GLOBALIZZAZIONE LAVORO NEOLIBERISMO SUPERAMENTO

PIATTAFORMA

GLI OSTACOLI

LA CONFEDERAZIONE

Forse mai nella storia del capitalismo il dominio ideologico del potere economico è stato così massiccio come da quando si è diffusa la balorda teoria della "fine delle ideologie". A partire dall'inizio degli anni '80 ma con inusitata virulenza dopo il crollo dei regimi a capitalismo di stato dell'Est europeo, quello che è stato definito il "pensiero unico" dei padroni di tutto il globo, ha egemonizzato le interpretazioni del mondo di dominatori e dominati, sfruttatori e sfruttati, governi, partiti e sindacati formalmente di destra o sinistra. Persino componenti della sinistra antagonista, pur volendo combattere il "neo-liberismo" e il dominio dei cosiddetti "mercati" (termine più suggestivo rispetto a "capitale finanziario", perché non porta in sé contraddizioni e si presenta come tecnico e neutrale), hanno finito per interiorizzare alcune categorie-chiave del pensiero dominante, prendendo per buone una parte delle utopie e delle autodescrizioni o celebrazioni che il sistema capitalistico, nel suo momento di presunto o reale massimo dominio, diffonde a proposito di se stesso. In sintesi, si è realizzata ad ampio raggio l'"interiorizzazione" della ideologia del capitale e la si è chiamata "modernità", "realismo", "gestione del presente", ecc.

GLOBALIZZAZIONE, POST-FORDISMO O PRE-FORDISMO

I termini globalizazione e post-fordismo hanno accompagnato il dibattito e la battaglia politica, in particolare in Italia, nell'ultimo biennio-triennio, fino alla nausea; sono stati usati per spiegare tutto e il contrario: ma alla fine, diradato il fumo ideologico, è apparso chiaro che l'enorme accentuazione di queste due supposte "nuove" fasi capitaliste fornisce poderose giustificazioni ideologiche e armi contro lo stato sociale, contro i diritti dei lavoratori, contro gli ostacoli alla "flessibilità" totale, alla precarizzazione. In una prima fase, l'espressione "post-fordismo" (non a caso vaga, indefinita e senza riscontri in positivo) è stata usata in parallelo a termini come "toyotismo", "just in time", produzione "snella"; per indicare cioè una nuova supposta forma produttiva che avrebbe dovuto avere nella compartecipazione dei lavoratori, nel loro controllo reciproco, nel loro ben accetto autosfruttamento i punti di forza. Successivamente, si è allargato il senso della definizione, contrapponendo il "nuovo" lavoro "autonomo" al lavoro dipendente, sostenendo che l'allargamento vistoso del primo segnala il superamento del "compromesso fordista" e dei suoi corollari: stato sociale, garanzie salariali, occupazione stabile e a tempo pieno, sanità e pensioni assicurate, ecc.. Ma le conclusioni politiche tratte, in Europa, dai governi di destra o di sinistra, dai partiti maggioritari della sinistra filocapitalista nonché dai sindacati di stato (e dal PDS in Italia su tutti) sono state la contrapposizione tra cittadino e lavoratore, tra lavoratore dipendente e "autonomo", tra lavoratore italiano e immigrato, tra lavoratore a tempo pieno e a tempo parziale, tra giovane e pensionato, ecc., al fine di abbassare i livelli di garanzie e di diritti di tutti. Anche il concetto di globalizzazione viene usato come monito verso i cosiddetti "garantiti" (concetto nefasto quando lo coniò Asor Rosa e riesumato all'ultimo congresso PDS, con intenti altrettanto pericolosi), affinché rinuncino ai loro residui sacrosanti diritti per "far spazio" ai cosiddetti non-garantiti. Nessuno ha mai dimostrato, nonostante il diluvio di pubblicazioni mondiali sull'argomento negli ultimi 5 anni, che l'attuale fase di integrazione del mercato mondiale (che vede, ad esempio, del tutto ai margini o esclusa quasi tutta l'Africa, buona parte del centro-Asia, la netta maggioranza della Cina, ecc.) sia un vistoso salto di qualità rispetto ad altre fasi storiche. C'è invece chi, dati alla mano e senza ottenere risposte valide (qui da noi De Cecco, Bellofiore ed altri), ha spiegato che fasi altrettanto significative di integrazione (se non di più) si erano avute ad es. negli anni di questo secolo che precedettero la Prima guerra mondiale: e Marx stesso, quando nel "Manifesto del partito comunista" parla della mondializzazione del mercato e del superamento delle economie nazionali, lo fa pressoché con gli stessi termini (se non addirittura più accentuati) degli attuali cantori della globalizzazione, forse anche sottovalutando quella futura funzione dello stato come grande "capitalista collettivo" che, da allora fino ad oggi, è sceso in campo con successo per attenuare l"anarchia" capitalista. Ora è certo innegabile che i mercati finanziari siano oggi integrati come non mai, che il capitale finanziario non abbia mai potuto circolare così liberamente, che lo spostamento delle produzioni laddove il salario è a livelli infimi sia assai diffuso, che il numero delle imprese multinazionali non sia stato mai tanto elevato e che le reti telematiche sono ben altra cosa dal telegrafo, ecc. Esistono però varie controtendenze o elementi di continuità con il passato che l'ideologia dominante non cita o trascura perché oscurano i fini politici che l'enfasi eccessiva sulla globalizzazione vuole perseguire. E cioè: 1. poiché il capitale può spostarsi con estrema mobilità, per trattenerlo nei paesi ricchi/sviluppati bisognerebbe abbassare drasticamente i livelli salariali, le garanzie sociali, i diritti dei lavoratori; 2. poiché la mondializzazione sarebbe destinata ad annullare buona parte, o quasi tutte, le funzioni statuali, lo stato stesso dovrebbe abbandonare ogni ruolo "sociale" e/o di tutela dei lavoratori. Queste tesi, propagandate fino all'esasperazione dalle grandi strutture transnazionali (per inciso, "pubbliche" strutture, finanziate dai principali stati, con funzionari da essi nominati) come la Banca Mondiale, il FMI (Fondo Monetario Internazionale), il WTO (Organizzazione Mondiale per il Commercio), l'OCSE (l'organizzazione dei 25 stati più ricchi), ecc., sono state fatte proprie in buona parte dai governi di quasi tutti i principali paesi ricchi: ma, davvero "alla lettera", dai governi conservatori inglesi degli ultimi 18 anni. Il "modello inglese" - persino meglio di quello nordamericano - ha interpretato la mondializzazione proprio come vorrebbero dappertutto i "padroni del mondo". Per attirare i capitali di tutto il globo, per competere con i paesi "emergenti", è stata abbattuta ogni garanzia dei lavoratori e fatto le più ampie concessioni al capitale finanziario e industriale. In termini più espliciti e crudi, questo è il "modello inglese" (o tatcheriano) che gli aedi della globalizzazione vorrebbero imporre dappertutto: retribuzioni orarie che, per gli operai senza qualifica, sono scese fino a 5.000 lire l'ora, orario di lavoro settimanale che, nella maggioranza dei settori, va dalle 48 alle 68 ore, orari illimitati di lavoro anche per i minorenni, nessun minimo salariale, lavori a tempo parziale dappertutto e senza ostacoli, nessun limite neanche a straordinari, lavoro festivo e notturno, non più di 6 settimane di congedo di maternità pagate, sindacati unici in fabbrica o ufficio scelti dai padroni e obbligati a non scioperare, periodi-prova per i lavoratori che arrivano anche a 3 anni e aziende che versano per contributi sociali non più del 18%, meno della metà o addirittura un terzo del resto d'Europa. Il risultato finale di questo catastrofico modello - che il neo-laburismo ora elettoralmente vincente si è impegnato a mantenere - è che in vent'anni i cittadini poveri (cioè con reddito inferiore alla metà di quello medio) sono passati da 5 a 14 milioni, che le aziende "emigrate" in Corea tornano in Scozia perché il lavoro vi costa meno e che il quadro generale della società inglese assomiglia sempre più a quello che ispirò Dickens. Altro che post-fordismo! All'Europa, al Nord-America, ai paesi sviluppati si stanno imponendo massicce dosi di pre-fordismo! Ma dobbiamo ammettere che un "lamento" del genere, oggi, è viziato da una buona dose di eurocentrismo o comunque di logica da paese ricco: perché nel resto del mondo il profitto capitalista è stato sempre, in larghissima parte, fondato sul lavoro pressoché schiavistico di donne, fanciulli, (secondo l'ONU dai 200 ai 300 milioni di bambini producono come schiavi per le più rinomate multinazionali in tutto il mondo), immigrati, basato su rapporti non-salariati" familiari, domestici, mafiosi, clientelari, paternalistici, religiosi, ideologici. Il lavoro salariato, a tempo pieno, relativamente garantito, che dura tutta la vita fino alla pensione, è stato sempre "minoritario" se valutato su scala mondiale: e non è stato certo "regalato" dai padroni dei paesi ricchi ma conquistato con durissime lotte. Esso ha costituito una eccezione nel corso di due secoli di economia mondiale capitalistica, la quale ha utilizzato una gran varietà di forme di sfruttamento dei lavoratori. Come ha detto qualcuno, "l'albero del lavoro salariato (a tempo pieno, illimitato, stabile) ha nascosto la foresta dei lavori non salariati, illegali, a domicilio, informali", che hanno avuto sempre un ruolo determinante, Europa inclusa (e Italia naturalmente, ove la "foresta" del lavoro nero, sommerso, illegale, minorile, senza garanzie né stabilità, non è certo spuntato all'improvviso oggi). Se vogliamo, la vera novità odierna è il tentativo di formalizzare il lavoro informale, di dare piena cittadinanza alla precarietà e flessibilità totale, alla perdita di diritti e garanzie anche nei paesi a capitalismo maturo, e segnatamente in Europa e in Italia, nonostante la lunga tradizione di relativa forza difensiva dei salariati : e non è una novità da poco ! Ma il capitale è sempre stato a caccia di salari bassi e non ha mai regalato garanzie e diritti ad alcuno. In un'epoca di grande flessibilità e aleatorietà della produzione, ha particolare successo chi, come gli americani e i giapponesi, Singapore, la Corea o Hong Kong, sa diversificare le forme dello sfruttamento e farle coesistere : gli americani con la Silicon Valley e i "five dollars works" alle catene Mac Donalds, i giapponesi con la "qualità totale" Toyota e lo sfruttamento familistico di donne e bambini in Malesia o Taiwan, gli indiani con l'ingegneria informatica all'avanguardia, che attira le aziende di tutto il mondo per i servizi che fornisce, ma coesiste con un universo maggioritario di lavoro nel cortile di casa di donne, bambini controllati da padri-padroni e di migranti disposti a tutto. Ora, il lavoro "da terzo mondo", il pre-fordismo, irrompe massicciamente e ufficialmente nei paesi ricchi. Ma questa mondializzazione della flessibilità/precarietà/insicurezza non è a senso unico: altrove, aumenta il lavoro operaio e salariato, si innalzano comunque i salari, si formano strati di salariati coscienti e combattivi, si elevano i consumi, si comincia a lottare organizzati. La rivolta più significative contro il "neo-liberismo" e il "pensiero unico" capitalista, dopo quella del dicembre '95 francese, è avvenuta in Corea, un paese i cui salariati sono a lungo stati additati al mondo per la loro supposta flessibilità e docilità, che in realtà era dovuta alla militarizzazione dei rapporti sociali. Nel gennaio '97 gli operai e i lavoratori del pubblico impiego coreano, che negli ultimi dieci anni avevano saputo marciare ad un ritmo medio di aumento salariale pari all'8,5% e che oggi hanno un salario medio pari al 90% della media europea, hanno reagito alle imposizioni dell'OCSE e del FMI ponendosi all'avanguardia della ribellione anti-capitalistica nel mondo. Mentre i salariati stabili e permanenti decrescono in Europa, essi aumentano in Corea o in Cina, in Vietnam o in India : c'è, insomma, un osmosi e una tendenza alla potenziale migrazione e unificazione di lotte, obiettivi, organizzazioni, a carattere mondiale. L'avanzare dell'integrazione e del livellamento mondiale non ha necessariamente carattere negativo, soprattutto per chi crede che il superamento del capitalismo avrà dimensione universale o non sarà. Purché non ci si attardi a considerare le classiche forme del lavoro salariato stabile le uniche meritevoli di essere prese in considerazione e difese; purché le altre forme non vengano condannate o lasciate in balia dei padroni ; purché si punti alla composizione il più possibile ampia dell'intero fronte anticapitalistico, o potenzialmente tale, lavoratori e disoccupati, stabili e precari, part-time o a tempo pieno, in fabbrica o a domicilio, "manuale" o "mentale", nel privato e nel pubblico, nel "terzo" settore ecc., con la piena coscienza della fragilità di queste barriere e suddivisioni nel medio e lungo periodo.

LAVORO "AUTONOMO" E TERZO SETTORE: IL COTTIMISMO MODERNO. PER UN NUOVO STATUTO DEI LAVORATORI

Dopo un periodo di grande enfasi sul poderoso avanzare del lavoro autonomo nel nostro paese, i più avveduti commenti sull'argomento cominciano a virgolettare l'aggettivo "autonomo" ; perché di "autonomo" in una vasta gamma di lavori così etichettati non c'è proprio nulla. Essi assomigliano in tutto e per tutto al vecchio cottimismo e/o caporalato : ne sono la versione moderna, ad ennesima dimostrazione che il capitalismo ripresenta incessantemente alcune "invarianti" fondamentali, riciclate quando basta. In essi il rapporto di sfruttamento e la secca distinzione tra datore di lavoro e lavoratore sono identici (anzi, persino più brutali) a quelli del classico lavoro dipendente/subordinato e - come ha detto qualcuno - non è la partita IVA in luogo del contratto di lavoro dipendente a mutare la sostanza. E' sufficiente guardare al "mitico" Nord-Est e alle caratteristiche del lavoro "autonomo" colà tanto diffuso. Lì le grandi aziende (Benetton, Stefanel, ecc.) hanno decentrato la produzione per sottrarsi ad ogni controllo e per fare profitti maggiori, incentivando migliaia di ex-operai a mettersi in proprio e offrendo loro a credito (ben salato) macchinari. Sono così nate migliaia di mini-aziende, la cui sopravvivenza è dovuta solo ai voleri della grande azienda come unico committente. Così l'ex operaio, che si sente "autonomo" o padroncino, dopo un po' diventa vittima e complice di uno sfruttamento più intenso di quello che subiva in fabbrica. Lui e i suoi dipendenti-collaboratori - seppure in forma differenziata - vengono schiavizzati dalla grande azienda che, a totale capriccio, abbassa i prezzi, riduce le ordinazioni, accelera i tempi, dilaziona i pagamenti. I laboratori di questi "nuovi schiavi" fanno così orari infernali e ritmi insostenibili: ma neanche ciò basta perché le aziende che hanno in mano tutto ricattano e mandano in malora per ben poco. Se si protesta, se si chiede il rispetto di quanto inizialmente pattuito (a voce, perché, per lo più, non esistono contratti o documenti scritti: si procede telefonicamente), si finisce sul lastrico immediatamente, perché il committente è unico. Quale divisione strutturale dovrebbe dunque passare tra buona parte di questi lavoratori "autonomi" e il resto del lavoro dipendente? Evidentemente nessuna: se non fosse che lo Statuto dei lavoratori non prevede alcuna difesa giuridica per essi né alcun sindacato si è mai occupato seriamente di loro, dopo che fecero l'"incauta" scelta di mettersi in proprio. Dunque, il problema è organizzare per essi difese efficaci e ritrovare il filo dell'unità perso con gli altri sfruttati, non già di teorizzare incoscientemente sulla loro "alterità" o "modernità" post-fordista. Discorso simile va fatto per il cosiddetto "terzo settore". Solo la beata leggerezza di alcuni professori universitari (questi si ultra-garantiti) ha potuto produrre una sottocultura di pseudo-sinistra alternativa che ha finito per dare una mano al padronato che sfrutta il lavoro più indifeso ed il più generoso volontariato a fini di profitto. Si è irresponsabilmente teorizzato un settore "non-profit" come fondato sulla prestazione volontaria e dunque, chissà perché, estraneo alla produzione di merce, come via di fuga/salvezza dal mondo del profitto e del mercato, come, nientemeno, "luogo di costruzione di reali controparti sociali". Eppure non occorre una formazione universitaria per vedere come "tale settore sia saldamente inserito, in funzione subalterna, nel sistema capitalistico che ne costituisce il presupposto necessario […] oltre ad essere usato come strumento di controllo sociale" (Burgio), e che "il terzo settore è un comparto di attività molto magmatico che include le fondazioni bancarie e i boy-scout, ove, strumentalizzando la rimarchevole etica del volontariato, operano anche grandi imprese private che - sotto l'etichetta del non-profit - perseguono profitti. Cosa c'è di moderno nel chiedere allo stato sociale di ritirarsi per dare spazio a imprese meno efficienti che chiedono sostegno economico agli enti pubblici e competono slealmente sul mercato con le normali imprese che pagano le tasse?" (Pizzuti) Non si vede cioè ragione "moderna" e di efficienza perché lo stato debba fare da "finanziaria" per servizi pubblici gestiti da privati. Vale qui quanto detto per il lavoro "autonomo": una volta disvelata la sua natura tutta interna alle varie forme di sfruttamento capitalistico, anche i presunti lavoratori "non-profit" non solo non vanno demonizzati o osteggiati ma con essi va cercata un'alleanza basata sull'estensione anche ad essi dei diritti costituzionali in possesso dei lavoratori "normali", portando anche nel "terzo settore" il conflitto di classe al fine di superare le "cittadinanze dimezzate, le situazioni in cui il soggetto è totalmente subordinato nel rapporto di lavoro, la cui tipologia non è contemplata dal diritto in vigore e che non può ricorrere né alla magistratura né ai sindacati" (Bologna). Anche perché l'alternativa è lo scontro frontale tra lavoratori "regolari" e "irregolari" disposti, per ideologia volontaristica o perché presi per fame, a svolgere a metà salario i lavori sottratti ai dipendenti pubblici (senza contare coloro che questo lavoro sono già, o potrebbero essere, spinti a svolgerlo gratis: chi fa il servizio civile, i detenuti, ecc.). In questo quadro abbiamo innanzitutto il dovere di condurre e portare a compimento positivo una grande battaglia politica, ideale, culturale e tecnica perché si realizzi un nuovo Statuto dei lavoratori che attribuisca a tutte le fasce del lavoro dipendente e subordinato i diritti fondamentali che il "vecchio" Statuto attribuiva, pur con molte contraddizioni, ai settori più o meno stabili/regolari, battendo sul tempo il tentativo del governo, e di Treu in particolare, di contrabbandare qualche piccola concessione all'"altro" lavoro in cambio di drastiche riduzioni di diritti per tutti gli altri. MIGRANTI E STANZIALI E a proposito di "irregolari" chi lo è -storicamente- più dei "migranti", termine che andrebbe sostituito a quello di "immigrati" o di extracomunitari perché prescinde da una visione interna o eurocentrica e prende in considerazione le centinaia di milioni di persone che ogni anno sono costrette a spostarsi da un angolo all'altro di un paese o di un continente o del mondo (per esempio da dati ufficiosi i migranti interni alla sola Cina risulterebbero annualmente assai più del doppio di tutta l'immigrazione europea)? Non è male chiarire anche all'interno della sinistra antagonista che dappertutto esiste una complicità tra Stato (o autorità locali) e le imprese che beneficiano di una legislazione formalmente repressiva il cui compito non è tanto quello di espellere i migranti ma di "consegnarli mani e piedi legati a datori di lavoro che traggono profitto dalla loro vulnerabilità giuridica e hanno quindi interesse al perpetuarsi della legislazione stessa. Il debito finanziario e morale contratto dagli immigrati con i "protettori", l'illegalità in cui si pone il padrone che dà lavoro in nero, pongono il lavoratore migrante in una posizione di dipendenza e coercizione propria dello sfruttamento più sfrenato. La precarizzazione dei migranti non è prodotto d'importazione da un terzo mondo arcaico ma parte di quelle "modernissime" strategie monetarie occidentali che vedono settori sempre più vasti della popolazione attiva esclusi dal lavoro dipendente contrattuale e stabile, l'illegalità dei posti di lavoro affermarsi come nuova regola e gli imprenditori rivolgersi verso le categorie più vulnerabili (migranti, donne, bambini, ecc.)". (Alain Morice) In altri termini, dappertutto il migrante è usato per generalizzare l'assenza dei diritti, per indebolire la posizione di chi qualche diritto se l'è già conquistato. Ma proprio per questo contrapporre stanziali a migranti o, comunque, ignorare/trascurare questi ultimi e abbandonarli a sé stessi è politica suicida perché lo spauracchio dell'immigrato non è agitato per impedire il suo ingresso bensì per distruggere i diritti dei migranti sul mercato del lavoro e, a catena, degli altri. (A. Morice: "Non è che i padroni preferiscano i lavoratori stanziali, bensì i lavoratori senza diritti"). La logica va quindi rovesciata: la difesa della piena parità di diritti fra immigrati e stanziali è la migliore arma anche per difendere i diritti di questi ultimi, altrimenti costretti a rincorrere "verso il basso" i migranti stessi. Dunque la costruzione del fronte anticapitalistico passa, oltre che nelle ricercate unità succitate, anche e in quella migranti/stanziali.

NEOLIBERISMO? STATO SOCIALE O STATO PER I PROFITTI.

Abbiamo finora usato il termine "neoliberismo" ma l'abbiamo sempre virgolettato. Perché pensiamo che il capitalismo non sia mai "sua sponte" liberista, che i singoli padroni odieranno sempre la concorrenza e saranno sempre ultra-statalisti quando dovranno ricevere dallo Stato e blatereranno di liberismo solo per sottrarsi ai doveri verso la collettività: Agnelli ottiene migliaia di miliardi dalla rottamazione pagata dallo Stato, Berlusconi riceve in dono dallo Stato una quota enorme del business integrato TV-telefonia-computer, il "mitico" Nord-Est Veneto ottiene dall'odiato Stato italiano il "diritto" a pagare di Irpef un quarto del Lazio, un terzo di Irpeg e la metà di Iva, nonostante un reddito pro-capite superiore, i commercianti, in barba al liberismo, vorrebbero che lo Stato non concedesse licenze agli ipermercati, il Vaticano vuole i soldi pubblici per la scuola privata, ecc. Dunque, il liberismo è pura utopia, semplice ideologia, fumo negli occhi. L'unico liberismo totale che i padroni vogliono è quello sul mercato del lavoro; solo lì ci deve essere concorrenza senza regole: ma per se stessi i capitalisti vogliono il massimo di tutela dallo Stato. Sarebbe bene che tutta la sinistra antagonista italiana tenesse bene a mente queste elementari verità smettendo, in alcune sue componenti, di accreditare la tesi secondo la quale il "liberismo" dominante intenderebbe spazzare via gli Stati e con essi le presunte concessioni del "compromesso fordista". Nessuno Stato capitalista ha mai garantito i bisogni sociali dei salariati spontaneamente e stabilmente. La quantità di salario sociale, restituito ai lavoratori mediante i servizi pubblici, scuola, sanità, pensione, è sempre stata la posta di uno scontro tra classi e, nel contempo, una forma di regolarizzazione del conflitto. Ma, nelle fasi di crisi economica, di acuto conflitto intercapitalistico e/o di debolezza dei salariati, le quote di salario sociale sono sempre state ridotte (mai azzerate, però) per mantenere alto il profitto medio. E questo è oggi il segno del grande scontro sulla privatizzazione dei servizi: non è in discussione lo Stato ma se esso debba essere più "Stato per il profitto" e meno Stato sociale, se debba offrire una parte consistente dei servizi sociali come nuova fonte di profitto per il capitale o conservare le garanzie per i lavoratori e magari allargarle, se il business della pensione integrativa debba essere o meno messo a disposizione della finanza mondiale, e lo stesso per una parte della sanità e della scuola pubblica. Neanche i separatisti "padani" vogliono abolire lo Stato, bensì chiedono uno Stato "forte" che li sostenga e li finanzi (padroni e padroncini) o che dia solo a loro i servizi sociali (i salariati) scaricando il Sud ritenuto parassitario. Dunque è pura incoscienza dare per spacciato lo Stato sociale, rassegnandosi alla sua sparizione, e ventilare fantascientifiche attività di "mutuo soccorso" che dovrebbero garantire ai salariati italiani "altre" pensioni, "altre" scuole, "altra" assistenza medica. La lotta contro la privatizzazione, per la difesa, anzi per l'estensione a tutti, dei servizi pubblici più o meno gratuiti è lotta cruciale, epocale, che non può essere assolutamente persa: il terreno più avanzato, casomai, è quello di uno "Stato sociale europeo" che restituisca a tutti i salariati e ai settori popolari ed emarginati quote rilevanti di ricchezza comune. Questa lotta è in corso e l'esito non è dato, anche se, mentre il padronato ha fortissimi collegamenti internazionali, è ancora agli albori una "nuova internazionale" del lavoro dipendente/subordinato/salariato adeguata all'impresa. La rivolta francese del dicembre '95 -guidata peraltro dai dipendenti pubblici- e le forti proteste in Germania e anche quelle del '94 in Italia (nonostante i confederali) dimostrano che il capitale non può varcare impunemente certi confini, che, coordinando idee, obiettivi e lotte almeno a livello europeo, la tendenza dominante si può bloccare e anche invertire. Ma non aiuta certo queste lotte chi ne teorizza l'ineluttabile sconfitta, chi dice "approfittiamo della disgregazione dei servizi pubblici per liberarci dalla gabbia statale, lanciando un 'nuovo mutualismo', un associazionismo dal basso per fornire scuole, sanità, pensioni": incoscientemente dimenticando che non stiamo parlando delle sorti di piccole avanguardie ultrapoliticizzate ma della sorte di decine di milioni di persone che dovrebbero ricominciare da capo, senza difese o garanzie che non siano quelle di un'improbabile "mutualità" che, a stento, solo fasce di reddito meno disagiate potrebbero praticare, con enormi difficoltà e scarsa resa. O chi, facendo dipendere tutto dai voleri degli inafferrabili "mercati", distoglie l'attenzione dalle responsabilità dei singoli governi nazionali, e segnatamente di quelli di "sinistra", i quali, al contrario, sono attori di primo piano per l'esito di questo scontro. Le decisioni dei governi dei paesi più forti influenzeranno, ad esempio, in modo decisivo la marcia forzata degli europei verso i parametri di Maastricht: e gli ultimi governi italiani - e l'attuale in primo luogo - sono massimamente responsabili dell'accelerazione distruttiva verso quel non desiderabile traguardo. E' assai preoccupante il fatto che, nell'ultimo anno, alcune componenti della sinistra anticapitalista, pur esprimendo ostilità contro il cosiddetto neoliberismo e il "pensiero unico", abbiano quasi sempre omesso di indicare chi in Italia ne era l'esecutore mandamentario e cioè il governo Prodi e di condurre lotte contro di esso. Tanto per fare un esempio, per la manifestazione di Amsterdam contro Maastricht si sono spese molte energie ma cancellando del tutto le responsabilità del governo Prodi e dei partiti che lo sostengono: per cui i bersagli della manifestazione sono diventati via via generici e spersonalizzati: il neoliberismo, la disoccupazione, i mercati "cattivi", ecc. Contemporaneamente quasi nessuno ha speso un briciolo di energia qui in Italia per bloccare infamie "neoliberiste" come il "pacchetto Treu" che ha legalizzato il lavoro in affitto, il precariato e l'apprendistato a vita, cioè proprio quelle trasformazioni neoliberiste del lavoro contro le quali si tuona a parole.

SUPERAMENTO DEGLI STATI NAZIONALI E STATI SOVRANAZIONALI Non va confusa l'inadeguatezza degli attuali Stati nazionali a padroneggiare i profondi sconvolgimenti economici mondiali con l'esaurimento della funzione statale. L'internazionalizzazione spinta dell'economia, la massima integrazione dei mercati finanziari non implicano affatto il superamento di quel "cervello collettivo" capitalistico che finora si è incarnato negli Stati nazionali e che ha controllato in qualche modo l'"anarchia" dei singoli capitalisti, nonché, per lo più, le ribellioni dei salariati. Si sta, in modo intricato e contraddittorio, rimodellando l'intero ambito dello statalismo. Assistiamo ad un complesso passaggio, di cui nessuna forza politica o economica sembra poter controllare con sicurezza gli esiti, verso forme statuali sovranazionali, che tenteranno di sussumere una buona parte dei vecchi compiti dello stato nazionale e di svolgerne di nuovi, anche più complessi. Da una parte si vanno costituendo grandi unioni politico-economiche a livello continentale: e quella europea è certamente il progetto più ambizioso; dall'altra si estende il campo di azione di strutture politiche sovranazionali non sottomesse al potere dei singoli Parlamenti, come il FMI, la Banca Mondiale, il WTO, l'OCSE, etc.. Sarebbe però sicuramente errato desumere da questo l'esistenza di una direzione strategica omogenea, ... che miri a costituire un unico comando mondiale, un governo oligarchico planetario che riunifichi le maggiori potenze capitalistiche, La realtà invece dice che: 1. lo scontro intercapitalistico tra i grandi blocchi (USA, Giappone, Europa, etc.) è, seppur non espresso in forma violenta/militare, assai virulento e non lascia prevedere intenti comuni di lungo periodo; 2. le strutture politiche sovranazionali prima citate sono pur sempre costituite da funzionari "pubblici", stipendiati non da generici "mercati finanziari" ma dai governi dei principali paesi capitalistici: dunque, sono agenti di questi ultimi e attaccano il carro dove vuole il padrone, non dettano certo legge - come qualcuno sostiene - ai governi stessi (o meglio, lo fanno con i governi dei paesi deboli/poveri, quelli che si vogliono tenere sottomessi al Nord del mondo); 3. il trasferimento di poteri ad entità sovranazionali (ad esempio dai singoli stati europei all'ipotetico Stato unito europeo) può avvenire solo in un contesto generale politico che offra, nel contempo, sia garanzie gestionali reciprocamente convenienti per tutti i settori di padronato coinvolti, sia la riarticolazione di un sistema di ammortizzazione sociale trans-nazionale che ricrei l'integrazione/compartecipazione sociale alle sorti dell'impresa capitalistica che i singoli Stati nazionali hanno fin qui cercato di garantire. E' in questo complesso passaggio che il fronte anticapitalistico dovrebbe darsi dimensioni almeno europee, trasferendo in ambito continentale ed unificandole le tematiche e gli obiettivi per ora centrati in ambito nazionale, puntando all'affermazione di uno spazio sociale europeo come risultato di una lotta che ha , per adesso, nel "dicembre francese" il suo punto più alto: e alla messa in campo di una nuova Internazionale dei salariati e di tutti i "senza potere e senza proprietà", che, per quel che ci riguarda direttamente, dovrebbe passare in primo luogo per un efficace coordinamento tra tutte le più significative strutture europee dell'autorganizzazione sociale e del sindacalismo di base alternativo e antagonista.

PER UNA PIATTAFORMA COMUNE DEL FRONTE ANTICAPITALISTA

E' ovvio che quanto abbiamo detto finora non faccia parte di un puro esercizio teorico finalizzato al ristabilimento di un'ortodossia concettuale ma che abbia puntuali conseguenze per l'elaborazione di una piattaforma politico - vertenziale "di fase" che agevoli la costituzione di un fronte sociale anticapitalista o comunque di opposizione all'attuale linea padronale e governativa, che non si limiti alla declamazione del proprio antagonismo ma porti a casa alcuni concreti risultati. Non è compito di questo documento impelagarsi in un'articolata "lista della spesa" sindacal-vertenziale rivolta ad ogni componente di questo auspicabile fronte; quanto piuttosto di indicare gli assi tematici della piattaforma stessa che ruotino attorno alle questioni del lavoro e del salario - reddito (immediato o differito, diretto o sociale). Nessuno è in grado di dire con precisione se nell'ultimo decennio il lavoro umano produttivo nel mondo sia aumentato o diminuito, perché non vi sono dati sufficienti sull'espansione della forza - lavoro in zone cruciali come l'intera Asia e segnatamente in veri e propri continenti come la Cina o l'India. E' certo però che il lavoro utilizzato in Europa oggi è, in proporzione, minore che alla fine degli anni '80 e che, in generale, le possenti trasformazioni produttive degli ultimi tempi - in particolare la "rivoluzione informatica" - hanno reso necessario molta meno forza - lavoro per produrre molta più merce. Questo è un processo inarrestabile e permanente. Gli obiettivi della piena occupazione o, se si preferisce, del lavoro/reddito garantito per tutti hanno dunque carattere epocale e richiedono innanzitutto una drastica riduzione dell'orario medio di lavoro annuale pro - capite. Quest'ultimo, per ottenere risultati decisivi subito, dovrebbe quasi dimezzarsi: passare cioè, almeno in Europa, dalle attuali 40 ore medie settimanali nei comparti di lavoro "regolare" ad un livello intorno alle 24 - 25 ore (5x5 o 6x4 ore x giorni ). Se per lavoro intendiamo un posto a tempo pieno e durata illimitata, dall'uscita della scuola fino alla pensione, remunerato con un salario adeguato alle necessità medie, è evidente che il passaggio eventuale per tutti a 35 ore ridistribuirebbe assai poco. Ma certamente il livello necessario delle 24 - 25 ore, pressoché risolutivo per l'immediato se fosse possibile una regolamentazione "dall'alto" per tutti, esige mediazioni tattiche per essere plausibile. L'importante è che eventuali obiettivi intermedi non vadano in senso contrario oppure siano inefficaci o non credibili e, soprattutto, che non si pensi di poter trattare una materia così incandescente con un passe-partout, rivendicando cioè un unico obiettivo come la chiave di volta per scardinare il sistema. Fa parte, ad esempio, di una tale impostazione errata la secca contrapposizione tra richiesta di riduzione d'orario e rivendicazione di salario/reddito minimo garantito a tutti. I due obiettivi non solo non sono contrapposti ma si può dire (e noi con scarso successo lo sosteniamo da almeno 20 anni) che l'uno sia la condizione dell'altro. Una drastica riduzione d'orario "contrattuale" è oggi possibile infatti solo in una parte del lavoro, quello che si svolge nelle fabbriche medio - grandi o nel pubblico impiego e in una parte del terziario privato: ma altri settori decisamente consistenti di lavoro sfuggono già ora persino alla regolamentazione delle 40 ore . In certi casi persino la quantificazione del lavoro è incerta e/o impossibile (vedi il già citato lavoro "autonomo" o una parte significativa del lavoro mentale "creativo" o componenti del "terzo settore", vari lavori in nero, ecc.). Se poi teniamo conto che negli anni '80 e '90 quasi i tre quarti dei posti di lavoro creati nella Comunità Europea sono stati part-time (cioè intorno o sotto le 25 ore citate) o a tempo determinato su scala annuale (ad esempio addirittura il 30% dei nuovi posti in Spagna, mentre negli Stati Uniti pare che non più di 1 lavoratore su 10 venga oramai assunto a tempo indeterminato), è evidente che il controllo "dall'alto" sul solo orario è impossibile come evento onnicomprensivo e che si debba invece agire in contemporanea anche sul salario, in un quadro di regolamentazione generale (anche interstatale, almeno a livello europeo). Se ai lavoratori dipendenti di ogni genere si prospetta una garanzia base di salario minimo che assicuri almeno la sopravvivenza, affidando al reddito da lavoro "il di più", si fornisce quell'arma decisiva per contrattare dappertutto la quantità di lavoro erogato. Se non si deve temere più di morire di fame, si possono imporre redistribuzioni generali del lavoro e quegli orari attuali da part-time a 20-25 ore settimanali diventerebbero la norma, fornendo, insieme al salario minimo garantito dallo stato, un salario pieno e adeguato per tutti. D'altra parte le forme di reddito minimo garantito sono già a disposizione, seppur con modalità non trasparenti, di milioni di cittadini, per parti non brevi della propria vita o addirittura per tutta la vita: pensioni sociali, cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, pensioni "baby" e prepensionamenti, ecc. L'articolazione più credibile nell'immediato di questi obiettivi potrebbe essere il passaggio alle 30ore settimanali per tutti a parità di salario (con un assegno integrativo per le ore di differenza dalle 40 dallo stato) e l'introduzione generalizzata di un salario minimo garantito per tutti coloro che non hanno un orario "pieno" (proporzionale alle ore mancanti) o che non lavorano, con l'impegno di questi ultimi a svolgere un lavoro socialmente utile per un certo numero di ore: lavoro scelto e contrattato dai disoccupati nell'ambito di una gamma ritenuta valida pubblicamente. In questo caso, e più in generale nell'ambito dei lavori socialmente utili proposti dalle strutture pubbliche, appare importante che essi non siano camuffate sostituzioni - a salario ridotto - di lavoratori pubblici pagati integralmente. Una tale regolazione generale del lavoro e dei redditi, che va nella direzione di un modello non capitalista di società, muterebbe anche i termini del pensionamento, quasi personalizzandolo e rendendolo reversibile a piacere del lavoratore: si darebbe luogo cioè ad alternanza tra tempo di lavoro e di riposo, di formazione e di tempo libero o dedicato alle attività più disparate lungo tutto il ciclo attivo e "sano" di vita. Questo centrale asse rivendicativo non annulla né mette in ombra l'altra già citata questione cruciale della nostra epoca per coloro che sono "senza proprietà e senza potere", e cioè la difesa e l'allargamento - per tutti - dei bisogni garantiti dalle strutture pubbliche e, in prospettiva, dall'eventuale "Stato sociale europeo": istruzione, sanità, casa, trasporti, ecc. Oggi tale questione passa per uno scontro frontale contro la privatizzazione di tali servizi/diritti e, nell'immediato, contro quella che il governo Prodi si ripropone a breve, e cioè la privatizzazione della scuola mediante il finanziamento pubblico degli istituti privati e l'aziendalizzazione della struttura pubblica. Impedire la mercificazione della scuola e dell'istruzione, il prevalere in essa delle logiche di mercato, estendere e arricchire l'istruzione come bene sociale primario e permanente (non solo per i giovani) gratuito per tutti, è battaglia cruciale per l'intera società e non solo per gli addetti ai lavori: una sconfitta in tale campo peggiorerebbe sensibilmente per tutti la possibilità di agire in direzione del superamento delle logiche dominanti del profitto, della merce e del mercato.

GLI OSTACOLI DAVANTI AL FRONTE ANTICAPITALISTA A) IL GOVERNO DI CENTROSINISTRA Certamente l'ostacolo più grande, oggi, al dispiegarsi di una seria mobilitazione in sostegno dell'asse programmatico fin qui delineato, è il governo di centro - sinistra. Al momento dell'ascesa provvisoria dell'astro berlusconiano, ci affannammo a spiegare a quella parte della sinistra italiana che temeva vent'anni di "nuovo fascismo", come il nuovo "colosso" della destra avesse i piedi d'argilla, fosse malvisto a livello internazionale e non in grado di unificare il fronte padronale e men che meno di instaurare un "regime"; e come, piuttosto, fossero lampanti le preferenze dei "mercati" per uno schieramento di centrosinistra che sapesse imporre pesanti sacrifici ai lavoratori e alle masse popolari, nonostante la sconfitta elettorale del '94. Per questo abbiamo fermamente osteggiato, durante la campagna elettorale dello scorso anno, il programma del neo-compromesso storico e del futuro governo Prodi, il quale, palesemente, intendeva nascere in continuità con i governi Amato - Ciampi - Dini e si presentava più insidioso dei precedenti in quanto capace di "cloroformizzare" - grazie al contributo pieno di PDS e sindacati confederali e di quello altalenante e a volte recalcitrante di Rifondazione - quella vasta area popolare a noi contigua che invece, rispetto ad esempio al governo Berlusconi, aveva espresso forte opposizione. I fatti ci hanno purtroppo dato ragione. Il salasso di più di 100 mila miliardi in un anno (con una Finanziaria permanente), le privatizzazioni a tappe forzate e il passaggio di servizi e beni di pubblica utilità ai privati, l'introduzione - con il famigerato "pacchetto Treu" - del lavoro in affitto ed eternamente precario, il blocco dei pensionamenti e l'imminente ulteriore sparizione delle pensioni di anzianità, i brutali tagli occupazionali nella scuola e i soldi annunciati per la scuola privata, la "missione" albanese e i "giri di vite" verso profughi ed immigrati, il tentativo - con il decreto Bassanini - di cancellare le organizzazioni di base e la democrazia dai posti di lavoro, gli stravolgimenti della democrazia partoriti dalla Bicamerale: questo interminabile elenco di infamie dimostra che avevamo visto bene, che il governo di centrosinistra è andato più a destra di Amato, Ciampi, Dini e dello stesso Berlusconi; solo che, se a gestire i provvedimenti succitati fosse stato appunto il pescecane di Arcore, avrebbe provocato una mobilitazione oceanica. Oggi invece si fatica ben oltre il prevedibile a far reagire i lavoratori e in genere tutto il potenziale antagonismo, nonostante gli sforzi e le occasioni di lotta offerte. B) IL RUOLO DI RIFONDAZIONE COMUNISTA Il ruolo di sostegno decisivo al governo assunto da R.C. ne ha certamente ampliato assai la visibilità: ma dopo un anno si riconfermano le nostre previsioni sul fatto che R.C. assomiglia - la metafora è della minoranza interna a R.C.- ad un viaggiatore su un treno che ogni tanto tira il segnale d'allarme e per pochi minuti blocca il treno stesso, che però poi riparte e non muta affatto destinazione. R.C. non ha modificato affatto la linea del governo, subordinata ai parametri di Maastricht: nonostante i successi di immagine di Bertinotti, nella realtà Ciampi in economia e il PDS nelle istituzioni hanno proceduto, appunto, come treni "ad alta velocità" ed hanno portato a casa quel che volevano. Nella Finanziaria dello scorso anno R.C.si è gloriata di aver tolto il prelievo dalle pensioni di anzianità ma ha accettato la ben più onerosa "tassa per l'Europa" e la diminuzione delle detrazioni sanitarie; la scuola ha subito tagli enormi, che prima R.C. ha negato e poi, di fronte all'evidenza, minimizzato; la privatizzazione/aziendalizzazione del pubblico impiego è stata pienamente realizzata da Bassanini; la Bicamerale ha marciato indisturbata dopo che R.C. ha ricevuto garanzie sulla prossima legge elettorale; la democrazia nei posti di lavoro - se Bassanini presenterà il suo decreto come è ora - verrà definitivamente azzerata senza che R.C. abbia fin qui detto una parola; né R.C. è riuscita a bloccare, almeno finora, l'iter del finanziamento alle scuole private o il "pacchetto Treu", anzi l'accettazione del lavoro in affitto è stata mascherata con l'enfatizzazione dei centomila "stages" sottopagati e senza garanzie (se non quella della durata massima di un anno) fatti passare per nuovi posti di lavoro. In realtà, al di là delle contingenze tattiche, è l'intera strategia di R.C. a ruotare intorno ad un "keynesismo di sinistra" peraltro anche oscillante e poco rigoroso e ad una linea politica - che nonostante le "sparate" movimentiste bertinottiane - ha nel parlamentarismo il suo fulcro e nella presenza istituzionale ad ogni livello la "conditio sine qua non" della propria esistenza. Tutto ciò dovrebbe comportare, a rigore, una battaglia frontale nei confronti di R.C. da parte della sinistra anticapitalista italiana. Purtuttavia, malgrado la solare evidenza del quadro, è fuor di dubbio che Rifondazione Comunista è percepita da milioni di persone come radicalmente diversa dal PDS, come forza politica credibile che è dalla parte dei lavoratori, anche a causa dell'incapacità della sinistra antagonista e di base a fornire un solido riferimento politico unitario. E non stiamo parlando solo dei vecchi quadri dell'ex PCI, ma anche di moltissimi giovani, di lavoratori che pure militano nell'area Cobas e del sindacalismo di base, di settori popolari non disposti ad accettare il "pensiero unico" padronale. La battaglia interna che la minoranza di RC svolge per l'uscita dal governo è senza dubbio apprezzabile ma non ha messo finora davvero in difficoltà il partito: né, purtroppo, è riuscita per ora a saldarsi con l'opposizione sociale e politica esterna, per marciare insieme nella mobilitazione e nella creazione di una vera alternativa, anche a causa delle già citate carenze dell'area antagonista. Crediamo dunque che nei confronti di RC sia stato giusta la tattica, differenziata rispetto al governo Prodi, fin qui seguita. Invece di impegnarci in una denuncia del "tradimento" di RC, abbiamo cercato di battagliare sui fatti, scontrandoci con RC quando supportava progetti o leggi antipopolari: vedi le manifestazioni e gli scioperi dell'autunno scorso, con RC schierata frontalmente contro e impegnata nel boicottaggio; oppure la campagna contro il "pacchetto Treu" e i millantati centomila "nuovi posti di lavoro"; trovando momenti d'alleanze quando RC prendeva posizione corrette sulla scuola (vedi sciopero di giugno); partorendo insieme la manifestazione anti-Maastricht e denunciandone poi le caratteristiche assunte quando si è preteso la cancellazione in essa dei temi antigovernativi; di nuovo insieme conto la "missione" in Albania, di nuovo separati in occasione dei sedicenti fronti anti-Lega finalizzati in realtà a compattare "unità nazionale" d'appoggio al governo e alle giunte locali alla" Cacciari". A tutt'oggi, è piuttosto RC a non digerire questo nostro limpido modo di agire, ancora impigliata nella pratica vetero-PCI di cercare, alla sua sinistra, o lo scontro frontale o la sudditanza. E' stata RC a rompere l'alleanza nella mobilitazione sulla difesa della scuola pubblica; a sparare a zero contro i Cobas e il sindacalismo di base in occasione della manifestazione nazionale d'ottobre ' 96 contro la Finanziaria; a gettare alle ortiche la teoria delle "due gambe" sindacali su cui marciare (CGIL e sindacalismo di base) optando pesantemente per l'impegno o il rientro in CGIL con ben due correnti di partito; ad escludere sempre e comunque l'area antagonista da ogni occasione seria di confronto/dibattito; a cercare di provocare divisioni e frantumazioni in essa quando le linee che vi emergono confliggono con l'impostazione di RC. C) LE DESTRE " CLASSICHE" Quanto fin qui detto, non ci fa trascurare la pericolosità delle destre classiche, da AN alla Lega, da Forza Italia ai vari spezzoni ex-democristiani. Pensiamo però che, nonostante siano -tutti insieme- maggioranza diffusa nel Paese, esse manchino per ora di capacità unificante verso il fronte padronale, di credibilità all'esterno, di possibilità di controllare adeguatamente i settori popolari e salariali. Purtuttavia esiste il forte rischio che, soprattutto in alcune componenti, la destra assuma l'egemonia di significativi strati di popolo in lotta contro i sacrifici, le privatizzazioni, i tagli allo stato sociale e al salario. La Lega, che rappresenta forse la componente più di destra per separatismo sociale, razzismo, antidemocraticità e logica padronale, organizza già varie componenti popolari, convinte di poter migliorare il proprio status scaricando il Sud "parassitario" e ridistribuendo le risorse del Nord solo all'interno. Ma è AN che potrebbe assumere la guida di significative ribellioni popolari contro Maastricht e il "neoliberismo" qualora assumesse con decisione la linea che il Front National di Le Pen e soprattutto del nuovo leader Megret ha assunto in Francia dopo al rivolta del dicembre1995. Il gruppo dirigente della "nuova destra" che sta guidando l'FN francese (che ormai -elettoralmente- è il partito con il maggior numero di voti operai) teorizza la fine della "sterile divisione tra destra e sinistra" in nome di una comune lotta nazionale contro "le devastazioni del liberismo e della mondializzazione dell'economia, contro le elites e in particolare contro la classe politica cinghia di trasmissione dei mercati finanziari"; e della necessità, in una situazione definita "pre-rivoluzionaria", di "proiettare la svolta di dicembre nel futuro sotto la forma un progetto sociale e culturale coerente". A tal fine, teorizzando l'unificazione del politico e del sindacale sotto l'egemonia del partito, il FN sta creando numerosi sindacati di categoria, ha cercato di appropriarsi del 1° maggio ultimo svolgendo numerose manifestazioni in tutta la Francia, ha ripetutamente preso, a parole, le difese dei salariati, dei disoccupati, dei senza-tetto, dei licenziati contro i "sindacati istituzionali complici della distruzione del lavoro e dello stato sociale". Per nostra fortuna , AN non ha, se non sporadicamente, assunto tali posizioni, e qui da noi la "destra sociale" è rimasta bloccata dal doroteismo classico del gruppo dirigente di AN, intenzionato a non mettere in allarme il fronte padronale o i tradizionali riferimenti medio-borghesi del partito. Purtuttavia nelle borgate delle grandi città e nel meridione, AN sta crescendo con sezioni sempre più numerose ed un'attività che va a coprire tradizionali insediamenti di sinistra; e anche tra gli studenti AN rischia di avere posizioni di forza mai possedute. Tra Lega a Nord e AN altrove, la possibilità di essere spiazzati nella espressione della ribellione popolare e dei salariati contro l' "élite politica" di centrosinistra "schiava della grande finanza e del capitale internazionale " è davvero incombente. D) I SINDACATI DI STATO Durante la rivolta dei lavoratori contro gli accordi del luglio '92, alcuni tra di noi davano se non proprio per spacciati almeno in irreversibile crisi di rappresentanza e di forza i sindacati di Stato CGIL-CISL-UIL. Oggi, che quella crisi i confederali hanno superato, si rischia all'opposto di trarne ineluttabili e sconfortate conclusioni sugli orientamenti dei lavoratori e sulle nostre possibilità di ribaltare i rapporti di forza. L'errore di fondo è stato forse credere che la trasformazione del sindacato conflittuale in sindacato di Stato implicasse di per sè il crollo della presa sui lavoratori. In realtà, schiacciati dai parametri di Maastricht e dalla relativa facilità con la quale l'apparato produttivo può spostarsi ove i salariati hanno difese nulle e salari infimi, una parte considerevole di lavoratori dipendenti viene spinta ad identificarsi con le sorti dei "propri " padroni, in lotta con i padroni esteri, entrando addirittura in conflitto (vedi soprattutto l'area leghista) con i lavoratori dei paesi poveri o con i "migranti" i quali sovente, con un angoscioso "dumping" sociale, praticano loro malgrado una concorrenza "sleale". E poiché alla moderna ed efficace internazionalizzazione del capitale non corrisponde neanche uno straccio di nuova "internazionale" del lavoro dipendente e salariato, che possa operare su questo livello di contraddizione, ne consegue che il sindacalismo confederale, proprio per il suo essere "di Stato", cioè potentemente integrato nell'economia capitalistica nazionale pubblica e privata, nonché burocraticamente presente in tutte le "stanze" giuste ed utili (anche ai fini assistenziali e delle pratiche più minute che uno Stato civile dovrebbe garantire gratis a tutti), sembra a molti lavoratori poter garantire una qualche difesa più dei Cobas e del sindacalismo di base: proprio in ragione delle entrature politiche burocratiche di cui dispone, della complicità/collaborazione con il potere economico e della potenza/ricchezza materiale del suo apparato organizzativo con decine di miliardi annui a disposizione e decine di migliaia di funzionari a tempo pieno. Inutile ricordare come tutto ciò si sia vistosamente accentuato con il governo di centro sinistra che ha cooptato a tutti gli effetti il sindacato di Stato nell'area governativa. Ciò non toglie che, a maggior ragione stante queste difficoltà, l'area dei Cobas e del sindacalismo autorganizzato avrebbe dovuto - e dovrebbe a tutt'oggi, essendo il problema drammaticamente attuale- presentare almeno un programma comune e un sufficiente livello di unità organizzativa, e non una frastagliata "galassia" ( come veniamo tradizionalmente definiti) di strutture e microstrutture le cui differenze sovente sfuggono anche al lavoratore più attento. Lo sbandamento di CGIL-CISL-UIL nell'autunno '92 fu reale e vistoso: e milioni di lavoratori guardarono verso gli "autorganizzati" per capire se potessero costituire una seria alternativa al sindacato di Stato. Ma noi fummo al di sotto delle necessità e delle attese e, non essendo stati capaci di dare un segno programmatico e organizzativo unitario disperdemmo enormi forze potenziali che poi, di fatto, rifluirono nella "sinistra sindacale" o tout court nel confederalismo tradizionale. Questa enorme carenza, nonostante qualche passo avanti negli ultimi tempi, ci perseguita tutt'ora: ed è anzi il principale ostacolo soggettivo per la realizzazione del "fronte " succitato e di una vasta rivolta contro l'esistente. E, per contribuire a superare questa carenza, proponiamo la costituzione della confederazione COBAS. LA "GALASSIA" AUTORGANIZZATA SI ADDENSERÀ IN UN POLO SUFFICIENTEMENTE ATTRATTIVO? Parlare di unità è sempre facile e popolare. Ma dobbiamo rispondere innanzi tutto a due domande: è essa oggi possibile e realizzabile in tempi ragionevoli evitando che sia un pateracchio senza futuro? Ed è la divisione attuale frutto solo di personalismi, di piccoli interessi di bottega ? Le nostre risposte sono rispettivamente si alla prima, no alla seconda domanda. Vediamo di spiegarci. Esistono dentro l'area Cobas e del sindacalismo autorganizzato significative e dignitosissime differenze teorico-politiche, da non sottovalutare o occultare, a partire da quella che per noi è la più rilevante: la quasi totalità dell'area Cobas, (Cobas-Scuola, inventori della sigla e primi "propagandisti" della stessa; Coordinamento Cobas; Sin-Cobas, Slai-Cobas) non si interpreta solamente come un sindacato e non accetta la separazione (ed in questo si presenta come una forma nuova dell'agire sociale) tra attività politico, sindacal-vertenziale e culturale; anche se l'equilibrio fra politico e sindacale si realizza in forme diverse e con pesi reciproci differenti nelle organizzazioni citate : e sovente è diverso anche il senso e il ruolo assegnato alla politica, tra un Cobas e l'altro. Un'altra area, altrettanto significativa, dalla CUB-RDB al COMU, dall'USI, all'Unicobas al SdB, si presenta invece "solo" come sindacalismo alternativo, anche se poi, a volte, copre spazi classicamente politici. Noi, pur rispettando le altrui ragioni, riteniamo di stare nel giusto: e che la realtà lo confermi assai più oggi di quando -nel 1987- i Cobas vennero "inventati". E' questa un'epoca nella quale l'interconnessione tra i meccanismi politici ed economici, locali ed internazionali, tra la produzione di merci e quella di idee, è più fitta che mai: appare dunque autolesionista -oltre che praticamente impossibile- separare l'azione politica complessiva da quella sindacale, localista, di categoria, e altrettanto lo è staccare l'attività politico sindacale da una battaglia culturale contro le ideologie imperanti, che esaltano la mercificazione completa di idee e persone, inneggiano al culto del Potere, della Ricchezza e del Successo e ottundono ogni etica. Se si va a vedere con attenzione, si noterà che le organizzazioni che effettuano davvero una separazione secca politico-sindacale, delegano poi la politica a qualcuno, pur non dichiarandolo. E in particolare, facendo riferimento più in generale all'area dell'intero antagonismo sociale che avevamo cercato ad esempio di coinvolgere nell'impresa della "Convenzione della sinistra di base" (che, lo ricordiamo, proponeva a tutta quest'area una "duttile alleanza" intorno ad una piattaforma sociale/politica unitaria ed ad una formula organizzativa assolutamente rispettosa delle singole autonomie), è curioso e amaro notare come la "cordata" di strutture che all'epoca rifiutarono la Convenzione valutandola "impresa politica" e non alleanza sociale, hanno poi trovato sponda in RC le cui liste elettorali sponsorizzano dall'esterno o partecipandovi in prima persona e hanno stabilito una strana alleanza politica con significative aree pidiessine e del sindacalismo di Stato, nonché con sindaci "liberisti" e "privatizzatori" come Rutelli e Cacciari. Per queste forze, spalleggiate e coordinate dal quotidiano "Il Manifesto", sponsor "critico" del governo Prodi, l'alibi del "nuovo"(la "nuova fase", i "nuovi lavori", le "nuove produzioni") serve per giustificare il "vecchio" opportunismo, il salire sul carro del nuovo (questo si!) potere di centro-sinistra, per sfruttarne i vantaggi a proprio tornaconto. Per noi il non voler dar delega su nessun terreno a forze politiche comporta necessariamente conseguenze anche sul piano della concezione organizzativa, del rapporto con la controparte, nelle questioni della rappresentanza, della delega, del "professionismo" sindacale, dei rapporti con i centri sociali, gli studenti etc. E un secondo elemento vistoso di differenze e di scontro in questi anni è stato proprio l'atteggiamento verso il conflitto, la rappresentanza, le "concessioni" strappate alla controparte. Ad esempio la decisione delle RdB di firmare tutti i contratti del pubblico impiego pur di non perdere la rappresentanza (ottenuta peraltro in modo assai discutibile/rocambolesco) ha costituito un fortissimo freno al processo unitario: oltre che, alla luce del decreto Bassanini, una decisione assai miope. Ma in generale quest'area ha sbandato notevolmente, allontanandosi sovente dai principi originari pur di strappare il sospiratissimo "riconoscimento" da parte dell'avversario: codici di autoregolamentazione dello sciopero firmati, forme di lotta abbandonate, alleanze e patti organizzativi inverosimili e puramente strumentali hanno segnato pesantemente l'azione di questi anni. In terzo luogo, la scelta del professionismo sindacale, comunque mascherato da parte di alcune organizzazioni, è un altro elemento di differenza non privo di pesanti conseguenze sulla linea pratica di tali strutture. C'è infine un quarto "pacchetto" di differenze che invece attengono puramente alle diverse rappresentanze sociali delle singole organizzazioni e sono dunque inevitabili e indiscutibili. Ma, detto tutto ciò, l'insieme di divergenze/differenze qui abbozzate non impedisce per nulla di coprire un soddisfacente terreno unitario, anche sul piano organizzativo, tra tutta questa area. L'essere diversi su cose non trascurabili rende molto difficile - se non addirittura controproducente- stare in un'unica organizzazione: ed è questa considerazione che ci ha convinti a non differire la creazione di una Confederazione Cobas accomunata da una teoria e da una pratica omogenea. Ma è possibile, anzi fondamentale, giungere ad un patto interconfederale, oggi persino più avanzato di quel "patto di consultazione" che cercammo di portare a compimento, fallendo, l'anno scorso. Oggi si tratta di agire insieme su due piani, presentando un volto unitario all'avversario sul terreno della rappresentanza, comunque si riesca a battere/influenzare/modificare il decreto Bassanini; e su quello dell'azione comune (politico sociale complessiva, vedi le manifestazioni annuali contro le Finanziarie o specifiche di categoria) costituendo una stabile sede unitaria consultiva che tenti ogni volta di trovare l'unità, lasciando, in caso di divergenze insuperabili, piena libertà ad ognuno di seguire la propria strada. Questo patto potrebbe portare anche alla costruzione di un stabile "cartello" interconfederale dell'area Cobas e del sindacalismo di base con una sigla unica formata affiancando le principali sigle confederali di tale area: e il decreto Bassanini potrebbe avere almeno il merito di accelerare tale -comunque indispensabile- processo. Insieme, potremmo affrontare forse egregiamente l'immane compito di andare oltre l'organizzazione del "solo" lavoro dipendente stabile e dare risposte politiche e pratiche a tutto il lavoro comunque dipendente e subordinato. Qualora, però, questo patto dovesse rilevarsi impraticabile tra tutte le organizzazioni significative, nonostante il nostro massimo impegno, cercheremo comunque di realizzarlo con le organizzazioni disponibili, stabilendo inoltre rapporti più stringenti con quelle tra loro che più si impegnano in questo sforzo unitario. LA CONFEDERAZIONE COBAS Chiarito dunque che non c'è alcuna contrapposizione - c'è anzi piena complementarità - tra costituire la Confederazione e realizzare un'adeguata unità di tutta l'area autorganizzata, va però detto che l'impresa di organizzare la Confederazione va ben al di là del mettere insieme ciò che oggi rappresentano il Coordinamento Cobas e i Cobas-Scuola. Ciò che già esiste di organizzato dovrà essere motore di una ben più ampia raccolta di forze che condividano i nostri principi di fondo. Epperò l'integrazione tra le due componenti principali e l'armonizzazione di esse in tempi ragionevoli appaiono fondamentali. A tal fine suggeriamo, in via transitoria (un anno dovrebbe bastare), di procedere con alcune cautele organizzative che tengano conto che l'armonizzazione piena è un obiettivo e non un dato di partenza. LE CAMERE DEL LAVORO METROPOLITANE (autorganizzate) - LE CASE COBAS (o comunque decideremo di chiamarle) Se è valido quello che abbiamo fin qui detto sulla necessità di collegare/unificare/difendere tutto il lavoro dipendente precariato, oltre che i senza lavoro, ne consegue, sul piano organizzativo logistico, che il riferimento più adatto sarebbe in ogni città significativa almeno, una Camera del lavoro metropolitana o Casa che fosse nel contempo, una riedizione aggiornata delle sedi sindacali della fine '800 (che erano luoghi di aggregazione e iniziativa sindacale, politica e culturale), una "nuova" Casa del popolo, e un centro sociale. Dotarsi nelle principali città di un centro del genere, magari occupando un luogo adatto, ci consentirebbe di riunire le sedi delle strutture di categoria, di dare un riferimento al "lavoro senza fissa dimora", ai giovani, agli studenti, di recuperare il meglio della cultura popolare e proletaria e di proporne anche nuovi elementi , di svolgere assemblee pubbliche, di fare intrattenimento: tutto in un unico luogo. E' un impegno che fa tremare, ma assai stimolante e di grandissima portata. I TEMPI DEL PROCESSO Si propone che questa bozza di documento venga discussa -a livello categorie e intercategoriale - nelle varie sedi che dovranno inviare al "centro", in tempi ragionevoli, emendamenti, critiche, controproposte o eventuali approvazioni sostanziali: sulla base delle quali verrà formulato il documento su cui si svolgeranno i congressi provinciali o regionali o interregionali che prepareranno il congresso nazionale. Quest'ultimo andrebbe organizzato anche mediante serrate discussioni sul documento con tutte le componenti della sinistra di base, autorganizzata ed anticapitalista, che andrebbero comunque coinvolte seppur non in termini organizzativi interni, nel congresso stesso. Quest'ultimo si dovrebbe svolgere entro tre o quattro mesi.