante il consiglio di mettersi a cantare pure lui e di non disturbarmi più per schiocchezze del genere. Forse, gli italiani avevano fondato una nuova società corale, che faceva le prove durante la notte. Nehr è rimasto male e se n'è andato. Dopo dieci minuti, eccolo però di nuovo:

- Gl'italiani - mi ha detto - continuano a cantare, benché una nostra batteria da campagna abbia aperto il fuoco contro le loro posizioni.

In realtà, ho sentito anch'io in quel momento il sibilare dei proiettili e ho visto alcuni razzi alzarsi sopra il fiume.

- Che cosa vedi? - ho chiesto all'aspirante.

- Niente. Siamo avvolti in una fitta nebbia. Ho, però, l'impressione che gl'italiani, oltre a cantare, stiano eseguendo qualche lavoro.

Pochi istanti dopo - continua il racconto di Weber - anche la mia batteria sparava. Le prime quattro granate sono scoppiate troppo lontano, ma dopo la seconda salve il canto è cessato, lasciandosi dietro uno strascico di urla di dolore e d'invocazioni. Poi, un gran silenzio. Stamane, quando giungo all'osservatorio, la nebbia copre ancora il letto del fiume e non è possibile vedere l'altra sponda. Nehr mi racconta di nuovo quello che è successo durante la notte, mentre facciamo scaldare il thè. Stiamo sorbendo il thè, quand'arriva un vecchio tenente della territoriale, che comanda una compagnia di fanteria, nostra vicina. Ascolta il racconto dell'aspirante, sorride ed esclama:

- Vieni qui, Nehr e guarda quello che gl'italiani hanno fatto durante la notte!

Gettiamo un'occhiata attraverso le feritoie. La nebbia è scomparsa e sull'altra riva sono state piantate nell'acqua nuove file di paletti che già reggono fitte matasse di filo di ferro spinato.

E Weber conclude: - Ecco scoperto il segreto; il coro aveva lo scopo di attutire il rumore prodotto dal lavoro notturno dei soldati, che piantavano i paletti. É facile immaginarsi lo stato d'animo di quei disgraziati, che dovevano cantare sotto il fuoco della nostra artiglieria. Essi avevano combattuto con l'arma della voce, rendendo alla patria, con le loro canzoni, un grande servigio.

Bocca di Tuckett.

Anni or sono, stavo discendendo dalla cima del Dente di Sella, quando raggiunto l'incavo dell'ultimo tratto del Sentiero Benini, che precipita sulla Bocca di Tuckett, odo dei suoni distinti. Mi giro e rigiro e non scorgo alcuno. Discendo un tratto esposto e scorgo appollaiato su di uno spuntone un anziano che suona un piffero. Mi avvicino e risponde gentilmente al mio saluto. Gli chiedo chi fosse e per chi suonasse. La sua risposta fu:

- Ormai, sono uno dei pochi alpini reduci della Campagna di Russia del 1943; quando salgo in montagna mi porto dietro il piffero e suono il Testamento del Capitano per i miei compagni che dal Don non sono più tornati.

Mi scusai per il disturbo. Lui riprese a suonare ed io rimasi ad ascoltarlo. Fu allora che mi accorsi che non aveva una mano e si arrangiava con il moncherino. Mi congedai e continuai la discesa. Giunto sulla Bocca mi domandavo come avesse potuto salire fino lassù e conclusi: per gli Alpini non esiste l'impossibile.

Ho accennato a questi episodi, ed altri ce ne sarebbero, con un grande timore, quello di suscitare nell'ascoltatore o nel lettore una cinica ironia sul senso di amor di patria espresso da coloro che sugli opposti fronti andarono in guerra. Ebbene per me vale quanto ebbe a scrivere lo storico Karl Kraus: - Chi giudica farabutto il patriota dell'altrui patria, dev'essere un imbecille della propria.

Bibliografia

La Vidrína

Nella crescita esponenziale, che ha caratterizzato i numeri del periodico Rendéna giunto al numero sette, a due anni dalla pubblicazione del primo, oltre all'aumento insperato dell'interesse dei lettori, è stata avvertita un'altrettanta confortante loro compartecipazione mediante la trasmissione di documentazione fotografica, di ricerche, di saggi e di scritti vari, che la Redazione sta esaminando e vagliando nel merito. Ed hanno preannunciato altre collaborazioni additando fonti interessanti. Gli argomenti offerti sono ampi e variegati ed alcuni, per la loro corposa estensione, risultano difficilmente recepibili nelle pagine prestabilite del periodico. Tuttavia, per soddisfare i desideri di una più ampia fascia di lettori interessati a conoscenze specifiche di cultura locale e per dare a giovani collaboratori la possibilità di farsi conoscere ed apprezzare, la Redazione ha valorizzato il periodico con un'ulteriore iniziativa editoriale i Quaderni di Rendéna, una collana affidata a Giuseppe Leonardi, che verrà mano a mano a costituire la Vidrína del sapere della valle. Di ciò possiamo già darne un saggio con la pubblicazione ormai imminente del I Quaderno dal titolo:

VALENTINO MAESTRANZI

Kaiserjäger di Rendéna

Memorie di un emigrante in guerra e in prigionia

London, Lemberg, Wladivostock, Isle Man

Il memoriale, con la sua completezza editoriale, veste il carattere del saggio letterario immerso nella vicenda storica della Grande Guerra (1914/1920), durante la quale tutta la giovinezza del protagonista fu un odisséa. Il prologo è stato curato da Rudy Cozzini, giovane ricercatore di Giustíno, che ha recuperato il diario originale e ne ha proposto la pubblicazione al figlio di Valentino, Vito, residente a Londra.

Nella prefazione fra l'altro il Cozzini scrive: Valentino Maestranzi, soldato obbediente e signore galantuomo che subisce il crimine della guerra ma non le parole di odio per il nemico, ci ha lasciato un manoscritto, una testimonianza, da cui traspare qualche cosa di veramente omerico, capace di arricchire la microstoria della nostra terra, raccontata con realismo descrittivo e sincera autenticità.

Gli apparati (pródromi, cronología e interpretazione filológica) sono stati approntati dallo storico Giuseppe Leonardi, che alla fine scrive:mi sono commosso dinanzi ad una storia vera che il conte Sandro Prada avrebbe premiato con la Stella dell'Ordine del Cardo, additando Valentino quale punta estrema d'un autocoscienza, che non rifiuta la fatica di rendere testimonianza al suo destino, ma che anzi dimostra nello scrivere forza di realtà, che interamente esplode nel racconto.

Infine lo psicologo Daniele Ríbola prepara il lettore ad una lettura attenta e scrive: c'è qualcosa di grande nel "piccolo uomo" Valentino Maestranzi, che non ha bisogno di fare grandi discorsi, di dichiarare una propria filosofia di vita; gli basta raccontare l'esperienza vissuta, talvolta con dettagli apparentemente insignificanti, da scrittore minimalista potremmo dire, e fra le righe lasciarci scoprire la nascosta grandezza di un uomo che ha saputo non solo sopravvivere alle disavventure, ma anche essere uno straordinario testimone della storia difficile di questo secolo, senza mai farsi travolgere dalle opposte fazioni. Non è poco.

Le oltre 70 pagine, le fotografie originali e la piantina geografica che collega i luoghi delle vicissitudini dolorose e delle amare esperienze nelle regioni asiatiche dell'est e l'estenuante ritorno verso le terre dell'ovest europeo, danno spessore e rigore storico al I Quaderno di Rendéna che soddisferà anche l'aspettativa del lettore più esigente.

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Questa pagina e stata aggiornata: 20 maggio 1996
© 1996 Editrice Rendena-Tione

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