DOSSIER SCARPE (IN)GIUSTE
OK. LA SCARPA E'...INGIUSTA
È partita la "Campagna scarpe giuste": scriviamo subito a Nike e Reebok perché rispettino i lavoratori
 

Una scarpata in faccia alla potente Nike l'aveva data in maggio l'americana "Made in US Foundation" denunciando il ricorso a
bambini di dieci-undici anni nelle fabbriche asiatiche che producono in subappalto le famose scarpe sportive con lo "sbaffo".
Nike aveva nicchiato; ma dopo qualche tempo aveva ricevuto, stavolta una pallonata in faccia: la copertina della famosa rivista
Life che ritraeva un bambino pakistano intento a cucire palloni di cuoio marcati Nike. D'altronde da qualche anno l'attivista Jeff
Ballinger, fondatore del gruppo Press for Change, porta prove su prove circa le scandalose differenze fra le remunerazioni dei
lavoratori indonesiani della catena Nike (poco più di un dollaro al giorno) e quelle dei campioni della pubblicità a cui la
multinazionale affida la propria immagine.

Per difendere la quale, la società nega che il lavoro infantile sia diffuso presso i suoi fornitori asiatici. Ormai tutta la produzione
di scarpe sportive è volata verso l'Asia dei paesi a bassissimo salario: dapprima Corea e Taiwan, poi quando là i sindacati sono
diventati forti, via di corsa verso i nuovi paradisi, Vietnam Indonesia e Cina.

Non è solo una questione di lavoro under 14. Se è vero, come è vero, che i bambini lavorano quando i loro genitori non
guadagnano abbastanza, ecco che le paghe ridicole degli stessi adulti diventano il problema centrale.

NIKE E REEBOK

In un primo tempo la protervia della società si è spinta al punto di dire: "Beh, se non vogliamo far pagare troppo le nostre
scarpe ai ragazzi europei e americani, dobbiamo risparmiare sui costi di produzione". Si vedano le tabelle allegate, da cui risulta
che sul prezzo finale di vendita di un paio di scarpe pari a lire 112.000, la manodopera incide per lire 1.890; e che ad esempio
la società Bata, che pure non è la Caritas, si permette di pagare i lavoratori ben di più. Il fatto è che intasca di più un solo
campione sportivo - per la pubblicità fatta alla Nike - di tutti i lavoratori indonesiani che sono decine di migliaia.

Nike ha bel dire: "Noi siamo a posto, abbiamo approvato spontaneamente un codice di condotta che i produttori locali devono
seguire in ogni paese del mondo, Indonesia o Vietnam che sia". Peccato che questo sia: a) ridicolo nei contenuti (non si parla
affatto di salario confacente ai bisogni vitali di un lavoratore, e le ore massime di lavoro settimanali devono essere...60, cioè
dieci al giorno per sei giorni la settimana); b) privo di ogni meccanismo di verifica esterno alla Nike stessa. Insomma chi va a
verificare se gli svariati fornitori asiatici rispettano il codice volontario della Nike?

Cambiamo marca. La Reebok, secondo colosso della scarpa sportiva , in Italia detiene il 20% del mercato contro il 30% della
Nike, passa per essere migliore. Dà premi di bontà ogni anno ad attivisti dei diritti umani, e ha un codice di condotta più serio.
Rimane il problema che nessuno ne verifica il rispetto. E così, ai salari da fame si somma l'assoluta insicurezza del lavoro, la
pericolosità degli ambienti e la coazione fisica. Le multinazionali se ne lavano le mani: non sono loro dipendenti quelli, loro
comprano e basta. "Non dimentichiamo che negli anni 70 le multinazionali si opposero a ogni tentativo da parte dell'Onu di
imporre loro dei codici di condotta coercitivi; ora si fanno belle con codici volontari, una burletta" dice Pradeep Metha, indiano,
direttore dell'organizzazione di consumatori Cuts.

BOICOTTAGGIO

Ecco il perché della campagna "Scarpe giuste" lanciata dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (autore del libro
"Sulla pelle dei bambini", denuncia del lavoro infantile nel mondo). La Campagna, che Mani Tese appoggia, chiede ai cittadini e
consumatori italiani di mandare agli uffici italiani di Nike e Reebok e ai loro rivenditori apposite cartoline per chiedere codici di
condotta seri (come quello proposto qui a fianco) e soprattutto verificati da controlli indipendenti condotti da sindacati e
associazioni.

"La campagna si associa a iniziative analoghe in corso in Francia, Inghilterra, Olanda e Stati Uniti" dice Francuccio Gesualdi
coordinatore del Centro di Vecchiano; "Prendiamo di mira Nike e Reebok perché sono le più grandi multinazionali del settore,
che fanno la parte del leone anche sul mercato italiano. Ciò non significa che le imprese minori siano esenti da critiche. Anzi,
abbiamo motivo di credere che le loro scarpe siano ottenute più o meno nello stesso modo. Purtuttavia, abbiamo pensato di
rinviare la pressione su di loro al momento in cui avremo maggiori informazioni sul loro operato. Del resto sappiamo che la
concorrenza impedisce alle piccole imprese di comportarsi diversamente finché non cambiano le grandi".

Per farle cambiare i consumatori hanno un mezzo: il boicottaggio come misura estrema, e in una prima fase (cioè quella che è in
corso), l'avvertimento all'impresa, sotto forma di cartolina firmata. Più ne arrivano meglio è.

Ma intanto... avete bisogno di un paio di scarpe sportive e non sapete più a che santo votarvi? In attesa di avere informazioni
più precise sul comportamento delle marche italiane, o di una conversione di Nike e Reebok, l'esperto di sfruttamenti Jeff
Ballinger consiglia: "Verificate che le scarpe sia quantomeno "made in Corea" o "made in Taiwan": là le condizioni di lavoro e di
salario sono nettamente migliori rispetto agli altri paesi asiatici".
 

BOICOTTAGGIO
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